di Francesco Mastromatteo

 Il cardinale Carlo Maria Martini ha terminato la sua esperienza terrena. Non ci accoderemo, ovviamente, al coro dei coccodrilli, ma anche a coloro che in modo poco rispettoso si scagliano in maniera becera contro la persona, addirittura esultando per la sua morte. Per noi vale il “parce sepulto”, e fermo restando il legittimo diritto di criticare l’operato e gli scritti di Martini, sappiamo che il dovere di un buon cattolico dinanzi alla morte di chiunque, è prima di tutto quello di pregare per la sua anima, ben sapendo che il giudizio finale spetta a Dio soltanto, perché solo Lui può leggere nel cuore degli uomini, giudicandone in maniera infallibile la buona fede e le intenzioni.

Non ci soffermeremo nemmeno nello stabilire se le posizioni dottrinali di Martini, definito da qualche commentatore critico “Antipapa”, possano qualificarsi come eresie vere e proprie, discussione molto seria e meritevole di approfondimenti non certo riassumibili in un articolo, o come un caso paradigmatico, ma non certo l’unico, di quella confusione imperante tra gli uomini di Chiesa da almeno un cinquantennio a questa parte, quell’ambiguità che a partire da certi documenti, e arrivando anche ai “piani alti” della gerarchia, ha portato al risuonare delle lingue di babele in campo teologico e dottrinale, che non riguarda, per inciso, solo i “progressisti” alla Martini, ma anche certi “conservatori” non meno inclini al liberalismo, vero nemico della Verità cattolica.

Quello che ci interessa valutare in questa sede è ciò che l’ex arcivescovo di Milano lascia nella memoria collettiva, quello che il “mondo” dice di lui. Se, evangelicamente, l’albero si giudica dai frutti, possiamo dire che i frutti lasciati dall’operato del card. Martini non si qualificano certamente per l’adamantina aderenza alla dottrina perenne della Chiesa. Da Repubblica al Manifesto, passando per una serie di esponenti politici della sinistra laicista, è tutto un peana verso il vescovo “del dialogo”. Questa parola sembra costituire la cifra dell’esperienza  pastorale di Martini. Come se lo scopo di un vescovo non fosse quello di divulgare la Verità di Cristo e della Chiesa, ma di instaurare il dialogo con i non credenti o i “diversamente credenti”. Nostro Signore ed il Suo Vangelo, il Magistero di Santa Romana Chiesa sostituiti dal vitello d’oro dei nostri tempi, il dio dialogo, come se il comando ricevuto da Cristo Re non fosse stato di portare a tutti l’annuncio di salvezza, anche a costo della vita, ma di andare d’accordo con tutti, a costo di tacere la Verità.

Nessuno celebra il gesuita Martini per la sua difesa del depositum fidei, l’unica ragione per cui un vescovo meriterebbe l’appellativo di santo, ma tutti lo ricordano e lo lodano per i ponti di dialogo gettati verso atei, divorziati, islamici, ebrei, buddisti, come se l’instaurare rapporti civili con i non cattolici, cosa di sé non necessariamente negativa quando avviene su questioni “profane”, fosse il fine ultimo di un pastore, soprattutto un pastore chiamato a così alte responsabilità. Martini verrà a lungo compianto per questi motivi ma non certo per una strenua battaglia in difesa della Verità, della Chiesa e dei loro diritti, così come hanno fatto Papa Pio X, il predecessore di Martini card. Ildefonso Schuster, Padre Pio. Esponenti della Chiesa che nessun giornale o politico laicista ha esaltato, che il mondo (salvo il popolo dei fedeli semplici, il cui sensum fidei è senz’altro superiore a quello dei teologi modernisti) ha vituperato o dimenticato.

E allora, ribadendo il principio che a dover giudicare l’anima del defunto cardinale è solo Dio, che preghiamo affinché non gli neghi la luce del Suo volto, possiamo concludere che il card. Martini se ne va con l’applauso del mondo, che non è il miglior salvacondotto per il Paradiso. Quel mondo la cui gloria passa presto e rovinosamente, e spesso si accompagna alla tristezza già in vita.