Proponiamo un breve estratto dal romanzo del Cardinal Newman, “Perdita e guadagno”, di cui abbiamo già trattato in un precedente post.
In questo nuovo brano Willis, un neoconvertito al cattolicesimo, discute animatamente con l’anglicano Bateman sul senso e il significato della messa cattolica. In poche righe si risponde con straordinaria efficacia alle più tipiche obiezioni del protestantesimo alla messa di sempre, le stesse che oggi, segno dei tempi, muovono i sedicenti cattolici del dopo Vaticano II. A ulteriore testimonianza di come a riti diversi corrispondano, in realtà, non forme diverse di cristianesimo ma vere e proprie religioni differenti.
Bateman fu colto di sorpresa, ma si riprese subito. «Per carità», disse, «non voglio certo trattare queste cose con leggerezza, o peggio interferire indebitamente con le tue decisioni. So bene, caro amico mio, quant’è grande la tua serietà, ma dimmi, dimmi, come giustifichi la messa, come la si fa all’estero; com’è possibile che venga definita “rito ragionevole”, quando chi vi partecipa fa di tutto per snocciolarla via in fretta e furia come se non fosse importante chi vi presenzi o chi la capisca? Su, avanti, dimmelo», aggiunse, scuotendolo dolcemente per la spalla.
«Sono questioni difficili», rispose Willis; «devo proprio parlarne? Questioni difficili», continuò, animandosi un poco e infiammandosi via via che parlava; «voglio dire, la gente le vede in modi tanto diversi: è così difficile trasmettere a uno l’idea che ne ha un altro. L’idea del culto che ha la Chiesa cattolica è così diversa da quella che ne ha la chiesa vostra, questo perché ad essere diverse sono le religioni. Non illuderti, caro Bateman», disse con calore, «non è che la nostra religione sia quella stessa che avete voi, solo un po’ più avanzata – veramente, tu diresti, un po’ troppo. No, sono diverse nella natura, non nel grado: la nostra è una religione, la vostra un’altra. E quando verrà il momento, perché verrà, in cui anche tu, che ne sei ancora così lontano, ti sottometterai al dolce giogo di Cristo; allora, carissimo Bateman, sarà la fede a metterti in condizione di sopportare i modi e gli usi dei cattolici, che forse ora che non hai la fede ti fanno trasalire. In assenza della fede, le abitudini di anni, i meccanismi cui la tua mente associava un determinato comportamento esteriore ad atti concreti di devozione interiore ti potrebbe forse imbarazzare, quando tu dovessi conformarti ad altre abitudini e crearti altre associazioni. Ma questa fede che dico io, questo grande dono di Dio, farà sì che in quel giorno superi te stesso e ti sottometta alle regole e agli usi della Chiesa nel giudizio, nella volontà, nella ragione e negli affetti, anche in tutto ciò che ami e preferisci. Ah, che in una cosa così ci voglia la fede, e che ciò che è così naturale e giusto, date le circostanze, debba aver bisogno di una spiegazione! Per me», disse, e si strinse le mani e se le mise sulle ginocchia, guardando avanti come se si abbandonasse ad un soliloquio, «per me non c’è nulla di più consolante, penetrante, eccitante e travolgente della messa, come la si celebrala dì noi. Io ci andrei sempre alla messa, e non mi stancherei mai. Non è una mera forma di parole, è una grande azione, la più grande che possa esserci sulla terra. Non è soltanto l’invocazione dell’Eterno, ma anche, se così posso dire, la Sua evocazione. Si fa presente sull’altare nella carne e nel sangue Colui davanti al quale si inchinano gli angeli e tremano i demoni. Questo è l’evento tremendo che è il fine, e l’interpretazione, di ogni singola parte del rito. Le parole sono necessarie, ma sono soltanto i mezzi, non il fine; non sono solo termini rivolti al trono della grazia, sono gli strumenti di ciò che è assai più alto di loro, della consacrazione, del sacrificio. Esse corrono, impazienti di compiere la loro missione. Si muovono in fretta, tutto si muove in fretta; perché sono tutte parti di un’unica azione integrale. Si muovono in fretta perché sono parole solenni di sacrificio, sono un’opera troppo grande perché ci si fermi sopra; come quando fu detto all’inizio: “Quello che devi fare, fallo presto”. Si muovono in fretta perché va con loro il Signore Gesù, come quando passava lungo il lago nei giorni della Sua carne, e chiamava in fretta prima l’uno e poi l’altro. Si muovono in fretta; perché come il lampo che risplende da una parte all’altra del cielo, così viene il Figlio dell’Uomo. Si muovono in fretta; perché sono come le parole di Mosè, quando il Signore scese nella nube, che invocavano il Nome del Signore quando Egli passava, “Il Signore, il Signore Iddio, misericordioso e clemente, paziente, sempre ben disposto e fedele”. E come Mosè sulla montagna, anche che noi “ci affrettiamo, curviamo il capo e adoriamo”. Anche noi, tutt’intorno, ciascuno al posto suo, siamo in ansa del grande evento, “aspettiamo che si muova l’acqua”. Ciascuno al posto suo, col suo cuore, le sue necessità, le sue preghiere, separate ma concordi, tutti guardiamo a quello che succede, ne osserviamo lo svolgimento, e ci uniamo nel suo coronamento: non seguendo dal principio alla fine con pena e senza speranza una dura forma di preghiera, ma come in un concerto di strumenti musicali in cui ciascuno, seppur diverso, concorre a creare una dolce armonia, noi prendiamo la parte del prete di Dio, lo sosteniamo, eppure siamo da lui guidati. Bambini, vecchi, e umili braccianti, e studenti di teologia, preti che si preparano a dire la messa, preti che l’hanno detta e recitano l’atto di ringraziamento; fanciulle innocenti, e peccatori penitenti; ma da questa moltitudine di menti si alza un unico inno eucaristico, e la grande azione ne è la misura e il fine. Ah caro Bateman», aggiunse, rivolgendosi a lui «tu mi chiedi se questo non sia un rito formale, irragionevole – è meraviglioso!», esclamò, alzandosi in piedi, «meraviglioso. Quando sarà che questo popolo, che tanto amo e tanto mi è caro, vedrà la luce? O Sapientia, fortiter suaviterque disponens omnia, O Adonai, O Clavis David et Bxpectatio gentium, veni ad salvandum nos, Domine Deus noster».
Ormai era evidente che sul conto di Willis non ci si poteva più sbagliare. Bateman, con gli occhi sbarrati, provò quasi un senso di spavento davanti a quell’effusione di entusiasmo che non si sarebbe mai aspettata. «Beh, Willis», disse, «allora non era vero quello che abbiamo sentito dire, che fossi come dire dubbioso, incerto, nella tua adesione al romanesimo. Ti chiedo scusa; se avessi saputo come stavano le cose, non ti avrei certo importunato».
(brano tratto da J. H. NEWMAN, Perdita e guadagno, Milano, Jaca Book, 1996, pp. 324-327)
a cura di Luca Fumagalli
Foto cortesemente offerta da True Restoration.