Un tema abbastanza discusso (e quantomai controverso) da diversi circoli e associazioni ai giorni nostri è quello della pena capitale, ormai praticamente scomparsa in Europa ma ancora praticata in paesi come Usa e Cina.
Stando a quello che dicono i benpensanti nostrani e non, essa sarebbe un’abominio e una gravissima violazione dei cosìdetti diritti umani sia che venga messa in atto in uno stato democratico che in uno stato dittatoriale, ma non manca anche una fetta di popolazione dalle tendenze alquanto forcaiole che vorrebbe vedere pendagli da forca ad ogni angolo della strada come soluzione alla criminalità.
Onde evitare l’eccesso per difetto (abolizionismo totale) e quello per eccesso (forcaiolismo), va tenuto come punto fisso il magistero della Chiesa riguardante questo argomento. San Tommaso d’Aquino, parlando di questo tema, disse che “Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità.” (Somma Teologica, II-II, q. 29, artt. 37-42) e che “Siccome alcuni disprezzano le punizioni inflitte da Dio, perché, essendo dediti alle cose sensibili, badano soltanto alle cose che vedono, la Divina Provvidenza ha ordinato che ci siano sulla terra degli uomini con pene sensibili e presenti obblighino costoro ad osservare la giustizia. Ora, è evidente che tali persone non peccano quando puniscono i malvagi” (G. C., III, C. 146, Q. De Caritate, 2, a. 8, 10 um.).
In linea con quanto affermato dal Dottore Angelico, il Catechismo del Concilio di Trento afferma: “Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell’audacia e della delinquenza.” (Catechismo Tridentino, parte terza, punto 328).
Analoghe considerazioni verranno successivamente fatte nel Catechismo Maggiore promulgato da Papa San Pio X (“413. Vi sono dei casi nei quali sia lecito uccidere il prossimo?
È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore.” (Catechismo Maggiore, parte terza, punto 413).
Alcuni potranno obiettare che la pena di morte sia un concetto veterotestamentario, legato ad usi e consuetudini ebraiche superate dalla venuta al mondo di Cristo, e ad essi risponderei con le parole di padre E. Zoffoli espresse nel suo scritto “Pena di Morte e Chiesa Cattolica”: “Tutti gli esegeti convengono che nel Nuovo Testamento non c’è un solo cenno che abroghi la Legge Antica al riguardo della pena di morte”.
Insomma, come indirettamente ci insegna San Paolo di Tarso in Rom., 13; 3-4 (“[…]i magistrati non son di spavento alle opere buone, ma alle cattive. Vuoi tu non aver paura dell’autorità? Fa’ quel ch’è bene, e avrai lode da essa; perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai quel ch’è male, temi, perché egli non porta la spada invano; poich’egli è un ministro di Dio, per infliggere una giusta punizione contro colui che fa il male.”), non dobbiamo confondere la mitezza e la bontà evangelica con il buonismo di chi spesso e volentieri non riesce ad abbandonare una sua certa arrendevolezza e passività nei confronti di chi fa il male.
Una comunità, una società di cittadini, uno stato, come persona giuridica perfetta depositaria del diritto e della forza, esercitando il diritto di difendersi e difendere i propri membri anche attraverso la pena capitale, riafferma il supremo valore della convivenza umana, negato dall’atto del criminale, ridona fiducia ai cittadini, dissuade i buoni dal farsi giustizia da soli, riconosce anche assiologicamente il supremo valore della libertà e della dignità umana che è essenzialmente RESPONSABILITA’ (in questo caso nel reo). L’elemento rieducativo della pena (che è, ed è bene ricordarlo, CASTIGO per essenza, rieducazione per accidens) non è negato nemmeno dalla pena di morte. I rei, posti innanzi al patibolo, sono di fronte al grande mistero della morte (che l’abitudinario e comodo ergastolo nemmeno lontanamente riesce a suscitare). I loro delitti, le loro vittime, li interrogano e li incalzano: spetta alla loro coscienza rispondere in quel momento. Il pericolo dell’errore giudiziario (la gran cassa sfondata dell’orchestrina abolizionista) non può inibire l’utilizzo della pena di morte, come il pericolo dell’errore non può inibire l’utilizzo della chirurgia in medicina: i giudici giudichino con ponderazione, imparzialità e prudenza (ovviamente nei casi dubbi), prima di sanzionare con una pena tanto grave. E comunque “abusum non tollit usum”. Lo stesso “Non uccidere” biblico va inteso ed è sempre stato inteso come “Non uccidere l’innocente”: non esclude assolutamente quindi l’uccidere l’aggressore per legittima difesa, l’uccidere l’avversario nell’esercizio di una guerra giusta, l’uccidere un colpevole da parte di una comunità statuale, dopo un adeguato procedimento giudiziario.
Quindi la pena di morte non è omicidio ma RISTABILIMENTO di un ordine naturale violato: non ha quindi ragioni utilitaristiche ma eminentemente morali. Papa Pio XII, in un’allocuzione del 14 settembre 1952 che è naturalmente parte del MAGISTERO PONTIFICIO, riconfermando la dottrina e la prassi millenaria della Chiesa cattolica sull’argomento ebbe ad affermare: “E’ riservato al pubblico potere privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo dopo che col suo crimine, si è SPOGLIATO del diritto alla vita”
Testo di anonimo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso
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Non sono d’accordo: ampi studi hanno dimostrato come la pena di morte non sia una soluzione al problema (in Cina e negli stati americani in cui viene applicata, la criminalità è molto più elevata rispetto ai Paesi che hanno deciso di abolirla. Senza contare quanti sono stati gli errori giudiziari, c’è da dire che san Tommaso d’Aquino e san Pio V parlavano in determinati periodi storici in cui la pena di morte si figurava come unico rimedio per tutelare i cittadini. La sicurezza delle carceri odierne non è paragonabile a quella che poteva esserci nel 1500, fuggire di prigione al giorno d’oggi è un fatto più unico che raro. Forse bisognerebbe chiedersi: a chi giova la pena di morte? Ai cittadini? E in che modo? Al condannato? E in che modo? Se il giustiziato va all’inferno, non ne saremmo in qualche modo “complici” per avergli negato la possibilità di redimersi, privandolo del tempo che avrebbe avuto a disposizione per redimersi? E la famiglia? Quale beneficio può portare la perdita di un genitore, figlio, parente…? E se un colpevole si pente sinceramente ed è sua fermo proposito non peccare più, come può condannarlo il giudice quando anche Dio lo perdona?
Le argomentazioni storicistiche, utilitaristiche e pietistiche non hanno valore cogente su questo tema, anzi sono frutto della temperie culturale degradata e sofistica che viviamo oggi, anche nel mondo cattolico.
Una comunità, una società di cittadini, uno stato, come persona giuridica perfetta depositaria del diritto e della forza, esercitando il diritto di difendersi e difendere i propri membri anche attraverso la pena capitale, riafferma il supremo valore della convivenza umana, negato dall’atto del criminale, ridona fiducia ai cittadini, dissuade i buoni dal farsi giustizia da soli, riconosce anche assiologicamente il supremo valore della libertà e della dignità umana che è essenzialmente RESPONSABILITA’ (in questo caso nel reo). L’elemento rieducativo della pena (che è, ed è bene ricordarlo, CASTIGO per essenza, rieducazione per accidens) non è negato nemmeno dalla pena di morte. I rei, posti innanzi al patibolo, sono di fronte al grande mistero della morte (che l’abitudinario e comodo ergastolo nemmeno lontanamente riesce a suscitare). I loro delitti, le loro vittime, li interrogano e li incalzano: spetta alla loro coscienza rispondere in quel momento. Il pericolo dell’errore giudiziario (la gran cassa sfondata dell’orchestrina abolizionista) non può inibire l’utilizzo della pena di morte, come il pericolo dell’errore non può inibire l’utilizzo della chirurgia in medicina: i giudici giudichino con ponderazione, imparzialità e prudenza (ovviamente nei casi dubbi), prima di sanzionare con una pena tanto grave. E comunque “abusum non tollit usum”. Lo stesso “Non uccidere” biblico va inteso ed è sempre stato inteso come “Non uccidere l’innocente”: non esclude assolutamente quindi l’uccidere l’aggressore per legittima difesa, l’uccidere l’avversario nell’esercizio di una guerra giusta, l’uccidere un colpevole da parte di una comunità statuale, dopo un adeguato procedimento giudiziario.
Quindi la pena di morte non è omicidio ma RISTABILIMENTO di un ordine naturale violato: non ha quindi ragioni utilitaristiche ma eminentemente morali. Papa Pio XII, in un’allocuzione del 14 settembre 1952 che è naturalmente parte del MAGISTERO PONTIFICIO, riconfermando la dottrina e la prassi millenaria della Chiesa cattolica sull’argomento ebbe ad affermare: “E’ riservato al pubblico potere privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo dopo che col suo crimine, si è SPOGLIATO del diritto alla vita”.
Cordialmente
Piergiorgio Seveso (della redazione di Radio Spada)
Apologia della pena di morte (by Carmine Bellezza)
Nel Natale 1998, l’associazione «Nessuno tocchi Caino», sorta da una costola
del Partito radicale, ha organizzato una marcia in Piazza San Pietro, per
chiedere l’intervento del Pontefice nella sua battaglia contro la pena di
morte. Associazioni come «Amnesty International» hanno dato il loro
appoggio. Proprio la presenza di tale associazione che, più correttamente
andrebbe chiamata «Amnesy Interational», perché ha sempre dimenticato,
volutamente, di fare campagne a favore di condannati di gruppi di destra,
per non parlare del suo appoggio a campagne filo-abortiste [finalmente,
meglio tardi che mai, se ne sono resi conto anche in Vaticano- nota di
lello-]dovrebbe dar da pensare. Il comprendere la lotta contro l’istituto
della pena capitale nell’impegno contro la «cultura della morte», come
stanno facendo molti ecclesiastici, è frutto d’una bella confusione d’idee.
Cominciamo a sfatare un assunto che l’attuale pseudo-buonismo dà per
scontato. La pena di morte, una bella cosa certo non è, ma non è illecita! È
un madornale equivoco confondere l’inviolabile diritto alla vita
dell’innocente
con la situazione del colpevole che, nel momento in cui ha spento una vita
altrui, immediatamente ha implicitamente rinunciato al proprio diritto alla
vita. Questo in astratto. Poi, in concreto, ci sono da valutare tante
situazioni. In primo luogo, ovviamente, l’accertamento della colpa, poi
l’opportunità.
Tanto per dirne una, sorprenderò qualcuno, ma nell’attuale situazione
italiana, ringraziamo il Signore che i politici e certa magistratura che ci
ritroviamo non possiedono anche quest’altra arma. Dato, come abbiamo visto,
che molti rappresentanti del mondo cattolico sono in prima fila contro tale
istituto, ricordiamo qual è il reale insegnamento della Chiesa Cattolica,
presente anche nel Catechismo del 1992. Seguiremo in quest’analisi due opere
fondamentali: «Iota Unum» di Romano Amerio (ed. Ricciardi, Milano – Napoli
1986) e, soprattutto: «Pena di morte e Chiesa Cattolica» di Catholicus (ed.
Volpe, Roma 1990).
Catholicus era uno pseudonimo usato dal defunto Padre passionista
Enrico Zoffoli. Un cattolico non può sottoscrivere l’elogio della pena di
morte, fine a se stessa, che ne fa Baudelaire (chissà se lo sanno i suoi
ammiratori). Di tutt’altro sapore è quanto ne dice Joseph de Maistre, autore
di quell’indimenticabile «Elogio del boia», secondo il quale anche l’essere
chiamato a spegnere la vita altrui è una vocazione.
La Chiesa ha sempre fondato, con Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino e
Taparelli d’Azeglio, il giudizio non negativo su tale somma pena sui
seguenti testi del Nuovo Testamento: ? 1) «Vuoi tu non dover temere
l’autorità?
Fai il bene e avrai lode da essa (.) Ma se fai il male allora devi temere
poiché il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio
e vendicatore dell’ira divina» (San Paolo Lettera ai Romani XIII,4). ? 2)
«Ma chi avrà indotto al male uno di questi piccini (.) sarebbe meglio per
lui che gli fosse appesa una macina da mulino al collo e fosse sommerso nel
profondo del mare» (Gesù nel Vangelo di San Matteo XVIII,6).
In effetti, proprio San Tommaso molto si dilunga su cosa comporta la
morte per il condannato. Certo che, a una cultura che esclude ogni
riferimento metafisico, quindi, che reputa un’altra vita solo pallida
eventualità, è normale che la condanna a morte sembra il massimo affronto.
Non a caso la massoneria, società che ha sempre diffuso l’indifferentismo
religioso, è in prima fila in tale impegno (non nei paesi anglosassoni,
però, dove influenza la vita pubblica in modo esplicito e diretto, là gli
sta bene che ci sia, eccome!).
L’Aquinate proprio circa la condanna a morte, raccomanda la massima
cura nell’assistere spiritualmente tali galeotti. Questo perché la pena
capitale paga in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la
divina giustizia, cosa che la semplice morte naturale non fa. Pertanto al
colpevole che, sinceramente pentito delle proprie colpe, offra la propria
punizione in espiazione d’esse colpe, s’applicano in pieno le parole di Gesù
al Buon Ladrone: «Oggi sarai in Paradiso con me».
Non si deve dimenticare che, secondo la cultura cristiana, prima che
cominciasse a girare il sofisma della «rieducazione» (il Senatore Pisanò,
che in carcere c’era stato, sia come giornalista sia da detenuto, raccontava
che v’aveva conosciuto ogni razza d’uomini: il rassegnato, il disperato, il
vendicativo, il tutto sommato soddisfatto, ma il «rieducato» no!), il fine
della condanna è triplice. Tanto per incominciare deve servire a proteggere
e difendere la società dai propri membri cattivi. Poi deve far espiare il
colpevole. Infine deve riparare le ingiustizie da lui commesse. La
«rieducazione» è un tipico frutto dell’utopia di Rousseau, secondo cui
l’uomo
nasce buono per natura ed è la società a guastarlo. Pertanto, in ultima
analisi, il reo è innocente! Quando l’assassino Buffet salì sulla
ghigliottina, gridò la sua speranza d’essere l’ultimo ghigliottinato di
Francia. Avrebbe dovuto gridare quella d’esserNe l’ultimo assassino! La
punizione del delitto, pertanto, risulta essere più detestabile del delitto
stesso e per la vittima non c’è che l’oblio.
Di recente [1999, epoca cui risale il presente testo, più volte
spedito alla “Sant’Egidio” da cui mai ebbe risposta. SE C’è CHI SI VUOLE
ASSUMERE L’ONORE & l’ONERE DI RI-Inviarglielo, mi farà cosa grata-nota di
Lello-]si è molto parlato di quel condannato che ha ottenuto, grazie
all’intercessione
papale, la grazia. Preferisco ricordare un altro personaggio. Alcuni anni
fa, un «serial killer» che aveva stuprato e ucciso numerosi bambini,
condannato a morte, non volle assolutamente che s’organizzassero campagne in
suo favore. Pretese che la pena fosse eseguita al più presto (normalmente
tra quando la sentenza è pronunciata, e quando è eseguita passano decenni)
proprio perché era sinceramente pentito di ciò che aveva fatto e non vedeva
l’ora di ricevere la giusta punizione. Chiese solo di poter girare una
video-cassetta, con la quale narrare la sua storia. E ciò allo scopo di
mettere le famiglie in guardia dalla pornografia, di cui era stato gran
consumatore fin dall’infanzia. Tale film si può reperire in Italia,
rivolgendosi alla piccola casa editrice protestante EUN di Marchirolo
(Varese)
La Chiesa, ripeto, non solo non fa sua, ma al contrario respinge la
celebrazione della pena capitale fine a se stessa, come atto sacro e
altamente religioso, che ne fa Baudelaire. Che la reputi cosa non bella
traspare dal codice di diritto canonico del 1917 che colpiva d’irregolarità
perpetua cioè, salvo speciale dispensa papale, rendeva permanentemente
inabili a ricevere il sacerdozio non solo il boia, non solo il giudice che
aveva comminato la pena capitale, non solo il PM che l’aveva chiesta, ma
persino i testimoni, che con le loro dichiarazioni l’avevano resa possibile
(l’Ordine francescano, poi, estendeva tale provvedimento anche ai figli di
tutti costoro, rifiutandosi d’accettarli). Però, non è illecita. Il concetto
che il reo ha rinunciato di per sé al proprio diritto alla vita, è espresso
pari pari a come l’ho scritto io, da Pio XII nei suoi discorsi ai neurologi
francesi del 14 settembre 1952 e al congresso internazionale dei giuristi
cattolici del 5 febbraio 1955.
Che Dio proibisca la vendetta privata, perché se ne vuol riservare
l’esclusivo
monopolio è verissimo. Ma che, sulla base del versetto di Romani XIII,4 da
me citato, che – sempre secondo le dichiarazioni di Pio XII in quelle
occasioni – ha valore universale, tanto nel tempo che nello spazio, sia lo
Stato sia il ministro incaricato d’eseguirla, è altrettanto vero. Che la
redenzione del reo sia un evento a carattere metafisico, è una verità ormai
taciuta da tutti. Lo ripeto. Se un’altra vita è vista solo come remota
eventualità, è normale che la pena capitale sia il massimo affronto. Ma chi
sa che la vita non finisce quaggiù, sa che vita e morte sono mezzi per
unirsi a Dio. La compagnia di San Giovanni decollato era una congregazione
incaricata di curare l’assistenza spirituale ai condannati a morte. Quante
conversioni ha operato San Giuseppe Cafasso. Quante lettere di condannati a
morte della Resistenza (e della RSI) sono esempi di conversioni solenni! Da
Nicola di Tauldo, assistito sul patibolo da Santa Caterina da Siena, a
Felice Robol, confortato da Antonio Rosmini, a Jacques Fesch, ghigliottinato
nel ’57, quanti delinquenti hanno avuto necessità della suprema condanna per
raggiungere un commovente grado di perfezione spirituale. Il fatto che la
pena capitale paghi in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la
divina giustizia è una sentenza di San Tommaso D’Aquino (Summa theologica,
voce «mors»).
La pena di morte e ogni pena, se per questo, se non si degradano a pura
difesa, o peggio ancora, ad arbitrio d’un tiranno, presuppongono sempre una
sorta di «diminuzione morale» del reo. La società non priva un colpevole del
diritto alla vita o alla libertà.
Si limita a prendere atto che, tali diritti, inviolabili
nell’innocente,
lui reo, depravando la volontà, li ha già, in un certo senso «scemati». In
conclusione: la pena di morte, anzi ogni pena, è illegittima se si pone
l’indipendenza
dell’individuo verso la legge morale, se i concetti di bene e male, giusto e
sbagliato, sono messi solo sul piano soggettivo. Se esistono in modo
oggettivo, allora anche le pene sono legittime per i violatori volontari.
Non c’è alcuno diritto incondizionato ai beni della terra. L’unico diritto
simile è quello ai mezzi necessari per la felicità eterna. Nessuna pena li
può togliere, nemmeno la pena capitale. Se poi, rinchiudiamo tutto nel campo
dell’orizzonte terreno, è normale che sembri barbara.
http://digilander.libero.it/VNereo/Lettera-aperta-a-Bergoglio-Jorge-Mario.pdf
Questo articolo è vergognoso. Non è né cattolico, né niente meno ragionevole come vorrebbe far sembrare. Dovresti vergognarvi di scrivere cose simili.
provare ad argomentare no?
se c’è un articolo di dottrina esso non può mutare, possono semmai cambiare le indicazioni pastorali. come è avvenuto.
Veder usare il termine “benpensanti” in maniera spregiativa come usa oggi è poco tradizionale. Se leggete qualsiasi cosa più vecchia di qualche decennio vedrete come “benpensanti” sia un aggettivo positivo.
Quindi vi dico che voi, difendendo Fede e Morale ed usando Retta Ragione siete benpensanti.
Non concordo assolutamente. Ad eccezione del sacrosanto diritto alla leggittima difesa,la pena di morte è un atto deplorevole e da eliminare. Piuttosto la certezza della pena nonché la sua applicabilità in regime carcerario duro (parlando sempre ovviamente di reati gravissimi ) è più penoso rispetto la pena di morte.
Troppo facile il carcere a vita: burocratico, postmoderno, orwelliano. L’esigenza, franca e leale, della pena di morte è un’insopprimibile esigenza metafisica, naturale e sociale, come l’aria che si respira, come il sole che sorge ogni mattina. Negarne la necessità è un tratto tipicamente rivoluzionario.
siamo buoni, non puniamo i cattivi, che dico mai con la pena di morte, ma nemmeno con il rigore della pena certa e proporzionata al crimine, e lasciamo pure che la convivenza vada a ramengo e che a pagare siano gli innocenti: EVVIVA e LUNGA VITA!
con la misura con cui giudicate, sarete giudicati. Posso concordare con la legittima difesa o col tirannicidio, ma la Chiesa non ha MAI messo a morte nessuno, nemmeno l’inqvisizione. Se DIO stesso non ha sterminato l’umanità quando crocifissero Cristo, se salvò Caino, se creò l’arcobaleno per dire che mai più avrebbe sterminato l’umanità et similia, e se ha concesso al ladro pentito di salvarsi, è perchè Egli non sradica la canna incrinata e fa sorgere il sole sui giusti e gli ingiusti. Il suo tribunale (come la confessione) è un tribunale di misericordia e giustizia, non di vendetta e sterminio. Se amate solo i vostri amici, quale merito avete? Non fanno così anche i pagani?