5

Pubblichiamo un estratto della conferenza del prof. Matteo D’Amico “Sinite parvulos venire ad me”. Famiglia: educazione e santificazione (Atti del XVI Convegno di Studi Cattolici, Rimini, ottobre 2008, pp. 148-150). 

di Marco Massignan

Colpisce, leggendo Anni con mio padre (Garzanti, 1978) di Tatiana Tolstoj, l’enorme attenzione che il grande scrittore russo, appassionato pedagogo, prestava onde evitare che i figli si abituassero al superfluo. In ogni cosa esigeva che fossero sobri e semplici, sia nel vestire, che nel mangiare o nei giocattoli. Anzi, a lungo riuscì ad imporre che i regali di Natale fossero fatti e costruiti in casa da genitori e parenti, e lui stesso si costruiva da sé le scarpe di cuoio che consumava nelle lunghe camminate. L’esempio citato è molto istruttivo e ci obbliga ad interrogarci più a fondo su quale sia il nesso che lega così profondamente educazione cristiana e povertà. Partirei osservando come ogni processo educativo forma il bambino o il giovane nella misura in cui lo guida dolcemente ad un contatto sempre più pieno con la realtà: forma solo la realtà. L’educazione può inoltre essere pensata anche come un processo di riconciliazione con la propria finitudine, con il limite che segna inevitabilmente la nostra vita; e, in effetti, una vita è tanto più umanamente piena ed autentica quanto più ci troviamo di fronte ad una persona abbandonata e in pace nei confronti della propria finitudine, dei propri doveri di stato, della propria vita.

Ma è il giogo della necessità che abitua a riconoscersi come finiti. Ora la necessità è la forma più profonda di povertà, l’essere ridotto nei limiti del necessario è già essere nella povertà. Viene qui in mente quella bellissima e lapidaria frase che apre il film di Tarkoskij, Sacrificio: “E’ peccato tutto ciò che non è necessario”. Certo la teologia morale ci insegna che la povertà delle beatitudini è appunto da intendersi innanzitutto come povertà di spirito: non si tratta di non possedere nulla ma, pur possedendo, di non avere un cuore carnale, attaccato alle cose di quaggiù. In questa prospettiva anche una persona oggettivamente povera di mezzi potrebbe non essere “povera di spirito”, avere cioè un cuore attaccato alle cose; e viceversa, un ricco potrebbe vivere come se non possedesse nulla, distaccato da tutto. Ma è un’evidenza storica e psicologica che non c’è cammino migliore per divenire poveri di spirito se non quello di aver conosciuto anche concrete forme di povertà materiale. (Varrà qui la pena di ricordare che “povertà” significa, in senso stretto, mancanza di qualcosa di necessario, senza che mi sia impedito di vivere; “miseria” significa invece mancare di molte cose necessarie, fino a essere impossibilitato a vivere senza l’aiuto di altre persone o enti assistenziali. Sono povero se non posso cambiare le scarpe da ginnastica; sono in miseria se non ho più le scarpe).

Ora: come i genitori possono educare i figli, quale che sia il loro stato reddituale, ad amare la povertà? La via è molto semplice e consiste nell’abituarli a rinunciare a qualcosa di lecito in ogni campo e in ogni occasione, dando per primi, ovviamente, l’esempio. E’ interessante notare a questo proposito che i genitori di santa Teresina di Lisieux, pur essendo relativamente benestanti (il padre era orologiaio e gioielliere, la madre gestiva un’azienda a domicilio di pizzi) facevano avere alle figlie in collegio una merenda a base di pane secco, mentre le loro compagne benestanti avevano torte e pasticcini. Dunque, avendo, occorre vivere come se non si avesse. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito: dalla scelta di viaggiare in seconda classe in treno, alla moderazione nei regali, al non soddisfare subito le richieste dei figli abituandoli a desiderare e attendere le cose necessarie; dalla scelta di una colazione al sacco, anziché del ristorante, alla rinuncia ad una bicicletta o ad una macchina nuova; dalla rinuncia a vestiti di marca, alla moderazione nelle vacanze e negli svaghi. Insomma, i figli dovrebbero crescere in un clima di gioiosa austerità, di essenzialità, abituandosi ad accontentarsi del necessario in tutto. E’ su queste basi, fra l’altro, che poi possono sorgere vocazioni religiose o sacerdotali solide e durature, con giovani capaci di reggere alla solitudine e alle difficoltà e di non scoraggiarsi di fronte a qualche mancanza.