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Il Prefetto della Congregazione per a Dottrina della Fede, Mons. Muller, pubblica il 22 ottobre sull’Osservatore Romano un interessante contributo sul tema della pastorale per i divorziati risposati o conviventi, dal titolo “La forza della Grazia”[1].

 

Ora, l’intervento è profondo e complesso e, sebbene da Mons. Muller ci si attendeva una qualche apertura che fungesse da battistrada alle tanto attese riforme in materia da parte di Papa Francesco, in calendario per il Sinodo del 2014, ebbene, si può affermare che tale apertura sul piano dottrinale non c’è stata, salvo ravvisarla in qualche profilo che potrebbe lasciare effettivamente qualche dubbio.

 

Muller affronta dapprima la questione dell’indissolubilità del matrimonio, ripercorrendo i passi dell’Antico e del Nuovo Testamento che ne danno compiuta ragione, e per contro confutando le dottrine delle altre fedi, in primis quella ortodossa, che ammettono la possibilità per il cristiano di divorziare e contrarre nuovo matrimonio; in séguito, dà conto del Magistero, a partire dalla Gaudium et spes in poi, ribadendo che la natura sacramentale del vincolo matrimoniale ne rende illecito lo scioglimento (che, chiaramente, è cosa ben diversa dall’annullamento rotale).

In tema di annullamento rotale, il Prefetto pone l’accento su un aspetto che già molti teologi, specie di taglio “progressista”, rilevano da tempo quale via di ripensamento del matrimonio contratto, ossia la piena consapevolezza nei coniugi della morale cristiana. Scrive Muller: “La mentalità contemporanea si pone piuttosto in contrasto con la comprensione cristiana del matrimonio, specialmente rispetto alla sua indissolubilità e all’apertura alla vita. Poiché molti cristiani sono influenzati da tale contesto culturale, i matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato, perché è mancante la volontà di sposarsi secondo il senso della dottrina matrimoniale cattolica e anche l’appartenenza a un contesto vitale di fede è molto ridotta. Pertanto, una verifica della validità del matrimonio è importante e può portare a una soluzione dei problemi”. Si tratta, come è chiaro, non di una variazione della dottrina cattolica, quanto piuttosto della indicazione di un profilo di criticità propri di questi tempi, e già per la verità invalso nei Tribunali Ecclesiastici nell’istruzione e decisione degli annullamenti. Se però così è, se davvero molte coppie hanno contratto matrimonio cattolico senza avere piena conoscenza dei precetti della Chiesa, si tratta della certificazione del fallimento dei corsi prematrimoniali: ed è difficile negare che essi siano uno strumento pochissimo efficace per la formazione degli sposi, una mera formalità che costituisce un passaggio obbligate per arrivare, comunque, alle nozze.

 

Quanto alla condizione dei divorziati risposati o conviventi, Muller ripropone con rigore i documenti e le posizioni della Chiesa cattolica: “Una riconciliazione mediante il sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo sulla base del pentimento rispetto a quanto accaduto, e sulla disponibilità «a una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». Ciò comporta, in concreto, che quando la nuova unione non può essere sciolta per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – entrambi i partner «assumono l’impegno di vivere in piena continenza»”.

Muller non si tira dunque indietro neppure dinanzi alla tipica obiezione di chi ritiene che la Chiesa non abbia risposte se non l’esclusione dai Sacramenti per quelle persone che, risposatesi, hanno una nuova famiglia e segnatamente nuovi figli che soffrirebbero dal rientro del genitore nella famiglia d’origine, ribadendo che la posizione del Magistero per l’assoluzione e la riammissione ai Sacramenti dei risposati è la convivenza “come fratello e sorella”. Certo, ci sarebbe da dire che magari anche nella prima famiglia potrebbero esserci dei figli in attesa del ritorno di un papà o di una mamma, e che vivere “da buoni amici” potrebbe essere abbastanza complicato, ma la posizione attuale della Chiesa è questa ed il Prefetto la riporta (e vi si riporta) integralmente.

 

Il Prefetto pertanto non prende alcuna posizione inedita, non innova in nessun punto la dottrina della Chiesa (cui anzi attinge a piene mani), ponendo piuttosto su un piano pastorale l’accoglienza di queste persone, accoglienza che non può tradursi nella somministrazione dei sacramenti poiché esse vivono in una situazione “contraddittoria”. Al di là della prudenza con cui viene usata nell’intervento la parola “peccato” (che compre solo due volte, sebbene è di una condizione di peccato che si sta parlando), Muller, richiamando anche le parole di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, non fa sconti neppure a quei cristiani che vorrebbero l’eucaristia perché si sentono in pace con la coscienza.

Val la pena riportare integralmente il brano, che nella sua chiarezza non presta il fianco a nessuna ambiguità: “Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di “coscienza”, è già stato respinto nella lettera della Congregazione del 1994. Certo, in ogni celebrazione della messa i fedeli sono tenuti a verificare nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato grave non confessato sempre si oppone. Essi hanno pertanto l’obbligo di formare la propria coscienza e di tendere alla verità; a tal fine possono ascoltare nell’obbedienza il magistero della Chiesa, che li aiuta “a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, n. 64). Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a decidere. “Se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione non può essere considerata lecita in alcun caso, per il fatto che la recezione dei Sacramenti non si può basare su ragioni interiori. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa norma” (cardinale Joseph Ratzinger, La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità, “L’Osservatore Romano”, 30 novembre 2011, pagine 4-5)[2].

 

Il Prefetto coglie pure l’occasione per abbattere la fasulla idea di misericordia che alcuni ritengono vada usata (tra l’altro) per giustificare l’ammissione al Sacramento dei divorziati risposati o conviventi: “Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene. Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia. Gesù ha incontrato la donna adultera con grande compassione, ma le ha anche detto: «Va’, e non peccare più» (Giovanni, 8, 11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste. Parole chiare e precise, che nulla concedono all’illusione di una misericordia concepita e vissuta come una sorta di diritto di impunità permanente accordato da (un’altrettanto illusoria immagine di) Gesù.

 

E’ importate rilevare come in tutto lo scritto di Muller il taglio sia pastorale e sulla pastorale: anche se solo l’ultimo brano è rubricato, appunto, alla “cura pastorale”, in realtà tutti i passaggi hanno a cuore non solo il corretto modo di rapportarsi con queste persone, ma anche il costante rischio che errori nell’accoglienza da parte della Chiesa possano ingenerare confusione in quei cristiani che cercano di attenersi ai precetti della morale cattolica in subiecta materia.

Questo sguardo è davvero importante, e va necessariamente connesso al caveat contro la falsa misericordia, perché prende atto che una certa errata ed indulgente prospettiva può generare scandalo, nel senso cattolico del termine. Muller pare rispondere a quella domanda che Papa Francesco pose nell’intervista a “La Civiltà Cattolica”[3], domanda di certo retorica ma la cui risposta oggi non è poi così scontata: “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”; “Anche se, per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è possibile, a favore di questi fedeli si devono rivolgere ancora di più gli sforzi pastorali, per quanto questi debbano rimanere in dipendenza dalle norme derivanti dalla Rivelazione e dalla dottrina della Chiesa. Il percorso indicato dalla Chiesa per le persone direttamente interessate non è semplice, ma queste devono sapere e sentire che la Chiesa accompagna il loro cammino come una comunità di guarigione e di salvezza”, è la risposta del Prefetto.

 

Qualche problema però, a mio modestissimo parere, è posto dalla chiusura del contributo di Muller, e non lo si può tacere.

Il Prefetto infatti, subito dopo il passo che ho appena riportato, aggiunge “Con il loro impegno a comprendere la prassi ecclesiale e a non accostarsi alla comunione, i partner si pongono a loro modo quali testimoni della indissolubilità del matrimonio”. Ora, se, come nell’intervento si legge ripetutamente, la condizione dei divorziati risposati è quella dl peccato, che preclude il Sacramento perché incompatibile con lo stato di grazia, viene da chiedersi come si possa ergerli a “testimoni della indissolubilità del matrimonio”, addirittura se tale comportamento è tenuto unitamente al partner. Va infatti tenuto presente che il divorziato risposato che col partner continui a convivere more uxorio (perché se ci vivesse “da buon amico” per il solo bene dei figli, non si porrebbe alcun problema, a leggere il Magistero pure riportato da Muller) è un peccatore persistente e pervicace: in altri termini, è in peccato permanente. Finché convive more uxorio, risposato o meno che sia, egli viola i Comandamenti di Dio ed offende il Sacramento, perciò in che modo potrebbe essere testimone proprio dei precetti che viola?

E’ di chiarimento (o fonte di ulteriore perplessità) il punto 408 del Catechismo, ove leggiamo che “Le conseguenze del peccato originale e di tutti i peccati personali degli uomini conferiscono al mondo nel suo insieme una condizione peccaminosa, che può essere definita con l’espressione di san Giovanni: « il peccato del mondo » (Gv 1,29). Con questa espressione viene anche significata l’influenza negativa esercitata sulle persone dalle situazioni comunitarie e dalle strutture sociali che sono frutto dei peccati degli uomini”: chi può dubitare che il divorzio ed il conseguente “nuovo matrimonio” non costituiscano “strutture sociali che sono frutto del peccato degli uomini”, sui quali esercitano un’influenza negativa? Cosa possano perciò testimoniare quanto alla indissolubilità del matrimonio, francamente, non si intende, quantomeno non con immediatezza.

Forse, vien da pensare, la “nuova coppia”, nel suo astenersi dalla Eucaristia, potrebbe essere una sorta di “teste esemplare”, ossia un soggetto che nella preclusione del Sacramento indichi agli altri la conseguenza del peccato pertinace.

 

Prosegue Muller “La cura per i divorziati risposati non dovrebbe certamente ridursi alla questione della recezione dell’eucaristia. Si tratta di una pastorale globale che cerca di soddisfare il più possibile le esigenze delle diverse situazioni. È importante ricordare, in proposito, che oltre alla comunione sacramentale ci sono altri modi di entrare in comunione con Dio. L’unione con Dio si raggiunge quando ci si rivolge a lui nella fede, nella speranza e nella carità, nel pentimento e nella preghiera. Dio può donare la sua vicinanza e la sua salvezza alle persone attraverso diverse strade, anche se esse si trovano a vivere in situazioni contraddittorie”. In questo brano il Prefetto asserisce dunque che la questione divorziati risposati, in punto di pastorale, non può ridursi alla sola esclusione dall’Eucaristia, e questo è fuori di dubbio, trattandosi di una situazione estremamente delicata e complessa che va affrontata in un approccio a trecentosessanta gradi; ma sostiene poi che “oltre alla comunione sacramentale ci sono altri modi di entrare in comunione con Dio”. Ora: quali sono questi “altri modi”, se ci si trova nel peccato?

Il Catechismo della Chiesa Cattolica è chiaro sul punto. Ad esempio al paragrafo 1815 esso afferma: “Il dono della fede rimane in colui che non ha peccato contro di essa”. Al punto 349 del Compendio, leggiamo: “Fedele al Signore, la Chiesa non può riconoscere come Matrimonio l’unione dei divorziati risposati civilmente. «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,11-12). Verso di loro la Chiesa attua un’attenta sollecitudine, invitandoli a una vita di fede, alla preghiera, alle opere di carità e all’educazione cristiana dei figli. Ma essi non possono ricevere l’Assoluzione sacramentale, né accedere alla Comunione eucaristica, né esercitare certe responsabilità ecclesiali, finché perdura tale situazione, che oggettivamente contrasta con la legge di Dio”. E’ chiarissimo dunque che l’impossibilità di accedere al Sacramento non è fondata su una sorta di “indegnità” derivante da un qualche arcaico stigma sociale, ma dallo stato di peccato in cui i divorziati risposati ed i loro partner restano, e vi restano per propria libera scelta. Stanti così le cose, dovrebbe essere chiara la serie di implicazioni ulteriori, tra le quali la impossibilità della salvezza perché la deliberata persistenza nella violazione della Legge di Dio presuppone il libero rifiuto della salvezza stessa.

Lo stesso Muller, in un passo precedente del saggio, asserisce: “Le benedizioni di legami irregolari sono «da evitare in ogni caso (…) perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del matrimonio». La benedizione (bene-dictio: approvazione da parte di Dio) di un rapporto che si contrappone alla volontà divina è da ritenersi una contraddizione in sé”. Ora, se non è possibile la benedizione di una condizione liberamente scelta, come può da tale condizione derivare la salvezza? In che modo “la forza della Grazia” – titolo dell’intervento di Muller – potrebbe incidere sulle anime di due persone che decidono di costituire e protrarre “un rapporto che si contrappone alla volontà divina”? Queste domande, nel testo, non trovano risposta. Quantomeno, chi scrive non la trova.

 

Il testo di Muller è comunque un contributo prezioso per comprendere la posizione della Chiesa sul problema dei divorziati risposati. Privo di fughe in avanti ma aperto ad un’analisi approfondita della problematica, è lo specchio di una Chiesa tesa alla riconquista di ogni anima, che mantiene l’attenzione desta sul necessario e delicato connubio tra verità e carità.

Qualcuno ha asserito che nel taglio di questo intervento si legga la mano di Papa Francesco[4], e del resto è del tutto plausibile che il Pontefice si sia interessato, datosi che il tema della riflessione gli sta particolarmente a cuore, in ispecial modo quanto ai suoi profili pastorali. Ebbene, anche in quest’ultima angolazione, fermo restando che la prima Carità è la Verità, e che dunque tra le due non c’è antagonismo o contrapposizione ma necessaria complementarietà, e fatti salvi i rilievi appena espressi, Muller si inserisce nel solco tracciato da Joseph Ratzinger, il quale nel 1998 scriveva: “Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul problema dei fedeli divorziati risposati, si deve inoltre sottolineare che i recenti documenti della Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le esigenze della verità con quelle della carità. Se in passato nella presentazione della verità talvolta la carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è invece grande il pericolo di tacere o di compromettere la verità in nome della carità. Certamente la parola della verità può far male ed essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione, verso la pace, verso la libertà interiore. Una pastorale, che voglia veramente aiutare le persone, deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è vero può in definitiva essere anche pastorale. «Allora conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»” (Gv 8,32)[5].

 Massimo Micaletti

 



[2] sulla posizione di Joseph Ratzinger quando era Prefetto della Congregazione, vedasi anche A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, testo integrale su http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19980101_ratzinger-comm-divorced_it.html.