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di Danilo Quinto

Tra le istruzioni di Gesù ai dodici apostoli, per la loro prima missione (Mt,10,1-23), ve n’è una alla quale i nostri tempi, così grami e torbidi, sembrano non badare: «Se qualcuno non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri calzari. In verità vi dico, nel giorno del giudizio, il paese di Sodoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città».

Quanti sono coloro che, pur consapevoli che Dio solo è giudizio, sono disposti a mettere in pratica il precetto di “scuotere la polvere dai propri calzari”? Il pensiero che si fa giudizio – e non condanna – sugli atti e sui comportamenti degli uomini, sugli eventi e le situazioni che la storia o la vita quotidiana ci propongono, semplicemente non deve esistere. A volte per pavidità, altre per rassegnazione, viene sostituito dal “pensiero unico”, morbido, accondiscendente, accomodante, annacquante. Inesistente, perché corrisponde al nulla. Si è insinuata una strisciante e pericolosissima inclinazione ad evitare l’espressione del giudizio, che corrisponde all’esigenza di non contrapporsi al “mondo” e ai suoi mali, ma di “comprenderlo”, di “farselo amico” e, spesso, di giustificarlo.

L’espressione netta e chiara del giudizio significa comprendere e valutare, dove sta il bene e dove sta il male, dove la giustizia e l’ingiustizia, dove la Verità e la mistificazione o l’ipocrisia. Vuole dire, in una parola, testimoniare la Verità, quella che precede e tempera il diritto umano, fornendogli un punto di riferimento oggettivo, una cornice. Quella scritta nell’anima di ogni essere umano. Coloro che vogliono impedire il giudizio, vogliono fare a meno della morale. La disprezzano, la calpestano e incitano ad abrogarla, per crearne una addomesticata, buona per tutti gli usi e che si concilii con i desideri individuali.

Anche il bambino, – come ha insegnato uno dei più grandi pedagoghi della storia moderna, Jean Piaget – esercita un innato giudizio di carattere morale sulle situazioni e sulle cose che fanno parte del suo mondo. Sottrargli questa possibilità – che gli è propria per il solo fatto di essere creatura umana ed è, quindi, naturale – equivale a sottrargli il respiro, ad eliminare la sua autonomia di pensiero. In una parola, ad ucciderlo. La medesima cosa accade quando molti invitano alle “buone maniere”, ad evitare polemiche, a “non disturbare il manovratore”, a comprendere che non conviene esprimersi con parole di Verità per non urtare le altrui suscettibilità, a edulcorare la realtà o ad omettere di citare le responsabilità o di dare un nome e un cognome a persone che sono colluse con il male o che lo praticano loro stesse o che lo assecondano o a situazioni di palese torbidità. Pusillanimi!

Il laissez-faire, condivisibile in campo economico, in quello della Verità morale che proviene da Dio, diventa una sola cosa: complicità. Sono tanti a praticare questa connivenza con il male. Presidiano i loro “orticelli” da coltivare e pensano di trovare spazio per farli crescere, solo attraverso la compromissione con il potere, con l’ambizione di divenire loro stessi potere. Rincorrono tattiche e strategie e le piccole miserie quotidiane che la vita ci propone. L’invidia, il rancore, l’egoismo, l’avidità. Coltivano terreni aridi, che non producono nulla, perché nulla in essi può germogliare. Generano solo la “mala pianta” della “setta”, che per sua natura odia la Libertà e la Verità. Servi, insieme disperati e onnipotenti delle loro ideologie, conducono un’aspra e feroce battaglia contro l’essere umano che non cerca queste “appartenenze” e che per evitare connivenze e complicità, si rifiuta di ricevere “protezioni” o di accondiscendere a progetti “mondani”. Tutti contrassegnati dall’ansia prodotta da Mammona, dalla bramosia del denaro e del potere da esercitare. Quale altra seduzione, del resto, ha più forza di quella che si produce se l’uomo può fare quel che vuole nei confronti di un suo simile? Senza l’”iscrizione” alla lobby che conta, sta diventando sempre più difficile anche solo sopravvivere. In tutti i campi dell’agire umano. Come se le “appartenenze” di questa terra avessero una qualche importanza agli occhi di Dio. Sono cenere. Come ciascuno di noi è cenere. Non parliamo poi di quel che accade quando chi non si “iscrive” a nessuna “setta”, usa parole di Verità. Prima, viene ritenuto un pazzo, poi scatta l’esigenza dell’emarginazione e della “gogna pubblica”.

La Verità si deve celare, occultare, a parere di questi “lupi”. «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi», dice Gesù, che prosegue così: «Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato. Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo». Esiste anche una dimensione quotidiana del martirio – profetizzata da Gesù – per chi vuole operare per la Verità di Dio. È una dimensione, da un lato, chiarificatrice, rispetto a chi vuole praticare i compromessi e perseguire il male minore rispetto alle leggi, ai comportamenti e agli atti degli uomini. Dall’altro lato, è dirimente per distinguere – oggi, come duemila anni fa – nella confusione indicibile che domina, i seguaci di Gesù. Invisi al mondo allora, come lo sono oggi.

Rispetto alla dissoluzione della morale che si vive oggi, che incide – come mai avvenuto prima d’ora – sulle nostre vite con l’obiettivo di privarle della loro identità originaria e di non accogliere nella sua pienezza la Verità che si fece Verbo e venne a vivere in mezzo a noi, si deve forse “riscoprire” proprio la dimensione del martirio quotidiano. La sua bellezza, perché solo essa contiene la promessa della salvezza eterna. Accettarla fino in fondo. Praticarla. Con ostinazione, con tenacia, con coraggio e con umiltà. È un’opera estremamente difficile, di conversione costante, quotidiana, che può sommare singole volontà individuali, per far sì che diventino corpo militante. I martiri della prima ora furono pochi, ma distrussero un impero, per costruire il mondo nuovo. Ora occorre che coloro che si vogliono battere per la Verità di Dio e solo per questa, aprano orizzonti nuovi nelle e per le loro vite e per quelle dei loro figli. Che la loro sofferenza nell’abbracciare la croce di Gesù, diventi forza. Instancabile e incorruttibile testimonianza della Verità. Solo così, il pensiero cristiano e l’azione a questo conseguente, potrà tornare ad incidere nel dibattito pubblico e abbandonare la sua attuale irrilevanza, per divenire “popolo di Dio”. Scriveva un grande santo, Giustino (100-165 d.C.): «Che poi non ci sia chi ci metta paura e ci possa asservire, noi che su tutta la terra abbiamo creduto in Gesù, è cosa evidente. È noto infatti che, decapitati, crocifissi, gettati in pasto alle fiere, gettati in catene o nel fuoco e sottoposti a quanti altri tormenti, non abbandoniamo la nostra professione di fede, anzi, quanto più subiamo di questi supplizi, tanto più cresce il numero di fedeli e dei devoti nel nome di Gesù. Come quando uno pota i tralci della vite che hanno dato frutto e quella ricresce facendo germogliare nuovi rami rigogliosi e fruttiferi, cosi avviene anche a noi, perché la vigna piantata da Cristo, Dio e salvatore, è il suo popolo». È questo il compito che Dio ha dato ai Suoi servi inutili.
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