di Jeffrey Veidlinger, pubblicato originariamente sul portale di cultura ebraica Tablet. Traduzione con adattamenti a cura di RadioSpada.
Hanno il sapore dell’ironia della storia le parole di Sergey Lavrov, MAE russo, quando tra le varie motivazioni per l’ingresso armato in Crimea fornisce anche quella di combattere l’antisemitismo degli ultranazionalisti ucraini: meno di cent’anni prima, in effetti, Mosca guardava alla penisola come a una potenziale “patria” per gli ebrei sovietici.
Gli Ebrei vivono in Crimea da secoli, divisi tra le comunità dei Krymchak, seguaci del Giudaismo rabbinico, e dei Caraiti, che invece rigettano ogni scrittura successiva alla Torah (es. il Talmud). Entrambi i gruppi sono linguisticamente di ceppo turco. Nell’Ottocento, uno storico caraita (Avraam Firkovich) provò addirittura a sostenere che la presenza ebraica nell’area datasse a prima di Cristo, fabbricando finte lapidi tombali a supporto della teoria.
Dopo aver sottratto la regione all’Impero Ottomano nel 1783, Caterina di Russia vi incentivò gli insediamenti ebraici nella speranza che gli Ebrei potessero costituire una barriera contro i Turchi. Nonostante il successivo divieto per gli Ebrei di insediarsi nelle città più grandi, la Crimea offriva ampi spazi a chi cercava fortuna.
Così, decine di migliaia di Ebrei (soprattutto giovani) giunsero in Crimea nel XIX secolo e, per la fine del secolo, la penisola era diventata una sorta di campo d’addestramento per i futuri pionieri del Sionismo, che vi misero a punto tecniche agricole da esportare successivamente in Palestina.
Primi anni ’20: il nuovo governo sovietico guarda con preoccupazione alla penisola, le cui popolose minoranze di Tatari, Ucraini e Tedeschi sono anticomuniste, e volentieri “compra” la fedeltà dei recenti immigrati ebrei concedendo loro terre e la prospettiva di un’ampia autonomia. La Crimea viene anche impiegata per “ricollocare” gli Ebrei rimasti vittime di pogrom. Addirittura, nel 1923 il Politburo accetta la proposta di costituire in Crimea una regione autonoma ebraica – salvo poi rimangiarsi la decisione pochi mesi dopo.
Tra il 1924 e il 1938 il JDC (Joint Distribution Committee, l’ente assistenziale ebraico più importante su scala mondiale), grazie al sostegno finanziario di filantropi ebrei americani, supporta gli insediamenti agricoli ebraici nella Crimea sovietica e il sogno di una repubblica ebraica rimane vivo fino all’invasione nazista del 1941, quando la maggior parte dei coloni sfolla verso oriente (Kazakhstan e Uzbekistan) per sfuggire alle truppe tedesche.
Nei Paesi dove hanno trovato scampo, gli Ebrei ristabiliscono le loro fattorie collettive, e molti si uniscono all’Armata Rossa per combattere i Nazisti. Man mano che la guerra avanza, Stalin invia negli USA e in altri Paesi alleati due rappresentanti del nuovo Comitato Ebraico Antifascista Sovietico (Mikhoels e Fefer), per sollecitare le locali comunità ebraiche alla solidarietà verso l’URSS. In seno al JDC si parla di ristabilire le colonie in Crimea, dopo aver sottratto la penisola al controllo nazista (il che accadrà nel 1944).
E’ allora che Stalin ordina la deportazione dalla Crimea di circa 180mila Tatari, come rappresaglia per il loro collaborazionismo col nemico: le famiglie vengono collocate su convogli ferroviarii con un massimo consentito di 80 kg di bagaglio, e presto decine di migliaia di Ebrei fanno ritorno in Crimea.
Mikhoels e Fefer incontrano allora il MAE sovietico Vyacheslav Molotov, per discutere l’antica idea di una “nazione” giudaica nella penisola. Molotov (divenuto Ministro nel 1939 in luogo di Litvinov, etnicamente poco adatto – aveva origini ebraiche – ai negoziati con la Germania nazista) non appariva ostile alla causa ebraica; la moglie era di famiglia ebrea; così, i due uscirono dall’incontro convinti di aver trovato un alleato per il loro progetto, e inviarono a tal proposito un memorandum a Stalin.
Ma Stalin usò la proposta della Crimea come pretesto per attaccare frontalmente la comunità ebraica dell’URSS. Del resto, il voto ONU sulla creazione dello Stato d’Israele (novembre 1947) aveva reso l’ipotesi crimea superflua e aveva rafforzato i sospetti di Stalin nei confronti del nazionalismo ebraico. Così, nella notte del 12 gennaio 1948 Mikhoels fu assassinato e nel corso dell’anno Fefer, la stessa moglie di Molotov e numerosi altri membri del Comitato Ebraico Antifascista Sovietico vennero arrestati. 15 furono segretamente processati, con l’accusa di cospirare con gli USA per la creazione di una repubblica giudaica in Crimea.
Nella notte del 12 agosto 1952 (la “notte dei poeti uccisi”) ebbe luogo l’esecuzione di 13 degli imputati, compresi Fefer e altri intellettuali e artisti yiddish. Due anni dopo, il Cremlino passò la Crimea sotto l’autorità della Repubblica ucraina segnando il tramonto della prospettiva di una “nazione” ebraica.
Ancora oggi, gli anziani ebrei del luogo preferiscono ricordare la Crimea come una bella utopia, e dimenticare che le colonie agricole furono largamente costituite in modo forzato e con l’intervento dell’Armata Rossa, che arrestava o uccideva quanti opponevano resistenza. In Crimea c’erano scuole yiddish, dove si studiavano matematica, storia, marxismo-leninismo, agronomia; la sera si andava nei teatri yiddish; la convivenza con le altre minoranze etniche era pacifica. Molti ricordano i trattori e i macchinari e utensili agricoli (all’avanguardia per l’epoca) che le organizzazioni filantropiche ebraiche statunitensi inviavano alle loro fattorie. I nomi degli insediamenti riflettono l’ottimismo dell’epoca: ad esempio Fraylebn (yiddish: “vita libera”); Fraydorf (yiddish: “villaggio libero”); Yidendorf (yiddish: “villaggio ebraico”); Ahdut (ebraico: “unità”); Yetsirah (ebraico: “creazione”); Herut (ebraico: “libertà”); Pobeda (russo: “vittoria”).
Oggi, circa 17mila Ebrei abitano ancora la penisola.