Da un altro lettore, e medico, riceviamo un contributo al dibattito sull’espianto e trapianto degli organi umani (qui la precedente “puntata”). Rinnoviamo l’invito a chiunque sia interessato a replicare o a farci pervenire le sue osservazioni sul tema. [RS]
di Enrico De Dominicis, specialista in Anatomia Patologica, dottore di ricerca in Patologia Umana, medico legale in formazione specialistica
È normale che spesso, avendo a che fare con protocolli, metodiche, teorie e tecniche scientifiche e biologiche, si venga portati a credere che l’uomo abbia la possibilità di curare e modificare l’andamento, se non di qualsiasi patologia, almeno della maggior parte. Purtroppo nella mia esperienza questo non è per nulla vero e chi ritiene di avere le chiavi della vita e della morte inganna se stesso e il prossimo. Questo è il caso di un tema per nulla scontato quale quello della cosiddetta diagnosi di “morte cerebrale”. Ma se è morte e basta, perché chiamarla “cerebrale”?
Da un punto di vista prettamente medico legale, la Lega Nazionale contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente porta avanti una battaglia del tutto legittima e di tutela minima dei cittadini.
Occorre sapere che la pratica medica di qualsiasi tipo è illegittima fino a quando il paziente non esprime un consenso motivato e basato su una corretta spiegazione da parte del sanitario curante. Questo dovrebbe valere a maggior ragione nei confronti di una persona che, potenzialmente, potrebbe diventare un donatore di organi. La cosa drammatica in questo caso è che non esiste, se non da parte di questa Associazione, alcuna informazione ovvero sensibilizzazione riguardo tale problema. La regola aurea è il “silenzio assenso”, cosa che contraddice in maniera palese il consenso informato.
Attualmente è in vigore la Legge n. 91 del 1° aprile 1999, detta del silenzio assenso, promozione trapianti, organizzazione, finanziamenti, export-import. Questa legge prevedeva che il Ministro della Sanità avrebbe emanato un decreto attuativo con 10 direttive per la schedatura dei cittadini in donatori e non-donatori: come e quando le ASL avrebbero dovuto inviare notifica documentata a ciascun cittadino per presentarsi a dichiarare la propria volontà. Solo dopo tale notifica, quanti non avrebbero risposto all’ASL, sarebbero stati considerati d’ufficio come donatori. Purtroppo e da più di 15 anni che si attende tale decreto. Nel frattempo, fa comodo ma è illegittimo infischiarsene della volontà del paziente, soprattutto perché, in questo caso non vale nemmeno il discorso dello “stato di necessità”, dato che colui che non può esprimere il consenso perché è incosciente, non sta per essere salvato, ma soppresso. È importante inoltre ricordare che i parenti non possono assolutamente dare un consenso valido per nessuna pratica medica o chirurgica, figuriamoci per un espianto di organi. Basti pensare che un chirurgo che causa la morte di un paziente operato senza il consenso può essere accusato di omicidio volontario.
Il lettore a questo punto si chiederà: ma come hanno fatto i chirurghi dei trapianti a superare il grande ostacolo del consenso informato? È molto semplice: dichiarando la persona dalla quale si espiantano gli organi come morta. E un morto non si può uccidere. Il discorso quindi si sposta su un altro piano, ben più difficile e pericoloso. E mi sorprende come alcuni colleghi che si dichiarano cattolici si muovono con disinvoltura in questo campo.
Come si fa a capire se una persona è morta? Il Borri nel suo Trattato di Medicina Legale parlava di “segni abiotici immediati”: cessazione definitiva del respiro, del circolo e della funzione nervosa. In questi casi ci sono pochi dubbi, ma gli organi purtroppo in questo caso non possono essere espiantati perché la circolazione del sangue è ferma e i fenomeni post-mortali sono già iniziati. Ancora nella Circolare 24/06/1993, n° 24 del Ministero della Sanità era riportato che “per cadavere si intende il corpo umano rimasto privo delle funzioni cardiorespiratoria e cerebrale”. Diversa è la situazione in cui siano presenti gravissime e massive lesioni cerebrali distruttive, l’accertamento della morte è effettuato ex lege 578 del 1993 da una collegio medico composto da 3 membri e l’osservazione non può essere
inferiore alle 6 ore. In questo caso è considerata cruciale la perdita di tutte le funzioni dell’encefalo dimostrata dalla cessazione irreversibile delle funzioni del tronco encefalico. Detta così può sembrare una procedura semplice e standardizzata, tuttavia soltanto il fatto che il Collegio può essere composto da medici che hanno competenze molto diverse tra di loro pone qualche dubbio. Inoltre alcune, se non tutte le metodiche, sono operatore-dipendente. Wijdicks, ad esempio, in un recente lavoro elenca tutti i possibili errori che possono commettere i medici in questo tipo di valutazione (Neurol Res 2013 Mar 35 (2): 169-73) e la letteratura internazionale è ricca sull’argomento.
Gli stessi Gerin e Merli avevano espresso perplessità sull’utilità dell’utilizzo dell’EEG per dimostrare la morte cerebrale. Le obiezioni vengono sollevate anche a livello internazionale dalla comunità scientifica: neurochirurghi giapponesi hanno salvato 14 pazienti su 20 con ematoma subdurale acuto associato a danno cerebrale diffuso e 6 su 12 con ischemia cerebrale globale da arresto cardiaco da 30 a 47 minuti, riportandoli a normale vita quotidiana, con pieno ristabilimento delle capacità di comunicazione verbale.
Una dichiarazione affrettata di cosiddetta ‘morte cerebrale’ senza che sia stata tentata tale terapia potrebbe ben costituire omicidio o, come minimo, premeditata omissione di soccorso e malpractice. (Yoshio Watanabe MD; Cardiac Transplantation: Flaws In The Logic Of The Proponents. JPN Heart J, Sept 1997 – Hayashi N, MD, Brain Hypothermia Therapy, JPN Med J, July 6, 1996)
Sul sito della Lega Nazionale Contro la Predazione si trovano altre dichiarazioni molto interessanti di diversi Autori:
- Prof. Dr. Massimo Bondì, L.D. Pat. Chir. e Prop. Clin. Univ. La Sapienza Roma, chirurgo generale e patologo generale: «La morte cerebrale è ascientifica, amorale e asociale» (Audizione Commissione sanità 1992).
- Dr. David W. Evans, Fellow Commoner of Queens’ College Cambridge, cardiologo dimessosi dal Papworth Hospital per opposizione alla “morte cerebrale”: «C’è grande differenza tra essere veramente morto ed essere dichiarato clinicamente in morte cerebrale» (Audizione Commissione sanità 1992).
- Dr. Robert D. Truog, Dr. James C. Fackler, Harvard Medical School Boston: «Non è possibile accertare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello» [Critical Care Medicine, n° 12, 1992, “Rethinking Brain Death” (Ripensamento sulla morte cerebrale)].
- Prof. Peter Singer, Presidente dell’Associazione Internazionale di Bioetica: «…la morte cerebrale non è altro che una comoda finzione. Fu proposta e accettata perché rendeva possibile il procacciamento di organi» (Congresso di Cuba 1996).
- Dr. Cicero Galli Coimbra, Head of Department neurology and neurosurgery, Univ. Sau Paulo, Brasil: «…i protocolli diagnostici per dichiarare la morte cerebrale (test dell’apnea) inducono un danno irreversibile su pazienti che potrebbero essere salvati» (Convegno internazionale Roma 19/2/2009).
In un panorama così complesso in cui sono implicati molteplici interessi, non ultimi quelli economici, un’Associazione che fa divulgazione e sollecita una scelta consapevole è, a mio avviso una cosa positiva. Perché è semplicemente di questo che si parla: permettere a una persona di scegliere se donare o meno i propri organi se si trova nelle condizioni di non poter esprimere un tale consenso. In questo caso si entra in una sfera personale che esula da valutazioni “scientifiche”.
Cerchiamo di mettere un attimo di ordine, perché il discorso è un po’ una miscellanea.
1. La definizione del Borri circa la morte cerebrale è validissima, per l’epoca in cui è stato scritto. Peccato che il libro sia stato edito nel 1924. Ne approfitto per fare a siffatto libro gli auguri di buon 90° compleanno. Iniziamo male, de dominicis.
2. l’articolo da lei citato, pregasi controllare, recita art. 1: leg. 578/93 “La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Forse avrà ragione circa la sua precedente definizione, ma in atto recita così. In amore della precisione, al fin di evitare fraintendimenti, meglio chiarirlo.
3. E’ sbrigativo nello spiegare il protocollo e non cita figure mediche, ma attenzione: si ricorda che questo caso si attua SOLO IN CASO DI SOGGETTI IN RIANIMAZIONE. Il medico (primo medico) si trovi dinanzi ad un paziente con cessazione di tutte le funzioni encefaliche soggette per irreversibili, lo comunica alla Direzione Sanitaria che, a sua volta, convoca il collegio medico composto da
a. anestesista rianimatore
b. neurologo/neurofisiologo /neurochirurgo esperti in EEG
c. medico legale/ medico di direzione sanitaria/ anatomopatologo
Le due determinazioni di riflessi, EEG, circolo encefalico e apnea attendono parere UNANIME delle tre figure.
3. L’articolo che lei cita di Wijdicks (Neurol Res 2013 Mar 35 (2): 169-73) non è diretto a negare la solare esistenza della morte encefalica, ma diretto ad elencare le cause per cui UN MEDICO DEL COLLEGIO, PRIVO DI ESPERIENZA, possa incorrere in errore, SENZA METTERE MINIMAMENTE IN DUBBIO che i test attualmente approvati rappresentino l’attuale gold standard. Semplicemente asserisce che l’errore umano è, naturalmente, sempre possibile, per quanto si possa ridurre al minimo. Di questo passo non ce li fareste seppellire neanche dopo un anno.
4. Lei non può fare un articolo scientifico di risposta e copiare tutto pedissequamente da http://www.antipredazione.org/quelche.htm (pregasi controllare se diffidate). Perchè finisce che poi qualcuno che la legge si passa la briga di verificare le fonti e vede che gli articoli da lei citati alla voce bibliografica: (Yoshio Watanabe MD; Cardiac Transplantation: Flaws In The Logic Of The Proponents. JPN Heart J, Sept 1997 – Hayashi N, MD, Brain Hypothermia Therapy, JPN Med J, July 6, 1996) sono ampiamente opinabili: il primo perchè non parla di quanto detto da lei, ma semplicemente di un sondaggio sulle opinion di infermieri e studenti di medicina (livello di evedenza vicino allo zero) e il secondo perchè, semplicemente, non sembra esistere su pubmed. Le devo chiedere di esser più preciso con le fonti o di ritirare la citazione
5. Non voglio poi inoltrarmi sui commenti delle singole opinioni dei suoi amici, perché, ammesso e assolutamente non concesso che siano “esperti”, l’expert opinion configura il livello più basso di evidenza scientifica, mentre sull’esistenza della morte cerebrale la letteratura è sconfinata. Mi fa sorridere notare che anche qui le dichiarazioni sono pedissequamente copiate dal sito di cui sopra (e per Giove…si forzi un minimo…) e risalgono al 1992. In considerazione del suo richiamo al libro del 1924 è un gioco, mi chiedo se in un’eventuale chiosa volesse spiegarmi che ne pensa dell’umore giallo e dell’umore nero.
Dal sito Libertà e Persona:
Il nome della morte
Da Giuliano Guzzo
E noi, ingenui, che facevamo il dogma prerogativa confessionale. La chiassosa levata di scudi provocata dall’articolo della storica Lucetta Scaraffia pubblicato sulle pagine de L’Osservatore Romano, dimostra che ci sbagliavamo. Ricapitoliamo per chi non conoscesse la vicenda: Scaraffia, storica e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, ha scritto, sul quotidiano della Santa Sede, un articolo nel quale, recensendo due libri -Morte cerebrale e trapianto di organi di Paolo Becchi e Finis vitae. Is brain death still life? di Roberto de Mattei – ricordava un dibattito, benché dimenticato, in verità mai sopito tra gli studiosi: quello sulla definizione di morte, che da diversi decenni – in seguito ad uno studio scientifico fatto ad Harvard – viene sovrapposta alla definizione di morte cerebrale, ma che a diversi scienziati, oggi come ieri, non suona convincente.
Lo studio in questione è un rapporto vide la luce nell’agosto del 1968 sul Journal of the American Medical Association: tre pagine, frutto del lavoro di sei mesi di una commissione, nota come “Commissione di Harvard”, composta da dieci medici, un teologo, un giurista ed uno storico. Nel numero della rivista dove questo rapporto venne pubblicato, compariva anche una rassegna degli studi a fino quel tempo effettuati circa la definizione del concetto di “coma irreversibile”. Ebbene, già quegli studi -oggi ampiamente superati – mettevano in luce non poca incertezza quanto ai criteri clinici per determinare cosa sia o meno da considerarsi come stadio irreversibile.
Ma se già allora gli studiosi non facevano mistero del proprio scetticismo quanto alla definizione della morte di una persona, come mai, dopo quarant’anni, tante reazioni scomposte contro un semplice articolo di giornale, reo di aver rammentato una verità?
Nessuno vuole mettere in discussione la possibilità di donare gli organi, donazione che – come si sa – trova nel concetto di “morte cerebrale”, così come definito ad Harvard, la propria premessa operativa.
L’utilità e l’importanza dei trapianti sono ben note anche alla Chiesa, tanto è vero che al paragrafo 2296 del Catechismo la donazione d’organi viene definita come “atto nobile e meritorio“.
Ciò non toglie, tuttavia, che la definizione di morte correlata esclusivamente alla cessazione dell’attività cerebrale rimanga, di fatto, qualcosa di opinabile. Persino il celebre bioeticista Peter Singer, studioso certo non sospettabile di simpatie clericali, nel suo Ripensare la vita (Il Saggiatore, 1994) scrive che qualunque stadio antecedente la rigidità venga scelto come parametro per ritenere morto un essere umano, è da considerarsi estraneo a criteri scientifici. Sempre Singer, nel suo libro cita numerose ricerche che gettano non poche ombre sulle conclusioni della “Commissione di Harvard”.
Beninteso: i dubbi che accomunano Singer e Scaraffia, possono benissimo essere fallaci.
Ma fino a che la comunità scientifica non sarà allineata nel riconoscere un’unica definizione di morte, troviamo giusto che chi è perplesso possa manifestare il proprio scetticismo. Impedirlo, equivarrebbe a sfiduciare la ricerca scientifica, che verrebbe così capovolta in superstizione, ossia nel rifiuto aprioristico di opinioni bollate come sacrileghe. Strano che un pensiero così banale non sia chiaro a quanti, scandalizzati da un semplice articolo di giornale, hanno subito ripreso ad agitare i soliti spauracchi.
Viene il dubbio che tanto clamore non sia frutto, come viene detto, del timore – peraltro del tutto infondato – che la Chiesa Cattolica possa schierarsi contro il trapianto d’organi, quanto di una certa mentalità secolarizzata che, proprio perché non vede nulla oltre la vita, trema. E tenta, vanamente, di dominare la morte, di circoscriverla e definirla. Per darsi garanzie che non può possedere.
da http://www.salpan.org
I morti sono veramente morti quando preleviamo i loro organi?
di Paolo Becchi
professore associato di Filosofia del Diritto
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Genova
Rielaborazione e sunto di Rafminimi
dell’articolo già pubblicato da Sì sì no no del 30-6-2004
Premessa
Mentre riguardo ai tempi d’inizio vita, il dibattito nel nostro Paese di recente ha avuto un’improvvisa impennata in relazione alla contrastata approvazione della legge sulla procreazione assistita (la 40/2004), sul tema di quando finisce la vita, quello in particolare del trapianto di organi presi da “cadaveri”, il dibattito sembra essersi esaurito nel periodo immediatamente seguente all’approvazione della nuova legge sui trapianti (la 91 del 1999).
Comunque, anche tale dibattito sembrò incentrarsi prevalentemente su un problema —non secondario— come è quello del cosiddetto “silenzio-assenso” (introdotto all’articolo 4).
Si tratta di un criterio discutibile, ma ancor più discutibile è stato il modo con cui l’On. Bindi ha aggirato la detta legge, inviando ai cittadini un tesserino (1) che, non solo non era previsto da tale legge, ma che altresì sul punto nodale, ne ha di fatto impedito l’applicazione. Tanto è vero che, a ormai 5 anni di distanza, siamo ancora in piena fase “transitoria” (prevista per durare al massimo 90 giorni).
Ma non è solo su QUESTO punto che ci s’ intende ora soffermare (già ci si è soffermati in non poche occasioni, delle quali citiamo soltanto: P. Becchi e P. Donadoni, “INFORMAZIONIE CONSENSO ALL’ESPIANTO DI ORGANI DA CADAVERI”, in “Politica del diritto, XXXII, N°2-2001, pp. 257-287; P. Becchi, “TRA(I)PIANTI, SPUNTI CRITICI INTORNO ALLA LEGGE IN MATERIA DI DONAZIONI DI ORGANI E ALLA SUA APPLICAZIONE”, in “Ragion Pratica”, n. 18 del 2002, pp-275-288 e, soprattutto in P. Becchi, «INFORMATION UND EINWILLIGUNG ZUR ORGANSPENDE. DAS NEUE ITALLIENISCHE GESETZ UN SEINE “EWIGE” ÜBERGANGSPHASE» in “Hirntod und Organspende Basal”, Schwabe, 2003, pp.149-161).
In questa sede si vuole far riflettere non sulla legge dei trapianti in sé, ma sul presupposto su cui essa poggia. Vale a dire su quali certezze abbiamo che, nel momento in cui si effettua il prelievo, il donatore sia già “cadavere”.
Le tesi che si esporranno saranno documentate in forma, spero, più esaustiva, in un’antologia di prossima pubblicazione dalla E.S.I di Napoli: “QUESTIONI MORTALI. L’ATTUALE DIBATTITO SCIENTIFICO SULLA MORTE CEREBRALE ED IL PROBLEMA DEI TRAPIANTI”.
1) Ridefinizione del concetto di morte
Si è ritenuto doveroso legiferare su un’entità non più grande di uno spillo, contenuta in una provetta, per proteggerla, mentre su di un uomo in carne ed ossa, che presenta temperatura corporea intorno ai 37°C, colorito roseo, battito cardiaco ed atto respiratorio, possiamo fare tutto ciò che è lecito fare con un cadavere.
Si obietterà: gli embrioni sono comunque già vivi, mentre, una volta che è stata accertata la morte cerebrale, il paziente non è più vivo: un cadavere che sembra vivo, ma che non lo è più.
Tale conclusione è presentata come un dato di fatto scientifico pacificamente acquisito una volta per tutte, alla fine degli anni ’60 del XX Secolo, quando un comitato, istituito presso la Facoltà di Medicinaa dell’Università di Harvard, giunse in un suo celebre Rapporto ad equiparare in sostanza la diagnosi di coma irreversibile (stabilendone i criteri clinici di accertamento) alla morte cerebrale e, quest’ultima, alla morte di fatto (in “JUORNAL OF THE AMERICAN MEDICAL ASSOCIATION, N° 205, 1968, pp. 337-340).
2) Motivi della fortuna di tale ridefinizione
Nasceva così la nuova definizione di morte, che, nel corso degli anni seguenti incontrò larga fortuna. Ciò per diversi motivi.
In primo luogo rispecchiava le conoscenze scientifiche di allora, le quali sembravano confermare la tesi che i pazienti in coma irreversibile andassero incontro in un tempo relativamente breve ad arresto cardiaco..
In secondo luogo una tale definizione offriva il miglior sostegno alle pratiche trapiantistiche che proprio in tale periodo erano agli inizi. […]. Se si guarda alle legislazioni, l’intreccio tra la nuova definizione di morte ed i trapianti risulta ben visibile.
Già nel 1969, con un decreto del Ministro della Sanità dell’11 agosto ed uno del 9 gennaio 1970, veniva introdotto il criterio della morte cerebrale, utilizzando i parametri di Harvard, proprio con esplicito riferimento al problema del prelievo di organi per i trapianti. Da allora il legislatore si limitò ad indicare i diversi criteri per l’accertamento della morte, non spingendosi sino al punto di volerne dare una definizione. Ciò avvenne solo con la legge N° 578 del 1993, secondo la quale, la morte “si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” (arti.1).
La legge non solo dà per scontato ciò che non è, ovvero che si conoscano tutte le funzioni dell’encefalo, introducendo così il concetto di “morte cerebraleTOTALE”, ma altresì cambia di rotta rispetto alla legislazione precedente, generalizzando l’uso dei criteri di morte cerebrale ed estendendoli a tutti, che siano donatori o meno.
3) Il dibattito sulla morte cerebrale
Proprio negli anni ’90, mentre nel nostro Paese si accettava non solo la “morte cerebrale”, ma ci si spingeva a definirla per legge, negli USA cominciava a manifestarsi un forte ripensamento al riguardo.
Per la verità già da subito erano emerse perplessità sulla nuova definizione di morte.
Hans Jonas, a meno di un mese dalla pubblicazione del Rapporto di Harvard, intervenendo ad un convegno dedicato agli esprimenti sugli esseri umani, manifestò la sua ferma opposizione alla morte cerebrale. Il motivo conduttore era il seguente:
non conosciamo con certezza la linea di confine tra la vita e la morte ed una definizione, tra l’altro introdotta proprio con l’intento palese di favorire il prelievo degli organi, non può certamente colmare quel deficit conoscitivo.
Quando il cervello ha smesso irreversibilemente di funzionare, possiamo sospendere i trattamenti di sostegno artificiale non già perché il paziente sia morto, ma perché non ha senso prolungare la vita in quelle condizioni.
Già in Jonas troviamo il dilemma (ben sottolineato da Jonsen, nel suo “THE BIRTH OF BIOETHICS”, New York, Oxford University Press, 1998, p. 240) che sta alla base di tutta la discussione:
a) si deve cessare il supporto vitale per consentire al paziente di morire?
b) o spegniamo il respiratore ad un corpo già morto?
Come è noto fu la seconda via ad essere imboccata e, dal momento che si staccava il respiratore ad un morto, perché non mantenerlo ancora un po’ acceso per favorire i trapianti?
Per Jonas, invece, si doveva percorrere l’altra strada e la critica alla nuova definizione di morte divenne il suo cavallo di battaglia. Lo scritto più noto, pubblicato nel 1974 (ma scritto nel ’70) con il titolo significativo “AGAINST THE STREAM”, CONTROCORRENTE [il che è tutto un programma!] è ormai divenuto un classico.
Nel 1992 tornò sull’argomento.
In Germania, nell’ottobre di quell’anno, una giovane donna era rimasta vittima di un incidente stradale. In seguito a ciò entrò in coma irreversibile. Fatti gli accertamenti previsti fu dichiarata in morte cerebrale. Con il consenso della famiglia, si stava per procedere agli espianti, quando i medici si accorsero che la ragazza era incinta. Ovviamente fu sospeso tutto ed i medici decisero di far portare avanti la gravidanza.
La discussione sulla morte cerebrale si accese in Germania.
Molti si chiesero come fosse possibile per un “cadavere” portare avanti una gravidanza [IL FIGLIO PARTORITO DALLA “MORTA”; L’ESSERE CHE SORGE DAL NON-ESSERE! ASSURDO!] e, addirittura, come purtroppo successe, “decidere” di interromperla con un aborto spontaneo.
Jonas, che era amico personale di uno dei medici coinvolti, gli scrisse dicendo la sua: “Nolente o volente, tu, mio caro amico, o meglio, voi avete contraddetto con il vostro agire ben ponderato la contemporanea dichiarazione di morte del suo oggetto. Avete detto: con la respirazione (e le altre cure) vogliamo impedire al corpo di Marion di diventare cadavere (2), in modo che possa proseguire la gravidanza. Credendolo capace di ciò, o perlomeno volendo dargliene la possibilità, avete puntato sul residuo di vita che in esso vi era. Cioè della vita di Marion! Infatti il corpo è tanto unicamente il corpo di Marion, quanto il cervello era il cervello di Marion. Che l’esperimento questa volta sia fallito (sembra che in casi precedenti meno estremi sia riuscito) può essere tanto poco portato a riprova del fatto che esso non è ammissibile, quanto un aborto spontaneo a riprova del fatto che non è possibile una gravidanza in generale. Voi credevate sinceramente nella chance della sua riuscita, vale a dire nella capacità funzionale del corpo cerebralmente morto che era a tal fine necessaria e mantenuta dalla vostra abilità, cioè credevate alla sua VITA temporaneamente prolungata per il bambino. Non vi è permesso negare questa credenza in altri casi di coma per altri scopi” [Il testo sarà presente nella citata antologia in corso di stampa].
Si potrebbe obiettare che, per quanto interessante, tutto ciò non dimostra altro che la grande coerenza dell’autore.
A prescindere che questo è sicuramente vero, fatto sta che, con il passar del tempo, tale posizione cominciò a risultare molto meno isolata di quanto non sembrava all’inizio.
Oltre a Jonas qui sarebbero meritevoli di considerazione Josef Seifert e Robert Spaemann: entrambi credono che, nell’incertezza o nell’impossibilità di provare con sicurezza che una persona è morta, si dovrebbe trattarla come ancora viva.
(2) Ma non è secondo il giuramento d’Ippocrate il dover mantenere in vita l’ammalato? l’impedire che la Marion di turno diventi cadavere? Tale agire dovrebbe essere la norma!!!
4) Ripensamenti
Sorpendemente, alla conclusione e all’ammissione che la “morte cerebrale” sia un espediente, a dir poco discutibile, sono giunti autori di ben altro versante culturale.
Peter Singer, pensatore ben noto per le sue esplicite posizioni spiccatamente utilitaristiche, è tra questi (vedere “UN PASSO INDIETRO E DUE AVANTI. PETER SINGER E I TRAPIANTI” in “Bioetica”X, 2, 2002, pp. 226-247).
All’inizio degli anni ’90, il famoso professore dell’Università di Melbourne, fu chiamato in un importante ospedale di quella città, a far parte del comitato che doveva occuparsi proprio del problema dei consensi, in particolare nelle questioni connesse con l’anencefalia. I neonati colpiti da tale malformazione non sono in grado di diventare pienamente coscienti, poichè privi della parte superiore del cervello (ossia degli emisferi cerebrali, corteccia compresa) e della volta cranica destinata a contenerlo. La parte inferiore, formata dal tronco encefalico, invece, è sovente intatta, anche se a volte poco sviluppata. Tali neonati sono dunque in grado di respirare spontaneamente, ma hanno prognosi infausta: in un periodo di tempo variabile da qualche ora a poche settimane, vanno incontro ad arresto cardio-circolatorio.
(Va peraltro osservato che recenti ricerche effettuate da D.A. Shewmon tendono a mostrare come la notevole plasticità del cervello possa consentire, in alcuni casi, al tronco encefalico di assumere certe funzioni, che altrimenti sarebbero corticali. Tali esperienze mettono in discussione quanto sino ad oggi si sapeva circa le basi neuroanatomiche della coscienza. Vedere D.A. Shewmon, “RECOVERY FROM BRAIN DEATH”: A NEUROLOGIST’S APOLOGIA”, in “Linacre Quarterly, February 1997, pp. 30-96).
Singer, che fino ad allora era stato un sostenitore sfegatato della “morte cerebrale totale”, si trovava a confrontarsi con un concetto diverso, ovvero la “morte cerebrale corticale”. Insomma si trattava di dichiarare morti anche gli anencefalici.
Il comitato di cui faceva parte voleva andare in questa direzione, ma, lasciando tutti interdetti, Singer non li seguì. Spiegò le motivazioni di tale suo dissenso in “RETHINKING LIFE & DEATH” (1974).
Il succo è il seguente:
la commissione di Harvard si trovava di fronte a pazienti in condizioni disperate che vivevano esclusivamente grazie a macchine che nessuno osava spegnere. Organi che sarebbero potuti essere usati per i trapianti, erano resi inutilizzabili, perché per espiantarli si aspettava l’arresto circolatorio [con la parziale e paradossale eccezione delle cornee, che espiantate dopo, spesso liberano delle “tanatostimoline” che ne favoriscono l’attecchimento —aggiunge Rafminimi—].
La commissione aveva pensato di risolvere entrambi i problemi, classificando come morti coloro il cui cervello avesse cessato di avere attività rilevabile.
Singer non crede al valore della vita in sè, reputando che un animale senziente ha più diritti di un feto o di un adulto in coma, ma tale sua idea, comunque, non gli fa perdere di vista che la prassi di risolvere i problemi ricorrendo alle ridefinizoni funziona ben di rado.
In altri termini Singer non crede alla morte cerebrale, ma tuttavia è d’accordo con l’espianto degli organi perché (a suo dire) la vita non è un valore sacro e inviolabile.
Paolo Becchi
Sin qui il sunto di Rafminimi, ma precisiamo che l’articolo continua con altre annotazioni interessantissime, titolate in Sì si no no con
Inaccertabilità della morte cerebrale –
La morte cerebrale non è un indicatore della morte ravvicinata dell’intero organismo –
Un grosso interrogativo -.
Invitiamo quindi il lettore ad approfondire l’argomento andando al
n. 12 del 30 Giugno 2004 di Sì sì no no.
Tutto molto interessante dal punto di vista filosofico, lo ammetto.
Potrei ribadire quanto già precedentemente scritto nei commenti al mio articolo, dove credo di aver confutato tutte queste posizioni, proposte in diverse salse ma sempre le stesse.
Per cui, facendo un rapido riassunto che non annoi ulteriormente concludo:
E’ inutile tirar fuori opinioni, più o meno interessanti, di bioeticisti, filosofi, avvocati e via elencando. Non sono in alcun modo importanti nemmeno le opinioni di singoli medici.
Ci vuole LETTERATURA SCIENTIFICA, IN GRADO DI CONFUTARE QUANTO GIA’ (almeno apparentemente, mi si darà atto) AMPIAMENTE E SOLIDAMENTE DIMOSTRATO DALLA LETTERATURA ATTUALE.
I medici facciano uno studio e dimostrino vita. Sarò il primo a cambiare idea.
E se il carattere deve essere eminentemente scientifico, non si insulti i colleghi con citazioni da libri del 1924 o con citazioni finte, da studi inventati o travisati come quanto riportato sopra.
Non offro filosofia, offro scienza e nel modo più serio che posso. Mi sforzo di riportare studi veri. Se dibattito deve essere, pretendo lo stesso sforzo e lo stesso rispetto che dimostro.
distinti saluti
Dott. G. Sambataro
l’articolo accenna giustamente ala presenza di interessi economici. Uno di questi può essere per esempio l’utero in affitto di donne pagate per mettere al mondo feti destinati ad essere fabbrica di organi da trapianti oppure sacrificati dalla Massoneria satanista nel corso di qualcuno dei suoi reti (esempi di vittime sacrificali: Gioele Parisi morto il 20 -08-2020, Tommaso Onofri, ecc.). Alcuni organi dei neonati, come i tessuti moli, sono trapiantabili anche su persone adulta..per non parlare di una prospettiva non tanto remota di una loro coltivazione in vivo e in vitro, fino a raggiungere la dimensione desiderata.
un secondo conflitto di interessi, non disciplinato dalla legge, riguarda il medico accertato e l’esecutore dei trapianti. non dovrebbero essere la stessa persona e nemmeno appartenere allo stesso reparto d’ospedale.