Con quest’articolo continua la pubblicazione in varie puntate (qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta, qui la quinta, qui la sesta e qui la settima) di una “Breve storia critica del Crocifisso nell’arte” a cura di Luca Fumagalli, socio fondatore e membro storico di Radio Spada.
di Luca Fumagalli
La rivoluzione del secolo XIX
Tornando ai pochi esempi, seppur lodevoli, che abbiamo visto in precedenza, capiamo molto bene come da soli non bastarono a frenare la violenta ondata anticattolica. Nel XIX secolo, la società europea, con l’avvento della rivoluzione francese, fu devastata da un pregno scetticismo generalizzato. La filosofia darwiniana, il criticismo kantiano, il nichilismo di Strauss, Renan, Harnak ecc. avevano portato il dubbio e l’incredulità nell’anima moderna e così l’arte sacra, ormai quasi del tutto affidata ad artisti “minori”, perì lentamente. Infatti ad eccezione di Caspar David Friedrich (1774-1840), di Eugene Delacroix (1798-1863) e del più giovane Paul Gauguin (1848-1903), la maggior parte degli altri artisti impegnati durante il secolo a rappresentare Nostro Signore in Croce non è certo costituita da personaggi di primo piano della storia dell’arte.
Friedrich con la sua Croce sulle montagne (in due esemplari: una pala d’altare del 1808 e una tela del 1812) organizza la risposta più efficace del romanticismo avanzando una nuova ipotesi figurativa dove una riproduzione della crocifissione è immersa nel contesto paesaggistico delle montagne, in un gioco di chiari e scuri enfatizzato dalla luce del tramonto. Ambigua nella sua costruzione complessiva, la composizione sembra denunciare una matrice panteista dove la natura e Dio si confondono in un unicum indistinto, ambiguo e passibile di equivoci. L’inusuale collocazione del Crocifisso sembra inoltre riecheggiare il tema della solitudine dell’uomo (così tipico in tanti quadri di Friedrich)[1] disperato nella ricerca di un Dio «che si erge nel silenzio indifferente della montagna»[2].
Gauguin dal canto suo rappresenta nel suo famosissimo Cristo giallo del 1889 un gruppo di donne bretoni in preghiera ai piedi di un Crocifisso nella campagna di questa regione francese. Durante una vacanza Gauguin era rimasto affascinato dalla venerazione che i locali bretoni di Tremalo dimostravano nell’adorazione della Croce e decise di dedicare a questa devota gente la composizione. L’eccessivo primitivismo con cui è però rappresentata la scena male si adegua alla sacralità del soggetto e stupisce l’uso del colore giallo per la carnagione del Cristo; «a detta dell’artista […] il giallo […] è simbolo del suo dolore presente e futuro»[3], ma non se ne capisce bene il motivo.
Anche Delacroix ha prodotto un discreto numero di crocifissioni, un tema del resto che si ripresenterà più volte nella personale carriera artistica. Ci basti citare il Cristo sulla croce del 1853 conservato alla Britsh Gallery dove, in un contesto tutto sommato di impianto classico, si nota chiaramente la pennellata rapida e ferma del maestro francese. La Croce divide la scena in due parti: sulla destra uomini e donne oppressi dal dolore assumono svariate pose dolenti, sulla sinistra due centurioni a cavallo guardano intimoriti il cielo che si sta facendo plumbeo. Al centro Cristo è ridotto vergognosamente ad un cadavere emaciato il cui volto è avvolto nell’ombra.
Tra i gruppi più attivi in ambito cristiano nel XIX secolo non possiamo non citare i cosiddetti “Nazareni”, titolo che dapprima lanciato come scherno, divenne in seguito distintivo di gloria. Il gruppo era costituito da pittori tedeschi i quali, immersi in un clima romantico, si ribellarono al classicismo accademico, aspirando ad un’arte rinnovata su basi religiose che stilisticamente assunse un carattere arcaicizzante, dato da un forte accento lineare e dall’uso del colore crudo, steso con pennellate uniformi in un tentativo di ricomposizione formale, quasi filologica, dell’arte dei quattrocenteschi italiani. I suoi fondatori e maestri principali erano Friedrich Overbeck (1789-1869), Franz Pforr (1788-1812), Peter Cornelius (1783-1867) e molti altri ancora tra cui l’italiano Michelangelo Grigoletti (1801-1870) senza però appartenervi ufficialmente. Tra le molte crocifissioni dipinte dal gruppo ricordiamo in particolare la bellissima Crocifissione (1855-1864) proprio del Grigoletti per la Basilica si Santa Maria Assunta ad Esztergom in Ungheria. La composizione, sobria ed equilibrata, vede la figura livida di Cristo in Croce al centro, illuminata da un fascio di luce che squarcia le tenebre in alto a sinistra. In primo piano si vedono uscire dal sepolcro scoperchiato Adamo ed Eva e sullo sfondo, al di là del colle, si distinguono alcune costruzioni che simboleggiano Gerusalemmme. «Nel suo complesso la composizione si presenta articolata secondo un ordine piramidale, da leggersi in senso ascensionale, che culmina nella figura di Cristo posto leggermente in tralice rispetto all’osservatore»[4] e che conferisce un ulteriore senso di angoscia e sofferenza all’intera opera ma anche la speranza del riscatto grazie al sacrificio di Dio.
Poco dopo la metà del secolo, si affiancano ai pochi artisti cristianamente impegnati i monaci benedettini del monastero tedesco di Beuron che, attraverso l’impegno e il carisma di padre Desiderio Lenz (nato nel 1832), fondarono una scuola artistica i cui più bei monumenti furono la cappella di S. Mauro a Beuron, la chiesa di Maredsous in Belgio e il monastero di Montecassino[5]. L’arte praticata dai monaci benedettini del XIX secolo «è in assoluta antitesi con il realismo. [Essi] conoscono perfettamente la forma, ma la assoggettano al loro libero talento […] con padronanza assoluta»[6]. In questo caso l’arte si fa vita spirituale ed elevata contemplazione in cui la forma semplice e la sobria compostezza della rappresentazione fonde un senso di pacifica serenità nello spettatore.
A causa di danni provocati da eventi sismici i monaci di Lenz restaurarono completamente il santuario della Torretta a Montecassino: qui era conservato un bellissimo affresco sul tema del Crocifissio (distrutto durante la seconda guerra mondiale), in cui la completa assenza del declamatorio e del teatrale, unito alla gamma attenuata e delicatissima dei colori, inducono facilmente la commozione. Il Cristo richiama «per dolcezza e compostezza anatomica, le varie crocifissioni del Beato Angelico a S. Marco»[7].
Ulteriore novità del XIX secolo è quella particolare corrente realistica, caratterizzata da una ricerca storica e filologica molto accurata, che aveva come obbiettivo rendere al meglio nella pittura il tipo, l’ambiente, le vesti, le scene relative alla figura di Gesù e gli episodi evangelici. Tra i grandi artisti che portarono questa sorta di naturalismo storico nell’arte sacra è da menzionare James Tissot (1836-1902) che nel 1886, a causa di una crisi mistica al culmine della propria fama, si recò in Palestina e vi rimase per ben dieci anni fotografando il luoghi, studiano l’archeologia e commentando i Vangeli. Il frutto di questo intenso periodo di studio e di meditazione fu il Vangelo illustrato del 1896 contenente centinaia di acquarelli e disegni del pittore francese. Tra questi ricompare il Crocifisso legato alla croce (tenendo quindi conto di un particolare storico spesso trascurato) in un contesto decisamente realista e quanto più possibile vicino ai testi evangelici. Nonostante la fine bellezza delle composizioni, questo eccessivo realismo, questo troppo ardente zelo per il dato storico preciso, è ottenuto a scapito di un impatto emozionale autentico e risulta dunque freddo e distante dall’osservatore.
Di tendenze naturalistiche è anche Bruno Piglhein (1848-1894) che con il suo Panorama di Gerusalemme al momento della morte di Gesù ottenne nel 1886 un clamoroso riscontro di pubblico e critica. Recatosi a Gerusalemme l’anno precedente con alcuni assistenti vi si fermò a prendere fotografie, ad aggrupparle, a studiare i tipi e poi, riordinato tutto il materiale, espose a Vienna questa monumentale opera costata nove mesi di duro lavoro. Troppo dispersivo nella sua notevole dimensione l’opera indugia con compiacenza sulla minuzia della ricerca storica condotta, restituendoci un lavoro degno e ragionato ma non certo d’arte sacra.
Preraffaellita ma vicino ai due precedenti pittori per sensibilità è l’inglese William Holman Hunt (1827-1910) che «animato da sentimenti religiosi e pervaso dallo spirito moralistico di Ruskin, dipin[se] quadri sacri rivolti ad una vasto pubblico»[8]. Hunt è legato alla tradizione naturalistica del XIX secolo per la sensibilità storica, l’accuratezza descrittiva dei particolari e per essersi recato più volte in Terrasanta (nel 1854, 1869, nel 1875 e nel 1892) come Tissot e Piglhein. Naturalmente nell’artista preraffaellita il verismo storico si fonde con una simbologia molto profonda come dimostra l’atipica Crocifissione senza Croce de L’ombra della morte del (1869-1870) conservata alla City Art Gallery di Manchester. Gesù è ritratto in piedi nella bottega paterna nella classica posa della sofferenza della Passione (con tanto d’indumento piegato sulla cintola che lascia scoperte non solo le gambe ma anche il petto). A destra gli attrezzi da falegname giacciono inusati mentre sulla sinistra la Madonna deposita in una cesta i doni offerti dai Magi in occasione della nascita del figlio. La figura del Salvatore proietta sulla parete della stanza l’inquietante ombra della ventura morte e tutta l’atmosfera del quadro è intessuta di sofferenza ma anche di consapevole accoglienza del proprio destino (il melograno, frutto simbolico frequentissimo nei preraffaelliti, simboleggia infatti il dolore e la sofferenza)[9]. Hunt trasfigura in questa sua opera il dramma del lavoro manuale e della fatica che esso comporta ma anche la nobiltà dell’agire umano, di tutte quelle azioni che allontanano dall’animo l’autentica morte del peccato. Siamo innanzi ad uno dei rari esempi in cui, pur nell’innovazione figurativa, si preserva genuina la sacralità del soggetto.
Di tendenze vicini al realismo e alla cura dei particolari, senza però tralasciare il lirismo di fondo, ricordiamo il simbolista-espressionista Franz Von Stuck (1863-1928) le cui Crocifissioni sono cariche di dolore e di disperazione. Se alcune di esse sono più vicine al naturalismo (seppur non sempre storicamente corrette), altre invece sembrano intuire certe deformazioni figurative, per il momento contenute, che saranno poi tipiche degli espressionisti di area nord europea (in particolare si notano molte somiglianze con la pittura di Munch)[10].
Tra gli scultori possiamo menzionare ancora Pietro Canonica (1869-1959) e Leonardo Bistolfi (1859-1933). Del primo, precocissimo talento, conserviamo un bellissimo Crocifisso posto nel santuario del S. C. di Maria a Torino in cui la ragionata fisionomia naturalista ha il raro merito di accendere e non di soffocare l’ispirazione religiosa; del secondo invece si ricorda il Crocifisso in bassorilievo per il monumento funebre della famiglia Brayda al cimitero di Villarbasse a Torino in cui si ritorna, con una felicissima intuizione, al modello del Cristo trionfante dell’arte primitiva. Così, sulla tomba, il Crocifisso appare giustamente vincitore della morte.
Nella storia della Crocifissione nell’arte, gli autori che forse più di tutti chiudono il XIX secolo e aprono idealmente il secolo successivo sono il belga James Ensor (1860-1949) e il norvegese Edvard Munch (1863-1944) la cui raffigurazione del Salvatore sulla croce porta proprio la data del 1900. Se nel suo Cristo tormentato dai demoni (1895) Ensor apre la strada al filone blasfemo e grottesco del moderno e del post-moderno[11], Munch, nel suo Golgotha, esposto al Munch Museuam a Oslo, sembra incarnare invece quella linea di autoriflessione e di coscienza della crisi in rapporto al travagliato passaggio epocale che il mondo stava vivendo alla fine dell’800. Crollata la spinta ottimistica del positivismo e ridotta sostanzialmente l’influenza del cristianesimo in Europa, l’uomo si trova solo innanzi al mondo (come già si era notato per Friedrich), in balia degli eventi, sfiduciato e agonizza in una disperata ricerca di senso. A maggior ragione questo si verifica per un artista come Munch la cui vita è stato costellata sin dalla giovane età da gravi lutti famigliari. E proprio Golgotha nasce nel periodo in cui il pittore è ricoverato per alcolismo al Kornhaug Sanatorium tra l’autunno e l’inverno 1899. Sotto un cielo plumbeo, un crocifisso al centro della tela (probabilmente da identificare con l’artista stesso)[12] sovrasta una folta turba di uomini: se le persone in primo piano sono anatomicamente piuttosto ben definite, già quelle retrostanti si sciolgono in una danza di corpi fluidi che sembrano convergere verso la croce. Il quadro non ha nulla di sacro: la Croce è soltanto un pretesto iconografico per narrare la propria sofferenza d’uomo e la sofferenza di un secolo che ha smarrito il senso. Solo l’artista – forse involontariamente – si fa carico di tale macigno nella speranza di poter redimere, attraverso la sua arte, il resto dell’umanità che ora più che mai sembra una accozzaglia disordinata di uomini ignari.
[1] Su tutti cfr. C. D. FRIEDRICH, Il viandante sul mare di nebbia, 1817-1818, Kunsthalle, Amburgo.
[2] H. SEDLMAYR, Perdita del centro, Torino, Borla editore, 1967, p. 154.
[3] OGGIONNI, La civiltà del Crocifisso, p. 71.
[4] V. GANZER, V. GRANSINIGH (a cura di), Michelangelo Grigoletti, Milano, Bruno Alfieri editore, 2007, p. 218.
[5] Cfr. M. CIGOLA, L’abbazia Benedettina di Montecassino, Cassino, Francesco Ciolfi Editore, 2005, p. 205.
[6] COSTANTINI, Il crocifisso nell’arte, pp. 156-157.
[7] P. VITTORELLI (a cura di), Ave Crux Gloriosa. Croci e crocifissi nell’arte dall’VIII al XX secolo, Montecassino, Abbazzia di Montecassino, 2002, commento a illustrazione n. 151.
[8] M. T. BENEDETTI, I preraffaelliti, Firenze-Milano, Giunti editore, 1986, p. 37 [“Art Dossier”, 5].
[9]Cfr. M. WERNER, Pre-Raphaelite painting and nineteenth century realism, Cambridge, University press, 2005, p. 202.
[10] Altro artista del XIX secolo che influenzerà Edvard Munch è Max Klinger (1857-1920), anch’egli autore di una Crocifissione il cui vivo e brutale realismo (compresa la scelta di dipingere il Cristo nudo) entusiasmò e scandalizzò i contemporanei.
[11] Naturalmente, nel caso di Ensor, non stiamo parlando di un grottesco fine a sé stesso, anzi, a maggior ragione è bene ricordare che rimane anche ampio spazio per una sera riflessione sulla società del suo tempo e del ruolo dell’artista in rapporto ad essa (cfr. M. CALVESI, Le maschere di Ensor, in AA. VV, Ensor, Milano, Electa, 1981, p. 12). E’ però altrettanto chiaro che la Croce, in balia dei demoni, costituisce una volgarizzazione blasfema del tema sacro.
[12] Cfr. AA. VV, Edvard Munch. The modern life of the soul, New York, Museum of Modern Art, 2006, p. 213.
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