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J. P. Kuriakuz è l’ex direttore esecutivo del Chaldean Assyrian Syriac Council of America. Questo suo pezzo è comparso sul The Wall Street Journal del 26 agosto 2014. [Traduzione a cura di Ilaria Pisa]

Quando frequentavo Stanford negli anni Novanta, spiegare agli studenti le mie origini etniche era sempre una sfida. Premetto: sono Caldeo, o per essere più precisi, appartengo etnicamente agli Assiri dell’Iraq settentrionale, e faccio parte dei Cattolici di rito caldeo.

I Caldei fanno parte della Chiesa Cattolica d’Oriente, mentre gli Assiri sono membri della Chiesa Assira d’Oriente, indipendente da Roma (eretica e scismatica, ndt). Il background etnico è però comune, e ci distingue dai vicini Arabi iracheni. Parliamo una forma volgarizzata dell’aramaico, ossia la lingua parlata in Medio Oriente ai tempi di Cristo.

Sentendo parlare di Assiri, molti – pensando all’antica civiltà – si stupivano: esistono ancora? “Sì, esistiamo” (e mi sentivo un po’ un reperto da museo). Oggi, mentre l’ISIS continua a guadagnar terreno nell’Iraq settentrionale, mi viene da aggiungere: “per ora”.

Prima dell’invasione statunitense (2003), si stima che abitassero in Iraq circa 1,4 milioni tra Caldei e Assiri. Nel decennio succesivo, centinaia di migliaia cercarono asilo all’estero o vennero sfollati. La guerra civile portò al bombardamento di 60 chiese, al rapimento e uccisione di un Arcivescovo Caldeo (Faraj Rahho nel 2008, ndt), e al crollo della popolazione caldeo-assira a meno di 500mila unità, come effetto del conflitto e del sentimento radicalmente anticristiano che vi ha fatto seguito.

Non che i Cristiani iracheni siano nuovi a vivere in mezzo alle turbolenze. Per più di duemila anni Caldei e Assiri sono sopravvissuti alle innumerevoli guerre persiane, alle persecuzioni, agli assedii dei Mongoli, alla conquista da parte degli Arabi, al dominio ottomano, alla colonizzazione occidentale, ai colpi di stato postcoloniali, alla guerra con l’Iran, al conflitto curdo-arabo e agli attacchi con armi chimiche.

Oggi, perseguitati dall’ISIS per la loro fede, Caldei e Assiri sono vittime di una pulizia etnica dichiarata. Dopo aver conquistato in giugno la città di Mosul, l’ISIS ha disegnato con la vernice spray la “N” di “Nazareni” sulle case dei Cristiani: le famiglie avevano 24 ore di tempo per convertirsi all’Islam o lasciare la città, oppure affrontare l’esecuzione capitale. Chi ha lasciato la città si è visto confiscare i beni ai checkpoint. La maggior parte dei rifugiati hanno cercato rifugio nei villaggi vicini, sotto la protezione dei Peshmerga curdi: come reazione, l’ISIS ha chiuso gli approvvigionamenti idrici da Mosul, che rifornivano quei villaggi. Dopodiché ha continuato la sua avanzata conquistando i villaggi intorno a Mosul, sfollando centinaia di migliaia di persone, trasformando chiese in moschee, distruggendo abitazioni e fabbriche, facendo tabula rasa.

Eccezion fatta per i bombardamenti degli ultimi giorni, l’amministrazione di Obama sembra seguire una politica di contenimento, accoppiata alla speranza naif che la minaccia ISIS si dissolverà prima o poi in qualche modo. Aspettiamo ancora di vedere gli sforzi per chiamare a raccolta la NATO e i Paesi mediorientali confinanti per aiutare Baghdad e i Curdi a sconfiggere l’ISIS. Quel che è certo è che il destino di Caldei e Assiri nell’Iraq settentrionale resta nelle mani di attori stranieri. Dopo essere passati attraverso innumerevoli tempeste nelle ultime migliaia di anni, subiscono ora la minaccia più grave alla loro sopravvivenza: il silenzio dell’Occidente, e la mancanza di volontà nel riconoscere il genocidio in atto.

Sono stato direttore esecutivo del Chaldean Assyrian Syriac Council of America nel biennio 2008-2010 e il mio compito principale era quello di riferire al governo statunitense sulla sorte delle minoranze cristiane in Iraq. Riuscimmo a fare approvare  alle due camere parlamentari due risoluzioni non vincolanti (nel 2010), che esortavano l’amministrazione Obama a lavorare per la fine delle persecuzioni e della marginalizzazione delle minoranze cristiane in Iraq. Ma molte delle nostre preghiere di intervento concreto caddero nel vuoto. 

Alcuni funzionari, in particolare, espressero la preoccupazione che un appoggio statunitense alle minoranze irachene, cristiane soprattutto,  potesse deteriorare i rapporti con il mondo arabo, suggerendo una preferenza per le “religioni occidentali”. Altri esortarono le minoranze irachene a utilizzare i canali “democratici” per far valere i propri diritti nel Paese. 

Canali che, se mai sono esistiti, ora sono prosciugati. Un tempo si pensava che la nascente democrazia in Iraq avrebbe, sul medio periodo, alleviato le sofferenze delle minoranze; l’insegnamento che l’ISIS ci ha dato negli ultimi mesi è che se qualcosa sta nascendo in Iraq, non si tratta della democrazia. Caldei e Assiri, dal canto loro, esistono ancora. Finché dura.