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«Rabia Shedade era un bravo ragazzo», lo descrive un suo compagno del corso d’ingegneria. «Un atleta, un mezzo genio, il migliore in tutte le materie. Uno pacifico, amico di tutti, anche degli ebrei. Non l’ho mai sentito parlare di jihad o dei ribelli in Siria, dire che bisogna colpire qualcuno. Se c’era un problema, era il primo a dare una mano». Niente a che fare con gli ammazzacristiani: «Ricordo che nel 2006, quando ci fu la guerra del Libano, qualcuno uscì dalla moschea e tentò d’entrare nella Basilica dell’Annunciazione: buttò dei petardi proprio dove c’è la Grotta di Maria, spaventò i pellegrini. Rabia allora si mise di guardia, organizzò il servizio d’ordine. Diceva che bisognava garantire la pace a tutti, anche a chi veniva per pregare Gesù». Un giorno Rabia Shedade, 26 anni, arabo israeliano di Nazareth, s’è fatto crescere la barba. Ha smesso di frequentare le lezioni all’università Illit-Jezril. Ha lasciato la moglie incinta, sposata quattro mesi prima. Ed è riapparso su Facebook, in un video con la bandiera del Califfato: «Berremo il vostro sangue!», grida con una lama in mano e in bocca messaggi di morte. «Guardatelo bene – tuona subito dopo un compagno barbuto, alle sue spalle -: lui è Rabia Shedade, il macellaio venuto da Nazareth!».

Di tutti gli arruolati, è forse quello che più inorgoglisce l’Isis. Perché Rabia Shedade non è solo uno dei (pochi) palestinesi che hanno lasciato Israele per costruire lo Stato islamico. E’ il primo pescato in Galilea, nella città simbolo dei cristiani. Qualcosa che sul fronte iracheno e siriano va propagandato per bene: a Mosul, i miliziani islamici passano casa per casa a segnare le porte degl’infedeli con una “n” (ن), la “nun” dell’alfabeto arabo. “N” come “nasrani”, nazareno, ovvero seguace di Cristo. Da uccidere sul posto. Questa parola è un insulto, quand’è pronunciata dai tagliagole dell’Isis. Ma nelle ultime settimane è diventata un simbolo d’identità e di resistenza, adottato anche da chi non è cristiano: una giornalista della tv libanese Lbci, Dima Sadeq, è andata in onda ai primi d’agosto indossando una maglietta nera e una grande “ن” gialla sul petto, «siamo tutti del popolo di Nazareth».

Nessuno sa spiegare come e quando il Macellaio abbia maturato la scelta. «Negli ultimi tempi era solo più taciturno…». In giugno è nato suo figlio, che porta lo stesso nome, ma lui non l’ha visto: «Ho provato a contattarlo sul web – dice un amico -, mi ha risposto che si trova in Siria, nella zona di Aleppo, e che è felice d’aver scelto di combattere Bashar Assad. Ha detto di pregare per lui». Significato simbolico a parte, la storia di Rabia somiglia a quella di centinaia di volontari del jihad partiti da tutto il mondo. Non sono molti i simpatizzanti dell’Isis in Cisgiordania o a Gaza: su YouTube, si trova la satira sul Califfato recitata da attori palestinesi, con tagliagole imbranati e ignoranti. Però c’è un’area di consenso: uno sheik è stato fermato dalla polizia, dopo un discorso pubblico a sostegno di Al Baghdadi, e sui social network vengono postate bandiere nere sullo sfondo di Akko e di Umm al-Fahm, città arabe israeliane. «Non ci sono cose del genere nella nostra città – aveva garantito il sindaco di Nazareth, Ali Salem, a un giornalista tv che gli mostrava immagini di tifosi dell’Isis -, chi lo dice è un bugiardo e un provocatore». Pochi giorni, e il Macellaio gli ha risposto.

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