Nell’ottica di sfida alla corruzione della modernità che Radio Spada persegue, è sembrato opportuno, accanto al pensiero e alla battaglia politica, affiancare questo piccolo spazio di riflessione culturale in ambito artistico. Se è vero quello che dice il critico W. Pinder, cioè che «la storia dell’arte serve alla conoscenza dell’uomo», sia questa dunque l’occasione per un viaggio interiore alla scoperta dell’arte moderna, di una realtà decisamente sottosopra, di un mondo che purtroppo abbiamo fatto nostro già da molto tempo.

Qui la prima scheda: https://www.radiospada.org/2014/08/radio-arte-storia-di-due-non-artisti-mark-rothko-e-francis-bacon/

qui la seconda: https://www.radiospada.org/2014/08/radio-arte-lanti-arte-in-william-congdon/

qui la terzahttps://www.radiospada.org/2014/08/radio-arte-giudaizzare-il-sacro-cristiano-marc-chagall/

qui la quarta: https://www.radiospada.org/2014/08/radio-arte-la-rivoluzione-pagana-del-neoclassicismo-jacques-louis-david/

e qui la quinta: https://www.radiospada.org/2014/08/radio-arte-la-rivoluzione-del-colore-puro-in-william-turner/

e qui la sesta: https://www.radiospada.org/2014/09/radio-arte-john-constable-e-il-colore-puro/

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di Luca Fumagalli

In questa nuova puntata affronteremo monograficamente una delle correnti artistiche del ‘900 che più di tutte ha contribuito, in nettissimo anticipo sui tempi, a scardinare gli ultimi presupposti dell’arte tradizionale, per dare il via ad una sperimentazione rivoluzionaria i cui esiti sono ancora rintracciabili nella produzione artistica contemporanea. D’altronde è impossibile considerare la poetica di personaggi come Maurizio Cattelan e Damien Hirst (solo per citare i più famosi) senza tenere conto del dadaismo e delle sue folli innovazioni, così come risulta altrettanto evidente la
peculiarità e la carica esplosiva del movimento se paragonato alle prime avanguardie di inizio XX secolo che, a confronto, sembrano paradossalmente legate ancora ad un ideale artistico vetusto, arrancante e disorientato, fatto di tele e pennelli.

Abbiamo avuto modo in questi primi articoli della rubrica di studiare alcuni personaggi esemplificativi della trasformazione culturale e artistica che si compì in Europa con la rivoluzione francese: tutti però appaiono dei dilettanti se paragonati al movimento Dada la cui impronta
anarchica caratterizzerà carsicamente, talvolta nascondendosi e talvolta riemergendo, la futura evoluzione delle arti figurative.

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Il movimento dadaista nacque a Zurigo nel 1916 (diffondendosi negli anni successivi in Europa e in
America) con la fondazione del caffè letterario Cabaret Voltaire, in un periodo in cui nella città pullulavano rifugiati, disertori, antimilitaristi, rivoluzionari, critici e artisti di varia provenienza. I protagonisti principali del movimento furono il poeta Tristan Tzara, il pittore Marcel Janco
(entrambi ebrei rumeni), lo scultore e pittore alsaziano Hans Arp, lo scrittore e filosofo tedesco Hugo Ball, i francesi Francis Picabia e Marcel Duchamp che entrarono a far parte del gruppo zurighese solo nel 1918, anno in cui venne pubblicato sul terzo numero della rivista “Dada”, a firma dello stesso Tzara, il manifesto programmatico del movimento. I capisaldi teorici del gruppo paiono
una sorta di elogio alla libertà assoluta, alla fantasia senza freni: i dadaisti infatti accordano ampia importanza al gioco, alla combinazione casuale, di parole e oggetti, al non senso (pare che il nome dada fu scelto per caso infilando un taglia carta in un dizionario tedesco-francese e prendendo la
prima parola della pagina “dada”, un balbettio infantile insensato). Scopo principale di questo atteggiamento è quello di portare alla luce la contraddizione dell’arte all’interno della società capitalista e del processo di mercificazione cui è sottoposta. Per inseguire questi scopi, il dadaismo
mette in gioco una fantasia sfrenata che porta alla scoperta di molti e innovativi metodi di creazione dell’opera d’arte. Vengono infatti inventate nuove tecniche come il collage, il fotomontaggio, il rayogramma (ottenuto impressionando la pellicola fotosensibile direttamente sugli oggetti) e il
ready-made, che denunciano la distanza del gruppo dai procedimenti canonici dell’arte. Dada trova le sue radici non solo nell’eredità romantica dei poeti simbolisti ma anche in quella dei filosofi “negativi” come Nietzsche e Schopenauer che già alla fine del XIX sec. esprimevano il loro dissenso alla cieca fiducia nelle certezze del positivismo, certezze venute completamente a
mancare con lo scoppio della prima guerra mondiale.

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Naturalmente, data per unica regola certa quella di non avere regole, è difficile tracciare un profilo
unitario del gruppo, dal momento che gli esiti artistici dei membri furono tra di loro molto diversi, confluendo poi in esperienze successive a volte diametralmente opposte. Allo stesso modo la prematura scomparsa del movimento nella Parigi del 1920 è una conferma della lotta dadaista contro la ripetizione e l’epigonismo: nel momento in cui il gruppo sembrò diventare troppo “serio” e impegnato si suicidò naturalmente.

Se, come abbiamo visto, la singolarità delle varie esperienze dadaiste è irriducibile, allo stesso modo però pare possibile tracciare una breve analisi critica unitaria del dadaismo, dal momento che
alcuni aspetti essenziali paiono ricorrere in tutti gli artisti. Gli ambiti problematici che si possono individuare negli atteggiamenti appena descritti possono essere ricondotti a tre punti fondamentali:
– Il primo, e più gravido di conseguenze nella contemporaneità, è quello di concepire l’arte come intenzione e non più come prodotto.

– Il secondo: l’arte dada si configura come caustica e, almeno nei primi anni di vita, si veste di un’ironia amara, venata di nichilismo.

– Il terzo aspetto, quello che riassume come esito i precedenti, è il concepimento dell’attività artistica come disimpegno cronico nei confronti della vita, una mentalità rintracciabile nella categoria del divertissement pascaliano.

Per quanto riguarda il primo aspetto costituiscono un esempio esplicativo i già citati ready-made, con particolare attenzione a quelli prodotti da Duchamp.

 

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Il ready-made è un oggetto di uso comune che, decontestualizzato e parzialmente modificato (spesso solo nella posizione), assume significati inediti, valori estetici e statuto artistico proprio, che l’artista sancisce autografandolo. La scelta dell’ “oggetto pronto” non implica il confronto con un giudizio estetico a priori ma si basa sull’indifferenza visiva, sulla totale assenza di cattivo o buon gusto, il tutto mischiato con una buona dose di ironia provocatoria (si ricordi ad esempio La fontana, nulla più che un orinatoio capovolto). Pare chiaro allora in che termini si può parlare di arte come intenzione e di conseguente ideologizzazione della stessa: per la prima volta nella storia assistiamo al passaggio del concetto di artisticità dal prodotto artistico all’intenzione dell’autore, alla sua volontà. Non è quindi il risultato del lavoro artistico (una statua, un quadro…) che determina se ciò che ho davanti è un’opera d’arte o meno, ma è la volontà, l’intenzione appunto, dell’artista che arbitrariamente assegna l’etichetta di opera d’arte al proprio prodotto. Unsovvertimento rivoluzionario senza precedenti che hegelianamente premette l’idea artistica alla realtà dell’oggetto. Per fare ancora un altro esempio, la famosa Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni suscitò all’epoca parecchio scandalo perché, al di là della volgarità palese, utilizzava come prodotto del lavoro artistico proprio le feci, ciò che è per antonomasia diametralmente opposto a qualsiasi estetica del bello. Manzoni poté fare questa operazione fregiandosi del titolo di artista proprio perché prima di lui il dadaismo aveva pericolosamente sovvertito l’essenza stessa del fare artistico. Questo aspetto è decisivo e ci permette di capire il meccanismo che rende lecito a sedicenti artisti di oggi spacciare le proprie trovate clownesche come opere d’arte; la pericolosità è dunque palese dal momento che se contano soltanto le intenzioni, tutto ma proprio tutto quello che io faccio (compreso il sesso, la violenza, la volgarità…) può essere considerato un’opera d’arte. Allo stesso modo cade pericolosamente qualsiasi libera possibilità di giudizio da parte nostra, dal
momento che noi possiamo valutare solo i prodotti e non certo processare le intenzioni: cosa ci permette di distinguere allora una grande opera d’arte da un’impostura? Niente, mancano completamente quegli “appigli mentali” che ci permettono di “scalare” il senso dell’opera e che naturalmente devono essere rintracciabili nel visibile, nel lavoro stesso. Da questo atteggiamento
discende l’ironia e la leggerezza che caratterizza le iniziative artistiche dei dadaisti. Sono incapaci, per la natura stessa del gruppo, di creare una qualsiasi alternativa costruttiva diversa dalla corrosiva e provocatoria critica dei loro lavori. I dadaisti infatti paiono abili nelle distruzioni clamorose ma, anarchici nell’animo, sono ciechi circa la possibilità di una qualsiasi alternativa al tanto odiato mondo borghese. Non a caso, come già anticipato, proprio il venir meno di questa ironia nichilista (ben esplicitata nelle matte serate del Cabaret Voltaire dove si assisteva a concerti di rumori, ad imitazioni parodistiche, a travestitismi di ogni sorta e a recite di poesie onomatopeiche senza senso) porterà alla prematura scomparsa del gruppo. Tutti coloro che vorranno seriamente creare un’avanguardia alternativa confluiranno, infatti, in altri movimenti come, ad esempio, il surrealismo.

 

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Queste descrizioni introducono poi l’ultimo aspetto deleterio del movimento Dada. Concepire l’arte come intenzione e utilizzarla ironicamente per fini distruttivi, pone l’arte e l’artista stesso in una posizione di completo disinteresse nei confronti della realtà; e questo è già evidente dal momento
che, mentre loro si atteggiavano da ribelli a Zurigo contro i loro stessi genitori (essendo anch’essi borghesi), intorno a loro la guerra mieteva migliaia di vite. L’esempio personale di Hugo Ball è ancora più esemplificativo, dal momento che lui, tedesco, scappò in Svizzera nel 1916 per sfuggire all’arruolamento, rifiutando qualsiasi immischiamento nelle vicende politiche e belliche dell’Europa di allora. Certo sono riscontrabili eccezioni come ben testimonia il caso di Heartfield che, membro del partito comunista, fece dei suoi fotomontaggi uno strumento sociale e politico in funzione
antitedesca, specialmente durante la seconda guerra mondiale; il suo però rimane un caso sostanzialmente isolato, estraneo alla mentalità comune del gruppo. I dadaisti dunque concepiscono il loro lavoro come divertissement, oblio e stordimento di sé nella moltiplicazione delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. Allora l’intenzione e l’ironia paiono i presupposti necessari di una tipologia artistica sistematicamente muta, in fuga dalla realtà e cronicamente incapace, vista la sua follia ontologica, di una qualsiasi comunicazione efficace e valida. La distrazione e il divertimento si assommano nella cancellazione delle domande più profonde e autentiche dell’uomo, si scappa, forse presi dal timore, da una guerra disastrosa che per la
prima volta impose all’uomo moderno una profonda riflessione su sé stesso, sulla vita, sulla morte e sul valore dell’esistenza. Il dadaismo sfugge quindi a qualsiasi anelito autentico di conoscenza, si trincera nella critica, nell’ironia sagace, nella beffa e nell’autoreferenzialità e, come sempre accade,
scavata la superficie, della consistenza artistica e culturale del gruppo non rimane nulla. Ancora oggi la mentalità costitutiva del dadaismo, come già ripetuto più volte, impernia il mondo dell’arte: alla luce di quanto analizzato pare quindi giunto il momento di una seria interrogazione sul ruolo dell’artista nella società odierna. A questo punto, se l’arte non prenderà una netta virata tesa all’abbandono del futile e del provocatorio in direzione di un’autentica riscoperta della Vita, di Dio e dell’uomo, pare che di essa non ci sia proprio più bisogno…

 

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