Nota redazionale: Davide Canavesi in questo articolo ripercorre, approfondendoli, alcuni temi già affrontati in una conferenza di formazione militante tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 22 aprile 2009. Date le recenti dimissioni di Giorgio Napolitano ci sembra necessario ricordare alcuni degli aspetti più nefasti, mendaci e deteriori del suo “magistero” politico.
Giorgio Napolitano, intervenendo al convegno Verso il 150° dell’Italia unita presso l’Accademia dei Lincei, aveva espresso con ampiezza di parole (ma non certo di vedute) la mens con la quale le autorità e le istituzioni culturali preposte avrebbero dovuto promuovere, a suo modo di vedere, le iniziative legate alla celebrazione del 150° anniversario dell’instaurazione del dominio sabaudo sulla penisola. Lamentandosi dei “giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario” e dei “bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861”, considerati in toto “vecchi e nuovi luoghi comuni”, Napolitano aveva auspicato che l’intellighenzia italiota sapesse parlare del Risorgimento in modo da “rivalutarne e farne rivivere anche aspetti e momenti esaltanti e gloriosi, mortificati o irrisi spesso per l’ossessivo timore di cedere alla retorica degli ideali e dei sentimenti”[1]. Davanti alla palese volontà dell’allora presidente della repubblica di ridar fiato allo scipito peana nazionalistico si potrebbero ricordare le sagge parole di Samuel Johnson, secondo cui “il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni”, ma tralasciamo ogni sterile polemica e fingiamo, per giunta, di non notare il condizionamento politico e ideologico che Napolitano voleva esercitare sulla produzione culturale e soffermiamoci su altro. D’altronde, consci del fatto che qualsiasi tentativo di far risorgere un culto risorgimentale e italiota sia più che altro legato alla sorte della nazionale di calcio ai prossimi mondiali, ci limitiamo a evidenziare come il presidente della Repubblica sembri ignorare totalmente con somma malizia come, fin da subito, la celebrazione degli eventi del 1860-61 e degli antecedenti (1830, 1848, ecc.) si sia avvalsa di una retorica tanto ampollosa e magniloquente quanto preoccupata di nascondere alcuni motori del processo di unificazione e di alterarne molti aspetti. Qualora peraltro la storiografia sul Risorgimento, a cui preferiamo riferirci utilizzando la categoria di Rivoluzione italiana[2], si fosse mostrata del tutto oggettiva e disinteressata mi sembra evidente che, rispetto a questa, di molto maggior peso per l’educazione del popolo si sia dimostrata una produzione letteraria ad uso scolastico che certo non ha lesinato in retorica, come quella di Mercantini, De Amicis e Abba. In particolar modo l’autore di Cuore ha diffuso nel sentire comune, con immagini semplici e sentimentali, la percezione di un risorgimento come risultato di moti e auspici popolari, mascherando però nella profusione di buoni intenzioni un rivoltante utilitarismo di stampo borghese[3].
Vorremmo invece soffermarci sul fatto che lo stesso processo risorgimentale si sia nutrito e alimentato culturalmente attraverso una sistematica perversione di avvenimenti e personaggi storici operata da romanzieri, poeti, compositori e storiografi che credevano, o fingevano di credere, di scorgere in quelli dei preludi al processo rivoluzionario da loro sostenuto e fomentato. Chiaramente ciò non è un giudizio senza appello: i letterati e gli storiografi fautori della Rivoluzione italiana erano figli del romanticismo, cioè di un’epoca e di una corrente culturale che, reagendo all’antitradizionale illuminismo, sviluppò un’attenzione schizofrenica per la storia. Testimonianza ne è uno dei generi letterari più praticati del secolo, il romanzo storico, che diede vita ad una selva di libri di qualità discutibile accanto a capolavori come quello di Manzoni, il quale, a onor del vero, vide esaurita la sua creatività letteraria proprio constatando, attraverso il saggio Del romanzo e in genere de’ componimenti misti di storia e invenzione, il fallimento del genere a cui aveva dedicato molti anni della sua carriera.
Una vera summa della mitografia storica risorgimentale è il Canto degli italiani (1847) di Goffredo Mameli, la cui retorica farebbe forse piacere a Napolitano ma certo non è un esempio di oggettività e attendibilità storica, dato che lo stesso Mameli non aveva proprio una concezione ingenua della produzione artistica (“L’arte non è un diletto ma un apostolato”[4]). Mameli peraltro in tutta la sua produzione letteraria supplì con una retorica debordante a una povertà contenutistica che anche Carducci più volte gli rimproverò, definendo la sua poesia “rigatteria romantica” e dotata di “un’eco languida e mozza di quella poesia di second’ordine”[5]. In particolare la quarta strofa dell’inno (incipit: Dall’Alpi alla Sicilia..) evoca una serie di avvenimenti storici che già da anni servivano da comodo seppur illusorio appiglio alla propaganda unitaria e sui quali vorrei fornire alcune prove della scarsa attendibilità storica. Gli eventi storici evocati sono la battaglia di Legnano, la difesa della Repubblica Fiorentina da parte delle milizie di Francesco Ferrucci, l’insurrezione genovese contro gli austro-piemontesi durante la Guerra di Successione austriaca e i Vespri siciliani. In questo articolo ci concentreremo unicamente sui primi due eventi.
Ovunque è Legnano
La celebre battaglia di Legnano (28 maggio 1176) è una delle tematiche più frequentemente tirate in questione dalla propaganda risorgimentale, ciò principalmente per due motivi: l’esaltazione della società comunale, concepita come epoca di libertà tra l’abisso del feudalesimo e la decadenza dell’epoca moderna, secondo lo schema elaborato dal protestante Sismonde de Sismondi[6], e la lotta contro l’imperatore “tedesco”, metaforicamente paragonato all’austriaco. Evidentemente nessuna questione nazionale contribuì a determinare la conflittualità tra l’imperatori e i comuni guidati da Milano, così come affermò con grande perspicacia Indro Montanelli: “Fu una rivolta contro l’imperatore non in quanto straniero ma in quanto esattore di balzelli”[7]. Alcun afflato idealistico né nazionalistico riempì i cuori dei lombardi i quali si batterono unicamente per motivi economici, cioè la possibilità di godere dei frutti delle cosiddette regalìe (o iura regalia), di diritto spettanti al sovrano ma per consuetudine passate ai comuni, rivendicate da Federico supportato dai maestri della “rinascita giuridica” dell’Università di Bologna. Proprio per questo rispetto all’interpretazione risorgimentale quella leghista, nel suo aspetto meramente economico, ha molte più ragioni da spendere. Nessuna velleità indipendentista o di liberazione dal potere imperiale comunque: i comuni richiedevano unicamente di poter godere dei frutti delle regalìe così come facevano da più di un secolo e non volevano affatto mettere in dubbio l’autorità del Barbarossa tanto da concludere ogni patto della Societas Lombardiae con la formula “salva fidelitate Domino Imperatore”[8]. Numerosi furono gli scrittori e gli artisti (Pellico, Cantù, D’Azeglio, Hayez, Berchet, Mamiani, Verdi, Carducci) che s’impadronirono della vicenda la quale divenne un vero e proprio cavallo di battaglia soprattutto per la corrente neoguelfa. Difatti alcuni particolari contribuivano a rendere l’evento più favorevole all’interpretazione neoguelfa della “storia patria” dato che i comuni, guerreggiando accomunati sotto l’insegna della croce di San Giorgio, ebbero anche l’aiuto di Alessandro III (1159-81), in lotta anch’egli con l’imperatore, che nella trasfigurazione risorgimentale diveniva una figura molto simile al Pio IX del biennio liberale[9]. Interessante per valutare la componente ideologica di queste interpretazioni è analizzare brevemente la storia dell’opera poetica più conosciuta riguardante Legnano e gli eventi correlati: Il Parlamento di Carducci. Come è ben noto essa avrebbe dovuto essere la prima parte di un più vasto componimento, intitolato La battaglia di Legnano, che avrebbe trattato anche della battaglia in sé e della fuga del Barbarossa. Composta la prima parte tra il 1876 e il 1879, Carducci abbandonò definitivamente la stesura nel 1882, non a caso anno della stipulazione della Triplice Alleanza con la quale veniva meno l’ostilità risorgimentale antiaustriaca, sancendo l’alleanza dell’Italia con la Germania e l’Austria in chiave antifrancese. Anche Carducci, da sempre impegnato nella difesa delle posizioni governative, abbandonò il livore antiaustriaco arrivando a celebrare in una successiva poesia, Sui campi di Marengo, la figura stessa del fulvo imperatore. Il mito di Legnano, dimenticato dal Carducci e dall’establishment massonico-liberale, divenne pertanto ancor più vessillo del cattolicesimo liberale, tanto che il quotidiano dei cattolici liberali milanesi prese il nome di “La Lega lombarda”. Evidentemente essi si rifiutarono di ascoltare la ritrattazione di uno dei fondatori della corrente neoguelfa, Massimo d’Azeglio, che, ad anni di distanza dalle celebri tele dedicate alla vicenda, scrisse queste parole di epitaffio al mito di Legnano: “Noi moderni con le nostre idee, abbiamo fatto tanti eroi d’indipendenza dei congiurati di Pontida i quali, meglio studiati, si trovano essere stati dei vassalli in questione col loro Signore e che avrebbero dato del matto a chi avesse voluto mettere innanzi che il Barbarossa non era il loro sovrano”[10].
Ogni uom di Ferruccio ha il core e la mano
Anche se l’inno venisse cantato con frequenza nella sua interezza, e non ci si limitasse alla strofa enfatica d’apertura, probabilmente ben pochi sarebbero capaci di comprendere chi fosse questo Ferruccio di cui si canta il coraggio (il core) e l’abilità militare (la mano). Su questo si è infatti abbattuta nel XX secolo la scure del “revisionismo” risorgimentale operato da Gramsci, il quale considerava Francesco Ferrucci e la Repubblica Fiorentina da lui difesa portatrice di posizioni reazionarie mentre i loro vituperati avversari filo-imperiali fautori del vero progresso[11]. Tralasciando questa discussione, tipica di un approccio post-hegeliano alla storia, la vicenda di Ferruccio e della difesa dell’effimera Repubblica Fiorentina (1527-30), assediata dalle truppe imperiali di Fabrizio Maramaldo diede vita a una serie di riprese romanzesche risorgimentali, la più nota delle quali da parte del neo-ghibellino Francesco Domenico Guerrazzi ne L’assedio di Firenze (1830). Il neoghibellinismo[12] trovò nella vicenda in questione tre cose che potevano fungere da appiglio alla propria visione politica: innanzitutto il repubblicanesimo, in secondo luogo la funzione repressiva operata dall’impero e, infine, il fatto che l’imperatore fosse stato sollecitato a intervenire dal Papa, segnalando così l’alleanza delle forze reazionarie di Chiesa e Impero. Naturalmente il repubblicanesimo aristocratico della Repubblica Fiorentina aveva poco a che vedere con il repubblicanesimo mazziniano sul quale il Guerrazzi avrebbe voluta veder stabilita l’unità d’Italia, mentre l’alleanza papato-impero è da situare nel particolare contesto dell’epoca. Infatti se è vero che la Repubblica Fiorentina fu repressa per ristabilire la signoria su Firenze di Alessandro de’ Medici, parente del Papa Clemente VII (anch’egli Medici), è anche vero che lo stesso abbattimento della sovranità medicea tre anni prima, nel 1527, era stato apertamente aiutato dalla calata nella penisola dei lanzichenecchi al soldo dell’Imperatore, culminata col Sacco di Roma, atto punitivo di Carlo V nei confronti del Papa mediceo unitosi alla Francia nella Lega antiasburgica di Cognac. Nel 1529 però con la pace di Barcellona vennero ristabiliti cordiali rapporti tra Clemente VII e Carlo V, che si premurò di accondiscendere alla richiesta papale di restituire Firenze alla sua casata ponendo fine alla Repubblica Fiorentina. La battaglia decisiva tra i repubblicani fiorentini, guidate dall’invitto Ferrucci, e le truppe imperiali di Fabrizio Maramaldo avvenne a Gavinana il 3 agosto 1530 e in quell’occasione i fiorentini furono sconfitti, forse a causa del tradimento di Malatesta Baglioni, compagno d’armi di Ferrucci. Dopo la battaglia secondo alcuni Maramaldo uccise il Ferrucci con una pugnalata oppure, secondo altri, si limitò a ferirlo prima che altri soldati eseguissero la condanna a morte. A questo punto i repubblicani fiorentini esiliati incominciarono ad elaborare la leggenda del Ferrucci: fu in particolar modo Benedetto Varchi, nella sua Storia fiorentina, commissionatagli ma poi rigettata dai Medici, a inventare la famosa vicenda secondo la quale Maramaldo avrebbe pugnalato lui stesso il Ferrucci già ferito a morte il quale avrebbe risposto alla pugnalata con le parole: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. La circostanza non è riferita da nessun altro storico, neppure dall’altro esule repubblicano Donato Giannotti che si limita ad indicare che Maramaldo vilmente lo sfregiò in volto con una pugnalata. Difficile è affermare se la versione repubblicana corrisponda al vero, certo è che l’esecuzione del Ferrucci fino al XIX secolo non pesò in alcun modo sulla sua figura e la sua reputazione di condottiero e la vicenda in questione fu considerata episodio normale in uno scontro come quello[13]. E’ opportuno comunque segnalare l’opinione di storici più vicini alla fazione imperiale i quali tendono a demitizzare la figura di Ferrucci ed ad assolvere, quanto meno parzialmente, quella di Maramaldo, che da questa vicenda guadagnò il vile significato attribuito al suo nome. Secondo il lucchese Donato Ori il Ferrucci, ben lungi dall’aver affrontato coraggiosamente la sconfitta e la morte, avrebbe offerto dei soldi al Maramaldo per comprare la propria liberazione, causando così la reazione stizzita del vincitore. Comunque sia è certo che il rapporto tra Maramaldo e Ferrucci non era quello tra due normali generali. Evidentemente tra di loro doveva esserci un astio particolare causato da precedenti scontri, accresciuto dal fatto che, come racconta Paolo Giovio[14] seguito a ruota da Guicciardini[15], Maramaldo si sarebbe vendicato del Ferrucci il quale, qualche mese prima, aveva fatto impiccare un suo emissario a Volterra tanto da guadagnarsi una cospicua taglia sulla testa da parte del Maramaldo, il quale si sarebbe limitato a eseguire la condanna a morte, con la colpa di averlo fatto su un ferito. Forse la mano di Ferruccio non fu tanto meno crudele e poco cavalleresca di quella del Maramaldo!
[1] Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso, pronunciato a Roma presso l’Accademia dei Lincei, 12 febbraio 2010, reperibile all’indirizzo: www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=1784.
[2] Questa categoria intende mostrare come il Risorgimento sia stato l’importazione dei valori della Rivoluzione francese nella penisola. Abbandonata nel XX secolo, era invece molto comune nel XIX ed utilizzata anche da Manzoni, in chiave positiva, nel saggio La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859.
[3] F.Cardini, Un’Italia senza cuore?, in «Avvenire», 23/02/2010.
[4] A.G.Barrilli (a cura di), Scritti editi ed inediti di Goffredo Mameli, Società ligure di Storia Patria 1902, p. 338.
[5] G.Carducci, Goffredo Mameli, in Poeti e figure del Risorgimento, Bologna 1939, p. 369.
[6] Proposto nell’ Histoire des républiques italiennes du moyen âge in sedici volume scritto tra il 1807 e il 1818. E’ evidente l’implicita anticattolicità nell’idea della decadenza post-comunale.
[7] I.Montanelli, L’Italia dei comuni. Il Medio Evo dal 1000 al 1250, in Storia d’Italia, Milano, RCS quotidiani 2003, vol. I, p. 521.
[8] F.Cardini, La vera storia della Lega Lombarda, Milano, Mondadori 2003, p. 74.
[9] Soprattutto nell’opera dell’abate L.Tosti osb, Storia della Lega Lombarda, Tipografia di Montecassino, Ivi 1848.
[10] F.Cardini, La vera storia…, p. 133
[11] A.Gramsci, Passato e presente, Roma, Editori Riuniti 1996, p. 60.
[12] Anche il neoguelfo D’Azeglio comunque parlò della vicenda nel suo Niccolo de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841), nei quali difende la Repubblica fiorentina, prendendo in particolar modo il punto di vista della fazione “piagnona”, ossia degli ultimi seguaci di fra Gerolamo Savonarola, apertamente repubblicani e avversi al Papato.
[13] M.Arfaioli, Maramaldo Fabrizio, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 2007, vol. 69, p. 399.
[14] P.Giovio, Historiarum sui temporis, in Pauli Iovii Opera, Roma, Istituto poligrafico dello Stato 1964, t.IV, p. 187.
[15] F.Guicciardini, Storia d’Italia, in Id., Opere, Milano-Napoli, Ricciardi 1961, p. 1047.