di Massimo Micaletti
Dunque pare che un po’ tutti siano Charlie: da Matteo Salvini a Rudi Garcia, da Daniela Santanché a Nichi Vendola, tutti charlieri. Povero Pino Daniele, tutti sono stati lui solo per un giorno scarso, poi tutti vignettisti.
Ma se tutti sono Charlie, pochi sanno chi è davvero Charlie o meglio chi sono i suoi amici. Potremmo chiederlo a qualcuno che lo conosce bene: Maurice Sinet, in arte Siné, vignettista che ha lavorato a quella raffinatissima pubblicazione per diversi anni, poi non più.
Siamo nel 2008 e si vocifera della conversione al giudaismo di Jean Sarkozy, figlio del rieletto Presidente Nicholas Sarkozy; la matita feroce e charliera di Siné non si lascia scappare l’evento (peraltro, rivelatosi poi una bufala) e rilascia questa dichiarazione “Jean Sarkozy, degno figlio di suo padre e già generale consigliere del UMP, è uscito quasi tra gli applausi del suo processo per reato di fuga in scooter. La Procura ha anche chiesto il suo proscioglimento! Va detto che il denunciante è arabo! Ma non è tutto: ha appena detto di volersi convertire all’ebraismo prima di sposare la sua fidanzata, ebrea, ed erede dei fondatori di Darty. Ne farà di strada nella vita, questo piccoletto!”.
Il vignettista si riferiva al fatto che il giovane era sotto processo perché nel 2005, alla guida di uno scooter, aveva tamponato un automobilista ed era fuggito. Querelato, fu effettivamente assolto in primo grado, pochi mesi dopo le dichiarazioni di Siné, e la vittima fu condannata (!) a versargli duemila euro per calunnia[1]. La Procura non appellò la sentenza di primo grado ma lo fece l’automobilista, il Signor Mohammed Bellouti – generalità tipicamente nordeuropee, no? – e nel 2009 la Corte d’Appello confermò l’assoluzione per il presidenzial pargolo ma, almeno, tolse al povero tamponato la condanna ai duemila euro. Qualcuno non la prende bene, perché sul giudaismo non si scherza in terra massonica; anzi, a dire il vero non si può scherzare da nessuna parte. Così nasce quello che viene ancor oggi definito Oltralpe l’Affaire Siné.
Il 15 giugno 2008 Philippe Val, allora direttore del Charlie, licenzia in tronco Siné accusandolo di antisemitismo. Ripeto: Siné viene licenziato con l’accusa di antisemitismo per le dichiarazioni su Jean Sarkozy, dichiarazioni i cui toni rispetto a quelli abitualmente adoperati al giornale stanno un po’ come il Canzoniere di Petrarca ad una curva da stadio.
Particolarmente indicativa una circostanza: Val ne annuncia pubblicamente il licenziamento prima ancora che la relativa comunicazione giunga al lavoratore. Insomma, tale e tanta è la fretta di cavarsi dall’impaccio di uno che ha osato fare satira sull’ebraismo come via per far strada e sul potere politico, che immediatamente gli spavaldoni si sono premurati di far sapere urbi et orbi che la moralità è stata ripristinata e che il blasfemo provocatore è stato allontanato, prima ancora che il gaglioffo stesso lo sappia.
Con un solo fulmineo colpo, i coraggiosi senza macchia e senza paura di Charlie Hebdo si mettono al sicuro sia dalla lobby ebraica che dal potere poltico. Cuor di leone, non c’è che dire.
La polemica che ne segue è – come prevedibile – alquanto complessa perché coinvolge la retorica giudaica e la retorica antisemita, la critica al sionismo e la fanfare del grande Israele e non mancano diversi risvolti giudiziari.
Siné viene innanzitutto processato per incitamento all’odio razziale, rispolverando suoi precedenti del 1985 per antisemitismo[2], su iniziativa della LICRA (Ligue Internationale contre le Racisme e l’Antisemitisme[3]) e dopo oltre un anno viene assolto.
Sinè stesso fa causa al giornale – sì, a Charlie Hebdo – impugnando il proprio licenziamento, anche se nel frattempo ha fondato un proprio giornale satirico (“Siné Hebdo”: ma i vignettisti satirici non dovrebbero spiccare per fantasia?). Il vignettista vince sia in primo che in secondo grado: il giornale viene condannato al pagamento prima di quarantamila euro poi, all’esito dell’appello promosso dalla testata e dalle Editions Rotatives che la pubblica, la condanna sale a novantamila euro oltre interessi. La copertina e le dichiarazioni di Siné vengono ritenute immuni da censure in chiave antisemita ed assolutamente non idonee a fondare il licenziamento: tra le voci di danno riconosciute al disegnatore c’è pure il fatto che sia stata data notizia dell’interruzione del rapporto prima che l’interessato ne avesse conoscenza.
Nel frattempo, nella polemica il blocco dei giornali “liberi e progressisti” di Francia si schiera contro Siné: Bernard-Henri Lévy (sì, quello che oggi dice più o meno che o siamo tutti Charlie Hebdo o alla prossima Befana solo carbone) sul Monde del 21 luglio 2008 pubblica un’analisi del caso dall’eloquente titolo “Siné chi?”[4] in cui appoggia pienamente Philippe Val, definendo il giornale “uno dei migliori eredi di Voltaire”, perché la satira sarebbe il vero Illuminismo del nostro tempo. Neppure Liberation sostiene Siné, anzi il direttore Laurent Joffrin prende espressa posizione contro le dichiarazioni del vignettista[5]. Quantomeno divertente è la circostanza che, nella foga di difendere il collega Val che aveva licenziato Sinet, Joffrin adopera a proposito degli ebrei la parola “razza” ed è costretto a modificare immediatamente il testo del pezzo nella versione informatica per evitare polemiche con le solite associazioni ebraiche, che si erano comprensibilmente lamentate pure di questo.
Per contro, viene organizzata una petizione on line che raccoglie in poco tempo ventiseimila firme contro il licenziamento di Sinet: vi aderiscono, tra gli altri, numerosi disegnatori ma anche qualche attore come Gerard Depardieu ed alcune personalità ebraiche; in replica, sul Monde del 31 luglio esce un pezzo sottoscritto da una ventina di personaggi della cultura e dello spettacolo che sostengono il direttore Val, tra i quali lo stesso Bernard-Henri Lévy ed Eli Wiesel.
Pierre Rimbert, sul Monde Diplomatique, avverte che nel caso Sinet come in altri l’uso dell’accusa di antisemitismo è strumentale all’eliminazione dell’opponente e delle sue argomentazioni[6]. Scrive Rimbert: “Fin dai primi Anni Novanta, ci sono stati più avversari dell’imperialismo, del neoliberismo, dei media dominanti … qualificati come antisemiti, anche “nazisti” da qualche tutore dell’ordine sociale. Il pretesto potrebbe essere evanescente, anche inesistente. Non importa: schiacciato dalla gravità dell’accusa, l’imputato deve immediatamente dimostrare la sua patente antirazzista, stilando la lista dei suoi amici e parenti prontamente trasformati in garanzie di moralità, fare l’autopsia ad una battuta di spirito più o meno riuscita. Niente da fare. Perché solo l’Inquisizione ed i giudici inflessibili (Alain Finkielkraut, Ivan Rioufol, Alexandre Adler, Philippe Val, Bernard-Henri Lévy) sono stati autorizzati ad utilizzare la mancanza di rispetto, la provocazione, a tracciare (o violare) la linea gialla di stigmatizzazione collettiva. Essi possono giustificare – in nome di Voltaire e del diritto di caricatura – le loro intemperanze, ad esempio, sul colore dei giocatori della squadra di calcio francese o sull’assimilazione dell’islam con il terrorismo”.
Questa vicenda appare molto illuminante sul reale indirizzo del Charlie e sulla prudenza – diciamo così – che esso adopera con certi soggetti e certi ambiti, mentre verso altri obiettivi impugna la matita con maggiore… disinvoltura.
Alcuni, quando difendono la cosiddetta “libertà di espressione” ergendo questo fogliaccio – e consimili – ad araldo della satira che non fa sconti a nessuno, farebbero bene ad aver presente l’Affaire Sinet, spaccato esemplare non solo di quel che sono certa stampa o certa cultura sedicente indipendente, di cosa le faccia davvero paura, ma anche e soprattutto di quali siano le forze realmente in grado di condizionare il dibattito politico e culturale in una République cui piace tanto credersi laique.
appunto, vigliacchi furbastri, a servizio del Potere, quello stesso che ora ha avuto interesse afrli eliminare.Ben gli sta.
Quanta ragione dalla parte di quelli che subito hanno gridato: je ne suis pas charlie!