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di Luca Fumagalli

«Egli però non si limita a restituire l’evangelo
al suo mordente originario: fa di più, lo rivive»

(M. POMILIO, Il quinto evangelio)

 

A Mario Pomilio (1921-1990) è toccata la sorte che, sfortunatamente, accompagna molti di quegli autori che, per profondità e ampiezza di sguardo, riescono a ottenere un discreto successo in vita per poi scomparire nelle tenebre dell’oblio. Dello scrittore abruzzese oggi non rimane più alcuna traccia, solo qualche volume riedito di recente nella generale indifferenza dei più. Eppure non si trattò affatto di una meteora: un lungo elenco di premi, tra cui spiccano il Campiello e lo Stega, contraddistinse una carriera durata quarant’anni e che ebbe, come punto culminante, la conversione al cattolicesimo.

Tra i numerosi romanzi, un posto d’eccezione è occupato da Il quinto evangelio, un’opera ardita, provocatoria e a tratti soffocante per la complessità della struttura e la paradossale limpidezza dei contenuti. Chi sfoglia le pagine del volume, pubblicato nel 1975 dalla Rusconi, non si può sottrarre alla tentazione dell’estremo, perché Pomilio o lo si ama o lo si odia.

Il lettore, più che un tradizionale romanzo, si trova tra le mani gli appunti sparsi di Peter Bergin, un docente universitario americano che ha speso tutta la vita alla ricerca del misterioso quinto vangelo, un testo di cui parlano numerosi documenti e, lungi dal volgare apocrifo, un’opera in grado di chiarire ogni zona d’ombra lasciata dagli evangelisti canonici: «Volete anzi che vi dica un assurdo? La tradizione cristiana in fondo cos’altro è se non un lungo apocrifo, un andare cercando il Vangelo dei Vangeli? Magari anzi ci fosse…». Il professore, ormai anziano e prossimo alla fine, sembra voler affidare a chi legge – previa una lettera introduttiva che racconta la sua storia – i risultati delle sue ricerche, non in forma di testo compatto e lineare, ma come una serie di testimonianze, racconti e citazioni che vanno dal medioevo ai tempi più recenti.

Inizia così un viaggio in cui il lettore percepisce sin da subito la vertigine del coinvolgimento e che, oltre a rivivere alcune delle epoche più significative della storia della Chiesa, lo porta a fare i conti con i risultati esposti da Bergin e, soprattutto, con se stesso. Infatti, mano a mano che si procede nella lettura, la possibile esistenza di un manoscritto capace di rivelare finalmente il senso ultimo e profondo del messaggio cristiano, diventa un problema del tutto secondario. Ciò che più conta è la scoperta di un Cristo che, in luoghi ed epoche diverse, ha la capacità di farsi presenza viva come sempre vivo e attuale è il suo messaggio. Anche la passione intellettuale di Bergin si trasforma progressivamente in un’autentica esperienza di conversione religiosa che lo vede allontanarsi dalle posizioni agnostiche della giovinezza per abbracciare l’ipotesi cristiana.

All’epoca della pubblicazione, Il quinto evangelio ottenne un grande successo commerciale, testimoniato dalle numerose edizioni che si susseguirono rapidamente nel giro di pochi mesi. Non poteva essere altrimenti dato che Pomilio si incaricò di dare voce a quella religiosità tormentata tipica del periodo postconciliare, quel cattolicesimo che andava progressivamente sgretolandosi dall’interno. Il libro è dunque il fedele ritratto del cristiano “moderno”, un uomo che nutre seri dubbi nei confronti della fede stessa. Nei diversi documenti raccolti da Bergin il quinto vangelo assume di conseguenza i connotati di un pauperistico ritorno alle fonti che, però, in maniera brillante, Pomilio – abile nell’allontanare ogni tentazione gnostica – esplicita in un riavvicinamento alla dimensione storica del Cristo: «Procura di trovare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio».

Ma, proprio nel momento in cui l’autore rivela la sua più grande intuizione, è come se il libro andasse via via consumandosi nel fuoco lento delle ovvietà e delle facili contestazioni alla gerarchia ecclesiastica, quasi cedendo, con un po’ di cattivo gusto, alle lusinghe modaiole degli anni ‘70. Andrea Sciffo, nel saggio L’albero capovolto, precisa: «Che Il quinto evangelio sia un libro che nessuno legge sta a significare almeno due cose: primo, che il racconto esprimeva l’afflato di un’anima cristiana a disagio e confinante con l’eresia […]; secondo, che la coscienza tormentata dei […] “cristiani adulti” alla quale il romanzo trent’anni fa diede voce, oggi non esiste più perché quegli uomini, pur avendo avuto dei figli, non furono capaci di esserne i padri».

Pomilio rimane uno degli esempi più illuminanti in tal senso, un demolitore dal brillante acume – e Il quinto evangelio in molti punti mostra una delicatezza a tratti commovente e il fiero autoritarismo del capolavoro – ma che, trionfante sulle macerie della rivoluzione, credette di aver terminato anzitempo il suo compito. Ad altri sarebbe spettato l’incarico di edificare, ma l’unico risultato è che quelle macerie sono le stesse tra cui ancora oggi ci aggiriamo.