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Pubblichiamo volentieri questo stimolante contributo di Pietro Ferrari su un tema che continua ad essere molto dibattuto.

 

di Pietro Ferrari

”Vado alla messa in latino perché è più silenziosa, più bella e poi l’atmosfera è più sacra di quella che si respira nelle messe in italiano”. Quante volte abbiamo sentito queste considerazioni? Certo, si dirà che “dipende da come viene celebrata, però a quella ‘in italiano’ le persone prendono la comunione in mano, parlano dai pulpiti e si danno il segno della pace, c’è un’atmosfera ‘meno sacra’, mentre in quella ‘in latino’ stanno tutti in ginocchio”.

 

Insomma la ‘messa in italiano’ sarebbe per molti ‘bruttarella’, valida di precetto e necessaria alla salvezza ma ‘si presta’ agli abusi, mentre quella ‘in latino’, ha qualcosa in più, (cosa?) e darebbe ‘più gloria a Dio’ rispetto all’altra. Perché la Chiesa avrebbe deciso di cambiare un rito bello con uno meno bello, un uso con degli abusi tollerati, un rito sacro con uno che ‘dà meno gloria a Dio’ e che secondo alcuni rischierebbe di far perdere la fede, pur essendo il rito di quella fede? Dicono che la Chiesa ‘può sbagliare’ e che i nemici di Essa hanno voluto un ‘rito protestante’ ma che però, sarebbe sempre cattolico… Se poi i riti in fin dei conti e per non volerne fare una questione di sostanza, vanno bene allo stesso modo, perché se sono entrambi validi e cattolici ci si arrovella tanto per avere quello ‘straordinario’?

 

Capriccio estetico? Vezzo antichista? Snobismo culturale? Ricerca della singolarità? Spirito di contraddizione verso il proprio parroco?

 

Il celebrante in modo ‘ordinario’ secondo molti fa la differenza se ‘è bravo’ o se ‘è cattolico’, perché ‘quando celebra lui va bene comunque’ – “il mio parroco è differente” – laddove quello biritualista rischia la schizofrenìa, col doppio Calendario e forse pure col doppio Breviario, trovandosi ad offrire due riti a seconda dei palati e con i ‘parrocchiani qualunque’, che si sentono infastiditi dai gusti troppo sofisticati di una nicchia di latinisti spesso neanche parrocchiani. 

 

Gli entusiasti ‘motupropristi’ hanno da subito interpretato la ‘liberalizzazione’ del cosiddetto vetus ordo come la prova dell’inizio di una Restaurazione, glissando però sul fatto che il novus ordo venne promulgato proprio per superare il precedente, unitamente e coerentemente con altre numerose altre ‘novità’ liturgiche, sacramentali, canoniche e dottrinali.

 

Senza voler entrare minimamente nel merito della ‘questione liturgica’, cerchiamo di analizzare l’impatto sociale che ha avuto nella coscienza dei parrocchiani il rispolvero del ‘rito in latino’ riformato nel 1962 da Giuseppe Roncalli.

 

Nel 2010 i siti unavox e messainlatino, pubblicarono una statistica delle applicazioni del Motu Proprio di J. Ratzinger che ‘liberalizzava’ la ‘messa in latino’.

 

In Italia: “…Vi sono 26.000 parrocchie: la celebrazione col Rito Tradizionale si svolge in 116 centri di Messa (0,4 %). Percentuale più bassa che nel resto del mondo: vi sono in totale 222.530 parrocchie; la celebrazione col Rito Tradizionale si svolge in 1425 centri di Messa (0,6 %).”.

 

In buona sostanza il ‘rito in latino’ era già qualcosa di alieno dalla vita delle parrocchie e considerato più stravagante, come ‘moda’, delle variopinte ‘celebrazioni’ inventate da carismatici e gruppi laicali sorti dopo il CVII.

 

Sarebbe ora di ammetterlo con grande franchezza e di riflettere su questa evidenza: il ‘rispolvero’ del ‘rito in latino’ è stato un tremendo fallimento se ci si aspettava una rinascita della sensibilità tradizionale, un tonfo che fa sghignazzare i progressisti abituati ad avere numeri giganteschi nelle loro assemblee fatte di balletti, svenimenti e neoprofetesse palpitanti dai pulpiti.

L’unico risultato che ha avuto il Motu Proprio, è stato quello di mettere in fibrillazione qualche oratorio di cattolici tradizionalisti. Fosse stato questo il vero obbiettivo?