Niente2

«Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so.

Perciò non vale la pena far niente, lo vedo solo adesso»

(J. TELLER, Niente)

di Luca Fumagalli

Il nulla, come un morso al cuore, è la disperante sensazione che accompagna il lettore attraverso le pagine di Niente, l’ultimo romanzo di Janne Teller, scrittrice danese che, negli ultimi anni, sta maturando una discreta notorietà internazionale. Allontanandosi con una balzo terribilmente carnale dai triti luoghi comuni della positività dell’esistenza – degni più di uno spot pubblicitario che del vivere quotidiano – la Teller offre a chi legge la storia di una sconfitta. Nel suo libro non vi è spazio per positività d’accatto o redenzioni di qualunque tipo e la narrazione, fredda e cupa come le terre scandinave, getta un’ombra provocatoria e dissacrante che ha l’indiscutibile pregio di interrogare il lettore.

Danimarca. Anni 1992-1993. Un gruppo di tredicenni, pronti a iniziare nuovamente la scuola dopo la pausa estiva, si trova a fare i conti con un imprevisto drammatico: Pierre Anthon, un loro compagno di classe, ha deciso di ritirarsi a vivere su un albero, convinto che la vita non abbia alcun senso. Da lì, comodamente adagiato tra i rami di un susino, lancia ai passanti aforismi dal sapore cinico e disincantato. La sua voce, al pari di quella della coscienza, interroga i ragazzi tra cui vi è Agnes, la protagonista femminile. Dopo una consultazione durante l’intervallo, il gruppo decide di dimostrare a Pierre Anthon il valore della vita raccogliendo in un grande cumulo tutti gli oggetti che per loro sono significativi. Se, all’inizio, il gesto è mosso da intenti di generosità e affetto, presto si straforma in un gioco macabro motivato da rivalse e invidie fino a giungere al terribile finale.

Quella che all’inizio può sembrare un’innocente favola sulla falsariga de Il barone rampante – scritta con una prosa asciutta a cui si accompagna uno stile penetrante, capace di rappresentare la commovente brutalità dell’adolescenza con singolare efficacia – dopo poche pagine si trasforma in un incubo dalle forti implicazioni morali che rende l’opera paragonabile per molti aspetti a Il Signore delle Mosche di William Golding. I protagonisti, infatti, giovani e apparentemente innocenti, si mostrano presto per quello che sono: esseri capaci di atroci malvagità la cui anima, lacerata dal peccato originale, non è in grado di sostenere l’urto con la disperante filosofia di Pierre Anthon. Il risultato è un cortocircuito che, come nel romanzo di Golding, non può che generare violenza e morte. Nell’inversione dell’evangelica purezza del fanciullo risiede molto della carica esplosiva del testo, uno specchio in cui chi legge può riflettersi e meditare sulla propria condizione di fragile creatura.

L’altra importante analogia con  Il Signore delle Mosche – aspetto che tra l’altro denuncia la scottante impalcatura sociologica del testo – è la totale assenza degli adulti. Tra le strade della cittadina di Taering i ragazzi si scoprono fondamentalmente soli. I genitori rimangono sullo sfondo per tutta la narrazione, più simili a spettri che a reali esseri umani. E comunque, anche nei rari momenti in cui sono costretti a intervenire, si dimostrano più fragili e meschini dei loro stessi figli. L’impossibilità di un’educazione – tema decisivo e attuale – si sposa con l’inadeguatezza di una generazione che, a quanto pare, non ha mai avuto il coraggio di fare i conti con se stessa e i propri desideri. Gli adulti sono quindi strutturalmente incapaci di aiutare gli scolari che, soli contro le provocazioni di Pierre Anthon, si trovano a dover rispondere con le poche forze a disposizione a un interrogativo soverchiante, decisamente fuori dalla loro portata. La conseguenza è inevitabile: dall’egoismo si passa alla violenza e da essa si giunge addirittura all’omicidio.

La storia narra quindi di come anche un affascinante ideale generato da nobili intenti possa trasformarsi, tra le mani degli uomini, in una terribile ideologia a cui all’umano è tolta ogni dignità. L’ampio respiro che accompagna un serio tentativo di rispondere ai continui richiami del giovane dissidente si tramuta in un venticello che, lungi da allietare la quotidianità, la impasta di un fetido miasma, lo stesso fastidioso odore che promana dalla “catasta di significato” approntata dai ragazzi. Il guazzabuglio di cianfrusaglie che i giovani decidono di depositare in un magazzino isolato, nel corso della trama si converte in un totem diabolico quando, su scelta unanime del gruppo, ogni scolaro si trova a dover rinunciare davvero alle cose più preziose che possiede. A banali oggetti come biciclette e pettini seguono infatti richieste sempre più pericolose e compromettenti tra cui, solo per fare qualche esempio, la bara di un infante morto da pochi giorni, i fluidi corporei di una ragazza che ha dovuto rinunciare alla propria virtù e la sanguinante testa di un cane randagio.

L’ossessione per un senso che continua a sfuggire ha trasformato una manciata di tredicenni in improvvisati sacerdoti di un culto mefistofelico che, lungi da allontanare l’ombra del nulla, acuisce ancora di più quel senso di vuoto che si fa largo nella loro anima. Nel macabro gioco alla vendetta, la classe svela al lettore soprattutto una natura fragile, bene esemplificata quando al capoclasse, spavaldo e risoluto chitarrista, viene chiesto di rinunciare all’indice della mano destra. Le scene isteriche che accompagnano la decisione del gruppo, i pianti e i lamenti di un essere piccolo e impaurito aprono il sipario sullo spirito devastato del mondo contemporaneo. Perso di vista l’iniziale obiettivo, tra i ragazzi si innesca una spirale nichilista e autodistruttrice che culmina in una rissa collettiva che, tra denti rotti e ossa slogate, anticipa di poco il drammatico finale.

Ma neanche il sangue versato da un innocente – una sorta di ridicola vendetta dell’ilota – lava via dai cuori dei protagonisti la sensazione di una sconfitta inevitabile. Indipendentemente da quello che è accaduto e dal giudizio meschino e contraddittorio maturato dal mondo adulto sul loro operato, alla fine del romanzo nessuno sembra in grado di opporsi all’urlo disperato di Pierre Anthon. Forse ha ragione lui, forse davvero in questa vita non c’è nulla per cui valga la pena vivere.

Dopo otto anni dai fatti narrati, una rassegnata Agnes si trova a osservare una scatola di fiammiferi contenente i resti inceneriti della catasta, quella speranza di felicità che adesso, ormai adulta, si rivela più effimera di un castello di carte. Non le resta che un’ultima e amara contestazione, un giudizio sulla sua stessa esistenza: «Io so che con il significato non si scherza».

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JANNE TELLER, Niente, Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 119.