Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo “Legalizzazione dell’aborto e soggettivismo”, tratto dal periodico cattolico Instaurare omnia in Christo, anno XXXVII, n. 3, settembre-dicembre 2008
di Giovanni Turco
[…] L’avalutatività della legge come via alla legalizzazione dell’aborto.
1.1. Il processo che ha condotto alla legalizzazione dell’aborto in Italia – oggettivamente ed al di là di ogni considerazione delle intenzioni dei suoi estensori – ha avuto, dal punto di vista normativo nella sentenza della Corte Costituzionale n. 27/75 una tappa iniziale di imprescindibile rilievo (almeno sotto il profilo della prossimità delle tappe giuridiche). Precedentemente ad essa, il Codice penale (titolo X, libro II) sanzionava penalmente la pratica abortiva (art. 546 c. p.), considerandola come reato, e traendo da ciò conseguenze sotto il profilo della previsione della pena. La Sentenza 27/75 della Corte Costituzionale – che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c. p. – mentre da una parte riconosce “fondamento costituzionale” alla “tutela del concepito” (con riferimento all’art. 2 della Costituzione italiana), dall’altra afferma che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”. Data tale premessa la Corte ritiene di potere affermare che l’aborto può essere consentito allorquando la gravidanza “implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato […] e non altrimenti evitabile, per la salute della donna”. In realtà, come appare, anche solo ad una prima considerazione, la Sentenza oscilla (contraddittoriamente) tra i due corni di una irriducibile alternativa concettuale, e presuppone una premessa invocata ma non dimostrata, dal punto di vista teoretico. La Sentenza, cioè, da un lato riconosce che fra i “diritti inviolabili dell’uomo” (di cui all’art. 2 della Costituzione) “non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”, e dall’altro lato (dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c. p.) prevede “la liceità dell’aborto”, sia pure “ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla”. Non è, d’altra parte, senza significato che la Corte non faccia esplicitamente riferimento al diritto alla vita (ovvero al diritto a nascere) del concepito, riguardo al quale si fa genericamente cenno ai “diritti inviolabili”, senza tuttavia andare al di là di una segnalazione, circoscritta dalle sue “particolari caratteristiche” della – non meglio precisata – “situazione giuridica del concepito”. È stato osservato, inoltre, che “in tale sentenza, la Corte se, da un lato, ha ammesso che in detto art. 2 Cost. debba trovare fondamento la tutela del concepito, ha, per contro, negato di poter arrivare all’equiparazione piena di esso concepito col nato vivente. Da ciò è stata tratta la conseguenza che, in caso di conflitto tra opposti interessi e beni giuridicamente protetti, come si ha nei casi di pericolo anche “non attuale” per la salute della gestante, debba prevalere il diritto di chi già vive […]. Dovrebbe indurre seriamente a riflettere il fatto che l’alto collegio, cui compete l’ufficio di assicurare l’interpretazione esatta della carta costituzionale, non abbia ritenuto di trarre né dall’enunciato generico dell’art. 2 né da alcuna altra statuizione costituzionale ragioni adeguate ad avvalorare uno dei precetti fondamentali dell’etica cristiana e pure delle concezioni giuridiche tradizionali. È da aggiungere che anche in altri Paesi occidentali, dove sono in vigore testi costituzionali simili al nostro, per lo più, sono state seguite interpretazioni dei diritti fondamentali per cui esse sono intese come garanzie poste a favore dei viventi già nati e non anche del concepito nascituro. Da quei testi, quindi, sono stati desunti responsi di solito conformi alle tesi filoabortiste”.
Quanto al presupposto concettuale che pare di potere rilevare nella Sentenza in oggetto – implicito ed indiscusso, ma non per questo meno rilevante – occorre riflettere sul significato dell’essere persona che il testo sottende. Distinguendo tra la madre, in quanto già persona, ed il concepito, come tale ritenuto non ancora persona, la Sentenza assume senza renderne ragione una concezione fenomenista della persona. La persona, cioè, sarebbe tale in virtù del suo apparire, con la nascita, e non del suo essere con il concepimento. La persona sarebbe tale in virtù dei suoi atti, empiricamente riscontrati, e non in quanto la sua realtà è essenzialmente (ovvero per sé, ed indipendentemente da ogni opinione altrui) capace di determinati atti (quelli che hanno la loro radice nella razionalità). La persona, così, si identificherebbe con la sua eterorappresentazione e con la sua automanifestazione, equivalendo al fenomeno di se medesima. La Sentenza appare gravata, perciò, di una duplice oggettiva aporia, che non è arduo far emergere. […] Ora, in primo luogo è da osservare che la Corte fa propria la tesi della separabilità tra uomo e persona, giacché pur non negando l’umanità del concepito gli si nega la personalità. Sotto il profilo concettuale, quindi, si presuppone – senza argomenti – la negazione del fatto che tutti gli uomini siano, in quanto tali, persone (ovvero soggetti reali di natura razionale). Mentre sulla medesima linea si apre la possibilità di concludere che vi siano uomini che non sono persona, e persone (intese come soggetti di diritti) che non sono esseri umani. Donde la negazione – senza prove – tanto della personalità dei soggetti di natura umana, quanto dello stesso fondamento ontologico della persona. D’altra parte, adottando, aprioristicamente, una tale visione della persona, la Sentenza finisce oggettivamente per incorrere nell’aporia propria di ogni forma di empirismo fenomenistico, giacché in tal caso il mero essere percepita come tale della persona (della sua presenza) risulta il presupposto dei suoi diritti (con l’elusione della questione sul suo essere). Diversamente, però, come non obiettare che è l’essere il fondamento dell’apparire, e non viceversa: nulla può essere percepito se non è (e non lo è in quanto persona). La persona non potrebbe agire come tale (o come tale avere diritti), se essa tale non fosse per se stessa: ciò che ne decide l’identità ontologica – ovvero il suo essere persona – si dissolverebbe altrimenti al cessare (attuale) della percezione dei suoi atti. La mancanza del riconoscimento altrui lascerebbe la persona come tale nel non essere, e quindi nell’inesistenza dei diritti. […]
1.2. La legge 194/78 fu approvata con i voti del Partito Comunista, del Partito Socialista, del Partito Socialdemocratico, degli Indipendenti di Sinistra, del Partito Liberale e del Partito Repubblicano. Dichiararono voto contrario, anche se per diversi motivi, la Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale Italiano, e con opposte motivazioni i Radicali ed i Demoproletari. Il Senato approvò il progetto di legge il 18 maggio 1978, con uno scarto tra maggioranza e minoranza di pochissimi voti. La legge venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio 1978 con la firma di cinque ministri democristiani: Giulio Andreotti (presidente del Consiglio), Tina Anselmi, Francesco Bonifacio, Tommaso Morlino, Filippo Maria Pandolfi, nonché del Presidente della Repubblica (anch’egli democristiano) Giovanni Leone. I ministri avrebbero potuto dimettersi, piuttosto che apporre la propria firma (condividendone, in qualche modo, specificamente e direttamente la responsabilità). Il Presidente della Repubblica avrebbe potuto rimandare la legge alle Camere, oppure avrebbe potuto dimettersi per non avere la responsabilità di suggellare con la propria firma la legge (come invece avrebbe fatto in un caso analogo il re Baldovino del Belgio). Tutti, invece, firmarono nel giro di soli quattro giorni. Vi è da aggiungere, ancora, che il governo a guida democristiana, di cui era Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, diede mandato alla Avvocatura dello Stato di difendere la costituzionalità della legge 194/78 davanti alla Corte Costituzionale (5 dicembre 1979), con un atto precisamente volontario e non dovuto.
In una visione d’insieme, proponendo un essenziale confronto tra il percorso che ha portato alla legalizzazione del divorzio e quello che ha condotto alla legalizzazione dell’aborto nell’ordinamento italiano, il giurista Pietro Giuseppe Grasso ha rilevato “nelle due vicende una ripetizione per molti aspetti quasi pedissequa, nei singoli momenti ed episodi delle cronache parlamentari e costituzionali, tanto da far pensare ad un disegno comune. Nel 1970 come nel 1978, da un lato, si arrivò alla approvazione di una proposta di legge innovatrice per opera di un fronte laicista molto risoluto, costituito dall’accordo temporaneo dei comunisti coi partiti cosiddetti minori, associati stabili dei Governi di coalizione ed alleati “omogenei” della Democrazia cristiana. Di contro, nelle sedi istituzionali, il dissenso dei democristiani da quelle istanze laiciste fu sempre espresso in misura e maniera contenuta e circospetta, senza ostruzionismo parlamentare, né minaccia di crisi ministeriale o di scioglimento anticipato delle camere, né veto sospensivo del Presidente della Repubblica. Per tutte due le leggi, di divorzio (n. 898 del 1970) e di aborto (n. 194 del 1978), dopo che furono entrate in vigore, il Presidente del Consiglio dei Ministri, fino ad allora democristiano, per propria scelta discrezionale, volle manifestare lealtà assoluta verso il sistema, col costituirsi davanti alla Corte costituzionale, a difenderne la legittimità ed a resistere alle eccezioni d’incostituzionalità sollevate contro di esse, per istanza di alcuni cattolici”.
1.3. La legge 194/78 reca già nel titolo la pretesa di coniugare avalutativamente legalizzazione dell’aborto e tutela della maternità. Essa, infatti si presenta come recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza”. L’accostamento delle due espressioni già di per sé presenta una sorta di paradosso logico-semantico – nonché giuridico-concettuale – giacché l’uno dei due poli è tale da escludere l’altro, non potendosi dare tutela della maternità dove la vita del concepito non è tutelata. Senza il riconoscimento del valore della vita del concepito, la maternità stessa perde significato proprio. Non è senza rilievo, a riprova della pretesa avalutatività della legge in questione, che essa faccia riferimento alla pratica dell’aborto come alla “interruzione della gravidanza”. Non si tratta di una irrilevante variazione lessicale, ma dell’uso di una espressione (“interruzione della gravidanza”) che per se stessa appare assiologicamente neutrale. In questo caso, infatti, l’atto autorizzato dalla legge viene definito non in rapporto al termine dell’intervento stesso, il concepito, ma in rapporto al suo richiedente, la gestante. Esso, cioè, viene identificato in rapporto ad un soggetto (la donna in quanto “gravida”) che non costituisce, se non indirettamente, il termine dell’intervento abortivo, rivolto per se stesso alla soppressione del concepito. Si pone, così, in non cale l’autentico destinatario dell’atto col quale si interrompe il processo vitale della gravidanza, ovvero il vivente nel grembo materno. L’espressione in discorso, sfuggendo alla identificazione sostanziale della finalità dell’atto (abortivo), è indicativa di uno slittamento anassiologico prima ancora che semantico. Segnala il modo dell’atto, tacendo sul suo fine. Rinvia ad una tecnica (come tale teleologicamente neutra) tesa ad interrompere un processo in atto, eludendo la considerazione della realtà dell’autentico soggetto di tale processo, ovvero del concepito, e presupponendo – senza argomenti – la disponibilità della sua vita da parte della gestante. […]
Gli articoli 4 e 5 consentono nei primi 90 giorni di gestazione l’aborto sulla base di indicazioni molto ampie: condizioni economiche, sociali, familiari della gestante, circostanze del concepimento, previsione di anomalie del nascituro, considerate come “serio pericolo” per la salute fisica o psichica della donna. Non è prevista possibilità di accertamento, riscontro o verifica di quanto dichiarato da parte di colei che manifesta la volontà di abortire, né da parte del medico di fiducia, né da parte della struttura socio-sanitaria presso cui è rappresentata tale volontà. In ogni caso, secondo tale fattispecie, con un certificato di gravidanza e la richiesta di aborto, trascorsi 7 giorni dalla richiesta stessa, per la gestante si configura un diritto ad ottenere l’intervento abortivo, in una struttura pubblica. Parimenti, la medesima legge (art. 6 e 7) consente l’aborto tra il quarto mese di gravidanza e la vitabilità (o viabilità) del feto sulla base di motivazioni di carattere “terapeutico” (“grave pericolo” per la vita o la salute fisica e psichica della donna) ed “eugenetici” (timori di malformazioni del nascituro). Tali indicazioni – come risulta evidente – appaiono generiche e non sottoposte alla necessità di parametrazione obiettiva. Non può sfuggire, altresì, il fatto che l’indicazione della vitabilità (o viabilità) del feto, ovvero la sua possibilità di vivere al di fuori del grembo materno, non costituisce per se stessa una indicazione obiettiva, ma piuttosto una condizione dipendente, estrinsecamente, dalle apparecchiature tecnicamente in grado di consentire e di anticipare tale possibilità per il concepito [oggi alla XXIII settimana, ndR].
La 194/78 pretende di sottrarre avalutativamente alla responsabilità del padre qualsiasi possibilità di incidere sulla decisione di richiedere e sottoporsi all’intervento abortivo da parte della madre del concepito. Non si rileva, cioè, la sussistenza di alcun diritto dell’altro genitore relativamente al concepito, rendendo unica arbitra della decisione abortiva la gestante, e rifiutando così di riconoscere la realtà del legame – innegabilmente obiettivo – tra concepimento e paternità. Analogamente, la legge prevede per la minorenne il diritto ad abortire, anche contro la volontà dei genitori: il giudice tutelare può appunto autorizzare l’intervento anche contro il parere dei genitori o del tutore, ed addirittura il medico può procedere all’intervento anche in assenza della stessa autorizzazione del giudice tutelare, se ritiene esservi un “grave pericolo per la salute della minorenne” (art. 12). Anche in questo caso, la legge pare risolvere ogni questione di responsabilità in termini di riduzione – presuntamente avalutativa – dell’intervento alla decisione (della gestante) ed alla sua esecuzione (da parte del medico). Non sfugge, d’altra parte, che, il pericolo “per la salute” verrebbe riscontrato in modo del tutto autoreferenziale dal medico (che accerti a suo giudizio l’urgenza dell’intervento), e che il pericolo in discorso non si intende riferito alla vita, ma genericamente alla salute (che se intesa come autopercezione dello “star bene” può essere ritenuta minacciata da qualsiasi evento o fattore).
Ora, al di là della pretesa avalutatività, la legge opta per una inequivocabile concezione di libertà soggettiva. Come è stato rilevato, infatti, la “normativa vigente statuisce: a. l’assoluta prevalenza della facoltà di autodeterminazione della donna sul bene della vita e la piena libertà di abortire entro i primi novanta giorni dall’inizio della gravidanza […]; b. la possibilità di abortire in ogni caso, anche dopo lo spirare del novantesimo giorno, qualora ricorra una indicazione “medica”, individuata con estrema larghezza, avente cioè riferimento tanto alla salute fisica che alla salute psichica della donna ed espressamente ricomprensiva della cosiddetta indicazione “eugenetica”. La legge 194/78, quindi, non solo legalizza l’aborto, ovvero lo trasforma da delitto in diritto, ma anzi, lo rende un diritto soggettivo, azionabile (a condizioni molto ampie) dalla gestante. Tale legge – è stato osservato – “legalizza l’aborto, anzi lo liberalizza, perché di vera e propria liberalizzazione si tratta, potendo ogni donna praticamente abortire a richiesta nei primi tre mesi di gravidanza”. Talché, visti i tenui vincoli rappresentati dalle indicazioni presenti nella legge, non è arduo potere ricomprendere, come possibile “serio [o grave] pericolo per la salute fisica o psichica”, qualunque condizione che costituisca ostacolo o detrimento all’effettività dei propri progetti o desideri su se stesso (o addirittura di se stesso), quali che siano. […] la 194/78 “«legalizza» l’aborto volontario in misura più ampia di qualsivoglia altra legislazione dell’Europa Occidentale”. Infatti, nella diversa opzione tra adozione del sistema dei termini temporali e quello delle indicazioni legali, la legislazione italiana non solo ha adottato quello delle indicazioni temporali, che “legalizza” l’aborto nell’arco di un determinato periodo della gestazione, al di là di ogni obiettiva valutazione, rendendolo così un diritto soggettivo della gestante, ma anche dilata i termini durante i quali è data facoltà di abortire più di ogni altra legislazione europea. […]
L’applicazione abortista della legge 194 è coerente con la legge stessa. Non si tratta di una parziale (o spuria) applicazione, ma di una effettiva applicazione della norma, che, d’altra parte, senza bisogno di particolare sforzo di esegesi – al di là della sua intestazione – evidenzia la sua reale finalità nell’introduzione dell’aborto procurato tra le pratiche non solo consentite, ma anzi, effettivamente previste a carico dello Stato (anche con preciso obbligo – art. 9 – a carico delle strutture pubbliche).
1.4. Come è stato posto in rilievo, nella sua inconfondibile fisionomia “la legge 194 è una classica “norma procedurale” che evita accuratamente di esprimere un giudizio di merito sull’atto abortivo, e dunque di schierarsi almeno in via preferenziale per la nascita. Ciò che conta è agire dentro la procedura, con il risultato paradossale che lo stesso atto medico – finalizzato a uccidere il concepito – è buono e giusto se fatto in un ospedale pubblico, e brutto e cattivo, dunque da sanzionare, se operato in una clinica privata”.
[…] In altri termini, come è stato osservato, “dire 194 significa dire autodeterminazione della donna. E una volta accettata l’idea che la vita del figlio dipende dal “potere” della donna, tutto il resto è solo contorno. Si può rendere questa scelta più o meno facile, più o meno banale, più o meno complessa, ma resta la questione di fondo: e cioè che l’essere umano non ancora nato, a norma di legge 194, è consegnato per 3 mesi – ma anche per 6 mesi se è malato – alla decisione arbitraria di coloro che sono già nati”. Nell’assunto, cioè, della legge che in Italia ha legalizzato l’aborto “domina la logica della scelta per la scelta, cioè l’idea che il valore tutelato è la libertà di scelta della donna”, rispetto a cui il bene della vita del concepito non ha rilievo se non come elemento accidentale (e comunque non apprezzato per se stesso). In tal caso si intende per scelta l’opzione senza argomenti, ovvero che si pone prescindendo da ogni argomento, o meglio, la cui realtà non dipende dal valore delle ragioni che la fondano. Di modo che tale opzione esprime una forma di potere tale da essere criterio a se medesima (ovvero dal non avere alcun criterio). […] Mentre [la legge 194] detta criteri procedurali sull’interruzione volontaria della gravidanza e sui compiti dei consultori statali, non dichiara qual è il bene che intende tutelare, e se certi atti (tesi a realizzare l’aborto procurato) previsti come possibili (anzi, il cui compimento è posto a carico dello Stato) siano da considerarsi come un bene da salvaguardare, o come, eventualmente, un male da tollerare. La questione appare rimossa, ma ovviamente, proprio per questo non risolta. Anzi, essa propriamente risulta elusa[…]. In quanto presupposta come parimenti avalutativa la scelta di continuare o di interrompere la gravidanza, ovvero di assicurare la prosecuzione dello sviluppo del concepito fino alla conclusione naturale, o di farne cessare la vita, il legislatore pretende di escludere dalla propria competenza il giudizio, ma al tempo stesso si impegna ad assicurare il compimento legale ed effettuale di una delle due alternative (quella di sopprimere la vita del concepito), ponendo alle dipendenze della volontà della gestante – supposta, così, come legge a se stessa – le strutture pubbliche. Tuttavia, pur non dichiarando giudizi di valore sull’atto – l’aborto – di cui comunque si assicura la permissione e si garantisce l’esecuzione, ponendone gli oneri a carico della collettività, la legge 194/78 non rinuncia – contraddittoriamente – a prevedere pene per chi trasgredisce le procedure stabilite, arrivando a punire sia “chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza” (art. 17), sia “chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna”(art. 18), sia, ancora, “chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8” (art. 19). […]
Non si può legiferare senza riconoscere qualcosa come reale, senza considerare (anche solo implicitamente) un comportamento come un bene o come un male, come giuridico o come antigiuridico. Anche la negazione di un giudizio di valore è un giudizio di valore. Anche l’agnosticismo presuppone la verità di se medesimo. Anche il rifiuto di riconoscere qualcosa come un bene, presuppone che sia un bene il mancato riconoscimento. Paradossalmente ma inevitabilmente, l’avalutatività dell’opinione e la sua equivalenza rispetto ad ogni altra diversa o opposta opinione, presuppone (contraddittoriamente) la validità di tale posizione. Analogamente (ancorché contraddittoriamente) presupporre come principio la libertà come (pura) autodeterminazione – la libertà retta dal solo criterio della libertà, cioè da nessun criterio – significa assumerlo come vero ed al tempo stesso negare che la verità abbia alcun rilievo nell’esercizio della libertà, rendendosi quindi impossibile (se non in termini puramente assertori) la possibilità di argomentarne il valore. […] Una legge che si presenti come puramente procedurale, presuppone – posta l’avalutatività come criterio (e quindi l’agnosticismo sull’ordine dei fini) – in luogo di un giudizio razionalmente fondato, l’assunzione di una opzione, più o meno implicita, senza prove, che come tale si sottrae alla discussione. Di modo che, al necessario fondamento dell’ordine delle relazioni umane secondo la giusta misura – ovvero la giustizia, prudenzialmente considerata – come tale fondata sulla conoscenza della natura umana e delle sue finalità proprie, subentra il potere di una opzione che si impone, e che pretende di sottomettere la realtà stessa (nel caso in questione la realtà del concepito). Non va trascurato, inoltre, che il carattere esclusivamente procedurale delle norme in questione conduce ad una ineliminabile contraddizione interna tra principio di autodeterminazione e determinazione legislativa. Infatti, da una parte si asserisce il diritto all’aborto e dall’altra si pongono dei vincoli procedurali alla sua esecuzione legale. Analogamente, da un lato l’aborto è trattato come un diritto soggettivo e dall’altro la donna (pur riconosciuta titolare di tale “diritto”) che non rispetta le procedure fissate dalla legge è essa stessa punibile, con una semplice ammenda o con la reclusione sino a sei mesi (art. 19).
Così, la legalizzazione dell’aborto, in quanto fa proprio il cosiddetto principio di autodeterminazione (ovvero la libertà negativa), genera una radicale contraddizione nel seno stesso dell’ordinamento giuridico, il quale a volerlo accettare coerentemente, dovrebbe semplicemente riconoscere con ciò l’estinzione di ogni legge (e di ogni possibilità di porre limiti all’autodeterminazione stessa di qualsiasi soggetto). […]
Insomma, l’ordinamento puramente procedurale (e quindi avalutativo) è in quanto tale intrinsecamente contraddittorio (e perciò tale da negare se medesimo). Se l’ordinamento fosse coerente con l’avalutatività della scelta individuale o collettiva (anche se – impossibilmente – pensata come del tutto privata), non potrebbe punire o vietare, permettere o comandare alcunché. Del resto, anche la norma meramente procedurale presuppone la bontà della procedura e la bontà della condotta conforme alla procedura. La pretesa di sottrarre la scelta individuale, ed a maggior ragione la scelta relativa alla responsabilità della gestante, nei confronti del soggetto umano che vive già nel suo grembo, conduce, se coerentemente applicata, alla estinzione di ogni e qualsiasi ordinamento. Ove non rimarrebbe altro che la volontà pensata come potere, ovvero l’effettualità del potere ed il conseguente prevalere del più forte. Analogamente, se si riflette sul significato dell’espressione “procreazione cosciente e responsabile” (art. 1), come diritto garantito dallo Stato (anzi, primo tra i diritti soggettivi dichiarati come garantiti secondo tale legge), risulta che la consapevolezza e la responsabilità, come ivi sono intese, non hanno come fondamento alcun principio. Di esso non vi è alcuna menzione in nessuno degli articoli che compongono il testo. Nulla, cioè, sostanzia obiettivamente la consapevolezza e la responsabilità indicate come qualificanti della procreazione, nulla di cui avere consapevolezza o a cui rispondere. Parimenti a nulla si fa riferimento che trascenda e, quindi, che sia in grado di informare il giudizio sulla procreazione stessa; di nessun criterio razionalmente perspicuo vi è traccia, che, come tale, sia presente al soggetto (chiamato a prendere la decisione) di cui, appunto, si debba dare la coscienza e di fronte al quale ci si debba ritenere responsabili. Talché occorre arguire che la coscienza e la responsabilità di cui fa menzione la legge in questione sono tali solo in quanto riferiti al soggetto, il quale non riconosce alcun criterio che non sia il proprio giudizio. In tal senso la coscienza e la responsabilità risultano inevitabilmente autoreferenziali, consumandosi nihilisticamente nell’atto (e nel momento) stesso in cui si pongono. È chiaro, infatti, che la coscienza (e la responsabilità) che non ha altra misura che se stessa non ha alcuna misura. […]
Sotto il medesimo orizzonte, l’obiezione di coscienza (prevista per il “personale medico ed esercente le attività ausiliarie”) di cui alla legge 194/78 (art. 9) si manifesta inequivocabilmente da una parte come la conferma della pretesa avalutatività che la caratterizza e dall’altra come la riprova del suo esito nihilistico. Anzitutto vi si rivela il paradosso di una legge, che pur affermandosi formalmente tale, secondo l’ordinamento italiano (quindi come norma cui è dovuta obbedienza) reca in se stessa la possibilità di non essere obbedita. Quanto alla sua azionabilità, non è senza rilievo evidenziare che tale possibilità di obiettare soggiace ad una triplice limitazione: a) “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8” (art. 9), con tutte le prevedibili ricadute, sotto il profilo organizzativo e professionale, nei confronti del medico e del personale obiettore; b) la legge prevede, al di là della (quindi anche contro la) dichiarazione (e la volontà) del medico la decadenza d’ufficio – ovvero la revoca “con effetto immediato” (art. 9) – dal riconoscimento dell’obiezione effettuata, nel caso in cui il medico obiettore “prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza” (art. 9); c) il medico ed il personale sanitario, pur se formalmente obiettori, possono essere obbligati a prestare la propria opera ai fini dell’esecuzione dell’intervento abortivo “quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” (art. 9). Non è senza rilievo, inoltre, a riprova della posizione solo in apparenza avalutativa assunta dalla legge nei confronti del medico e del personale obiettore, che la 194/78 preveda espressamente pene più onerose per il medico (o personale) obiettore (rispetto evidentemente a soggetti non obiettori) nel caso di infrazione delle procedure previste dalla norma. L’art. 20, infatti, dispone che “le pene previste dagli articoli 18 e 19 per chi procura l’interruzione della gravidanza sono aumentate quando il reato è commesso da chi ha sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’articolo 9”.
Soprattutto, occorre evidenziare che l’obiezione di cui alla legge 194/78 non è propriamente obiezione della coscienza, ma essa è mera obiezione di coscienza. La autentica libertà della coscienza, che è tale in quanto si afferma in adesione ad un valore e ad una legge superiore alla coscienza stessa, la cui fedeltà richiede l’obiezione – ovvero la mancata obbedienza ed esecuzione – nei confronti di una norma di diritto positivo (come nel caso dell’Antigone di Sofocle o dei martiri cristiani). Il valore della coerenza che essa afferma dipende dal valore della giustizia, in quanto tale superiore ad ogni umano imperio. Essa, quindi, trova il suo fondamento nel bene (quindi nella verità), in virtù del quale l’obiezione si qualifica come atto di superiore ed imprescrittibile obbedienza. Diversamente, la (moderna ed individualistica) libertà di coscienza corrisponde ad una pura e semplice manifestazione della volontà, che si pone come pura opzione, fino ad omologa opzione contraria, indipendentemente dal valore degli argomenti che la sorreggono. Si tratta, in altri termini – così come è presente nella 194/78 – di una facoltà di opzione, che si riferisce semplicemente a se medesima, ovvero non richiede alcun fondamento obiettivo al di là dell’atto che la pone. […]
Legalizzazione dell’aborto e abortismo come ideologia.
2.1. Lo svolgimento delle campagne propagandistiche che hanno condotto alla legalizzazione dell’aborto, attraverso una accorta ed insistente pressione lasciano trasparire con inequivocabile simmetria la loro non occasionale peculiarità. Tali campagne, a ben vedere, non hanno cercato una soluzione empirica ad un problema generalmente avvertito, ma piuttosto hanno “creato” il problema, mirando nel contempo ad un duplice effetto, ovvero sia ad ottenere un mutamento generalizzato nel giudizio sull’atto abortivo (come decisione da lasciare all’arbitrio della gestante), sia al cambiamento del quadro normativo, attraverso la legalizzazione della pratica dell’aborto. Non appare irrilevante, al riguardo segnalare la singolare convergenza tra lo svolgimento della campagna tesa alla legalizzazione dell’aborto negli Stati Uniti (o almeno di un importante segmento di essa) e le modalità rilevate relativamente alle analoghe campagne di stampa in Italia.
Una documentazione, significativamente rivelatrice dell’emblematica simmetria dello svolgimento di entrambe, almeno in alcuni tratti salienti, è possibile ricavare dalla testimonianza di Bernard Nathanson, resa a Dublino in occasione del referendum del 7 settembre 1983, indetto al fine di sancire la tutela costituzionale del concepito nell’ordinamento irlandese. Nathanson è stato esponente dell’abortismo americano negli anni ’70 del Novecento – in quanto è stato tra i fondatori della NARAL (National association for repeal of abortion law) e direttore di una delle più grandi cliniche per aborti degli Stati Uniti – e medico abortista egli stesso (riconosciutosi responsabile di circa 75.000 aborti). Quanto dichiarato da Nathanson contribuisce significativamente a gettare luce non solo sullo sviluppo di una strategia, ma soprattutto sul carattere ideologico dell’abortismo in quanto tale. È interessante confrontare la strategia descritta da Nathanson con una sintetica ricostruzione delle fasi più acute della campagna che preparò la legalizzazione dell’aborto in Italia. Per rappresentare esemplarmente la dinamica dell’affermarsi dell’abortismo può essere utile riferirsi (esemplarmente per quanto riguarda l’Italia) al cosiddetto “caso Seveso”.
2.2. […] Si tratta […]di tesi che pretendono di mostrare (piuttosto che di dimostrare), che si affermano in modo autopostulatorio (piuttosto che offrirsi alla verifica), che pretendono di predeterminare la discussione (piuttosto che essere suscettibili di discussione). Esse, più che mirare alla convinzione – per la quale occorrono comunque argomenti tali da offrirsi alla comunicazione razionale interpersonale – tendono alla persuasione (non raramente su base anzitutto emotiva). Ove, in altri termini, più che il confronto con la realtà (che come tale è misura della verità di qualsivoglia argomento), si mira a modificare una realtà, sostituendo alla vincolante considerazione della verità la corroborante affermazione della efficacia. Tale è precisamente il profilo dell’atteggiamento ideologico, in se stesso inconfondibilmente distinto da quello autenticamente scientifico e filosofico. Talché individuare nell’abortismo, come tale, una ideologia significa, essenzialmente, coglierne il nucleo più intimo e caratterizzante. Come l’ideologia esso costituisce (analogamente ad ogni altra attitudine ideologica) una forma di filodossia cratologica, ovvero l’assunzione di una opinione (doxa) come presupposto indiscusso in funzione di un potere (cratos), tanto nell’ordine della conservazione dell’esistente, quanto del suo mutamento. Come ogni ideologia, l’abortismo si caratterizza per l’assunzione di un punto di vista particolare – quale forma ipotetica ed operativa – tale da essere misura di se stesso, escludendo in tal modo il confronto con la realtà, e quindi qualsiasi ricerca del fondamento. Talché l’ideologia è, in essenza, pensiero strumentale, che sorge dalla prassi e si dispone in funzione della prassi, ove la volontà, come desiderio che pretende l’effettualità, si sovraordina all’intelligenza (ed alla responsabilità della verità del fine subentra la ricerca del dominio dei mezzi).
[…] Tale assunzione teorica presuppone, volontaristicamente, la pura autodeterminazione come criterio della libertà. Essa presenta la legalizzazione (e coerentemente anche la liberalizzazione) dell’aborto come conquista di progresso, ovvero come diritto soggettivo, assumendo la libertà come liberazione (ovvero come assenza – e progressiva rescissione – di vincoli per la volontà del soggetto). Tale accezione della libertà costituisce uno dei tratti tipici della modernità (intesa, questa, in senso assiologico e non in senso cronologico). In sostanza, l’abortismo ha le sue premesse nella libertà intesa come libertà negativa, ovvero nella libertà che ha come limite la libertà stessa, ovvero nessun limite. Più specificamente la libertà vi è intesa come pura autodeterminazione individuale (indipendentemente da ogni argomento). Essa si attua come proiezione cratologica dell’io, che nell’immanenza di se medesimo pretende potere per desiderio. A tale radicale autodeterminazione – in cui il soggetto stesso consisterebbe, assumendo di dare a se stesso con i termini dell’agire anche la sua stessa essenza – pretende sia assicurata l’efficacia dell’esecuzione. Sicché, sotto tale orizzonte – nell’effettualità del volere ridotto alla puntualità dell’atto – all’arbitrio dovrà corrispondere il diritto (come corrispettivo di un potere in se stesso incommensurabile), ed a tale diritto (inteso come mera garanzia dell’efficacia della pretesa soggettivistica) dovrà corrispondere l’obbligo da parte dello Stato di predisporre quanto occorre per assicurare il compimento della scelta adottata.
Così, l’abortismo come ideologia ha il suo fulcro nella libertà come liberazione, ove – coerentemente seppure assurdamente – il soggetto afferma la liberazione dal rapporto oggettivo tra causa ed effetto, ovvero (nel caso specifico) tra gestazione e maternità, tra avvenimento del concepimento e realtà del concepito. In altri termini, pretende la liberazione dalla realtà, e quindi dalla responsabilità (che – al di là di ogni preferenza – l’esistenza del concepito richiede, per la sola ragione di esistere). […] Questa radicale forma di soggettivismo non può non porsi come potere nihilistico, ovvero come individualistica volontà di potenza. Insomma, l’abortismo – come ideologia – comporta la pretesa (che rivendica per sé il potere) di fare che ciò che è stato non sia stato (nel caso di specie l’accendersi di una nuova vita, attraverso la sua riconduzione al nulla). […] Con il conseguente asservimento dell’ordinamento giuridico-politico all’arbitrio individuale (senza altra giustificazione che la propria autoaffermazione), e la parimenti conseguente dissoluzione di ogni ordinamento (ed ancor più di ogni sua logica possibilità). Se tale “logica” viene adottata – come è stato efficacemente evidenziato – “a questo diritto corrisponderebbe fondamentalmente un dovere, quello di eseguire la sentenza di morte”. Talché la presunta (e per sé impossibile) neutralità dello Stato si converte nell’asservimento dello Stato all’onere di soddisfare qualsiasi opzione. Tanto più se si considera il fatto che l’aborto come diritto soggettivo, derivante dalla propria autodeterminazione, è la più radicale opzione che si possa pretendere di rendere efficace, in quanto si sostanzia nella pretesa di disporre, per deliberazione propria, della vita altrui. Oltre la quale (in termini omologhi) si apre, coerentemente, la pretesa di dare efficacia al diritto al suicidio (assistito) ed il diritto a non esistere.
Alle radici del nihilismo dell’autodeterminazione.
3.1. L’abortismo – con la conseguente istanza della legalizzazione (e liberalizzazione) dell’aborto – avendo le sue radici nel soggettivismo dell’autodeterminazione e quindi nella libertà negativa, si colloca emblematicamente al culmine dell’antiontologia della modernità (intesa in senso assiologico e non in senso cronologico). […] Talché, “tutti i diritti dell’uomo che appartengono a questa tradizione non sono che manifestazioni particolari di questa generale pretesa, la pretesa di poter agire nel senso voluto”. Così, nella prospettiva della modernità – che è al tempo stesso atto e progetto di se medesima – l’uomo è ciò che diventa e diventa ciò che fa (e fa di sé). In questa prospettiva il divenire costituisce l’essere, e l’essere appare come risultato (dell’agire) ed in quanto tale ridotto all’apparire di se medesimo. L’uomo, in tal senso, progetta continuamente se stesso, anzi è permanentemente (e sempre provvisoriamente) il progetto di se stesso. In una inevitabile incommensurabilità tra progetti e dei progetti, che si affermerebbero essenzialmente come opzioni senza argomenti (o come mere arbitrarie autoposizioni). Da ciò deriva la negazione della realtà della natura umana (in quanto essenza per la quale ogni uomo è uomo ed ha la sua finalità naturale) e la negazione del dovere di agire conformemente alla propria umanità (in vista del proprio sviluppo perfettivo). Donde, ancora, la negazione di qualunque ordine (morale, giuridico, politico) che non sia puramente convenzionale ed ipotetico. In questa prospettiva attecchisce la pretesa di sostituire alla realtà di sé il desiderio di sé (ed analogamente la pretesa di sostituire la comunicazione con gli altri, la quale presuppone il riconoscimento della comune natura umana, con il rapporto di dominio in funzione del desiderio) [cfr. la teoria c.d. del gender, ndR]. […] È chiaro che da questa visione – di cui la pretesa della legalizzazione dell’aborto ed ancor più dell’eutanasia costituiscono snodi giuridico-politici emblematici – consegue la riduzione (assunta come risultato dell’avalutatività dell’autodeterminazione) del dovere alla scelta, della giustizia alla convenzione, dell’autorità al potere. In questa visuale, la scelta, la convenzione, il potere sono suscettibili di assumere i più diversi contenuti e connotati, in quanto si presentano immancabilmente sullo stesso piano di avalutativa autodisposizione, anche nel caso in cui si dovesse tradurre nella autoalienazione o nella autonullificazione.
Lungo tale itinerario, in definitiva, ciò che è desiderato, per il solo fatto di esserlo, rivendica incondizionata liceità ed effettiva attuazione. La scelta del proprio desiderio si traduce – secondo la sua stessa “logica” – nella scelta del dominio, che non riconoscendo come misura che se stesso può spingersi fino alla pretesa di sopprimere l’indesiderato (il caso del concepito, del malato terminale, dell’anziano, o del disabile è paradigmatico, ma neppure esaustivo delle possibilità di applicazione di tale prospettiva). Il desiderio, proprio in quanto tale, pretende così di dar luogo ad un diritto, esso si pone come non limitato e non limitabile se non da se stesso (ovvero si afferma come almeno virtualmente onnipotente), anche se si presenta con un contenuto non poietico ma tanatologico (cioè non mirando alla costruzione ma alla distruzione). D’altra parte, l’estrema possibilità del desiderio è precisamente la morte – altrui o propria – come suprema pretesa di dominio, o di scelta del proprio desiderio (al di là di qualunque riferimento alla ragione come sua misura).
La parabola del nihilismo dell’autodeterminazione si chiude e trova il suo compimento nel paradigma – quasi estrema eterogenesi dei fini – dell’autoaffermazione come autonegazione, nella posizione della relazione come rifiuto dell’altro, nell’autodeterminazione come indeterminazione, nella scelta della libertà come soggezione all’arbitrio. […]
3.2. Dal punto di vista concettuale, […] [la] legalizzazione della pratica dell’aborto appare compiersi sotto il segno dell’idea moderna di sovranità come presupposto dell’ordinamento giuridico-politico, della secolarizzazione del diritto e della dogmatizzazione dell’opzione relativistica. Il principio di sovranità pone come presupposto – inteso propriamente secondo l’accezione di Jean Bodin e di Thomas Hobbes – il potere di colui che non dipende da altri se non dalla propria spada, ovvero come potere superiorem non recognoscens, e pertanto come potere senza limiti, né quanto a compiti, né quanto a tempo. In questa prospettiva la legge non potrà che essere atto del potere sovrano, o analogamente, come per Rousseau, atto della volontà generale. Ove, come è chiaro, il potere sovrano potrà essere quello di un singolo, di un gruppo, di un’assemblea, o di tutto un popolo, senza cessare di essere sovrano, ovvero un potere che non ammette superiori e pertanto non ha alcun criterio se non la propria volontà (e non dispone se non in quanto vuole e può). Un potere siffatto – radicalmente immanente a se stesso, ed in quanto tale sovrano – potrà disporre di qualunque cosa ed in qualunque modo, non avendo altri limiti se non quelli da esso stesso fissati o riconosciuti (e perciò modificabili con analogo atto di volontà). Il potere sovrano, proprio in quanto tale, potrà, coerentemente con i suoi stessi presupposti (non riconoscendo alcun superiore rispetto a se medesimo) disporre anche della vita umana (come, a maggior ragione, di qualunque altro bene) semplicemente in forza dell’atto per il quale ciò è determinato (senza l’onere di alcuna giustificazione che non sia l’adempimento della procedura fissato dal potere stesso e come tale sempre modificabile). In tal caso legalità e legittimità saranno – aprioristicamente – identificati, senza possibilità di ulteriore messa in questione.
Talché, […] si può osservare che la legalizzazione dell’aborto può considerarsi l’atto più rivelativo (ed insieme più compiuto) del moderno principio di sovranità. […] Analogamente, non è arduo rilevare nella legalizzazione dell’aborto l’esito coerente della secolarizzazione del diritto, ovvero della immanentizzazione del diritto ridotto alla legge e di questa ridotta alla norma, nonché della norma stessa ridotta alla disposizione della volontà sovrana. Invero, pensata teoreticamente, la secolarizzazione, come esito coerente del principio di immanenza, conduce – secondo una intuizione rosminiana, ripresa in chiave filosofico-giuridica – alla “umanizzazione di Dio e divinizzazione dell’uomo, che il Rosmini vede come il prodotto più raffinato del soggettivismo razionalistico nel quale si raccolgono”. Ben si intende, quindi, che la secolarizzazione comporta – paradossalmente ma coerentemente – l’assolutizzazione del relativo, e la relativizzazione dell’assoluto, la necessità del contingente, e la contingenza del necessario. In altri termini – secondo una pregnante riflessione di Augusto Del Noce – la secolarizzazione può quintessenziarsi nel “trasferimento all’immanenza del sacro, trasferimento all’immanente che, realizzandosi in forma collettiva, prende la forma di religione secolare”. In tal senso il diritto come tale è ridotto al diritto positivo e questo alla immanenza a se medesimo, ovvero al comando del potere (quale che sia, purché vigente ed efficace), in modo da escludere qualsiasi criterio che lo trascenda e qualsiasi valore che possa costituire criterio di giudizio razionale. In altri termini, la secolarizzazione del diritto riduce il valore al comando (qualunque cosa imponga) ed assolutizza questo come valore (riducendo il valore a fatto ed esaltando il fatto come valore). Di modo che viene annullato (nihilisticamente) qualunque valore del comando medesimo, con la pretesa (ideologica) di identificare potere e libertà.
[…] È chiaro che un diritto positivo secolarizzato non può che pretendere di rendere decidibile e perciò disponibile qualunque cosa (e qualunque bene), al di là della considerazione obiettiva della sua natura e della giustizia come criterio obiettivo, rifiutando conseguentemente qualsiasi limite alla propria autoimmanenza, e quindi al proprio potere. In tal senso, esso non può che pretendere di esercitare un dominio sulla realtà, al di là del riconoscimento (se non per ragioni meramente strumentali) della natura di ciò che esso disciplina. Non può destare meraviglia, quindi, che il diritto positivo secolarizzato – ridotto quindi alla sovranità della legge – pretenda di disporre, con riferimento unicamente alla propria decisione (ed alle procedure da essa poste) della vita del concepito (e perciò di autorizzare l’aborto) alle condizioni da esso stesso fissate, e senza altro riguardo che alle forme di esercizio di tale possibilità da esso stesso volute.
Infine, si può cogliere nelle tesi che assumono come diritto (soggettivo) la pratica dell’aborto uno dei capitoli più emblematici di quell’attitudine intellettuale che è stata definita la “dittatura del relativismo”, ovvero della opzione relativistica come posizione sottratta alla discussione, e ritenuta contestualmente premessa ineliminabile di qualsivoglia discussione e normazione. Ciò, in quanto la legalizzazione dell’aborto, emblematicamente, introduce nell’ordinamento il potere (reso azionabile dalla norma) dell’opinione autoreferenziale come ragione sufficiente dell’atto (sia pure alle condizioni procedurali previste dalla legge). In tal caso, l’opinione della gestante nei confronti del concepito viene dotata di efficacia dal legislatore (fino al punto da decidere in virtù di essa la soppressione del concepito stesso). […] Il relativismo dell’opzione abortiva (le cui conseguenze sono radicalmente irrevocabili) si impone attraverso la norma nei confronti del concepito, dotando di efficacia legale (ed effettuale) l’opinione della gestante, rispetto alla quale nessun argomento – neanche quello del padre del concepito o dei genitori della minorenne – è ammesso (esemplarmente nella legislazione italiana) come suscettibile di qualche rilievo. Alla possibile controversia (ovvero alla valutazione delle ragioni e quindi al riconoscimento della realtà) è preferito il conflitto (in questo caso, della gestante nei confronti del concepito) che è a priori risolto dal legislatore a favore di uno dei due soggetti (quello effettivamente più forte).
Giudizio di valore e tentazione neolamennaisiana.
4.1. […] Precisamente l’alternativa decisiva ha riguardo essenzialmente alla questione del rapporto tra libertà e verità (ovvero tra libertà e bene), come tra potere e giustizia. Se il primo dei termini viene assunto (ideologicamente) come fondamento del secondo, la pretesa di giustificare l’aborto come diritto potrà, inesorabilmente, aver luogo. Diversamente, ove il secondo dei termini sia riconosciuto teoreticamente come il criterio e la misura del primo, sono poste le premesse per ogni argomento che riconosca nel bene – quindi nella giustizia – la misura della libertà, e la inconsistenza della pretesa del desiderio come diritto. Il giudizio di valore offre l’unico percorso razionale per dirimere la questione, si tratti del versante etico, di quello giuridico, di quello politico. La valutazione importa l’esigenza del fondamento (dell’argomentazione), il superamento dell’emotivismo e l’oltrepassamento del sociologismo.
[…] È di notevole interesse, al riguardo, la vicenda della polemica condotta da Felicité Lamennais, nel primo quarto del XIX secolo. Questi, infatti, a difesa della libertà di educazione della famiglia e della Chiesa, cominciò ad invocare sistematicamente dalle colonne del giornale L’Avenir, la libertà intesa nella sua accezione liberale. Egli, di fronte al monopolio statale sull’istruzione (fondato sul sistema napoleonico dell’Université), intese difendere il diritto delle famiglie ad impartire una educazione cristiana ai propri figli ed il diritto della Chiesa ad avere proprie scuole, invocando a fondamento di tale diritto la libertà come indifferenza. In una visione secondo la quale “la libertà è la prima legge e il fondamento di tutte le altre, la libertà assoluta senz’altro limite che se stessa”. L’esemplarità storico-dottrinale della vicenda lamennaisiana si carica, così, di una singolare valenza interpretativa. Essa si configura come una sorta di verifica di una possibilità tanto seducente per l’azione (nell’epoca della modernità) quanto aporetica per il pensiero (autentico): la pretesa di assumere come fondamento della libertà la libertà stessa, cioè la libertà (modernamente e nihilisticamente intesa) come autodeterminazione, per difendere beni e diritti minacciati dall’invadenza della legislazione. E ciò, invece di fondare il diritto, e quindi la libertà del suo esercizio, nell’ordine del riconoscimento del bene, e quindi della giustizia. Ecco ciò si può identificare, concettualmente, come “tentazione neolamennaisiana”.
Tale attitudine si sostanzia, inoltre, di un ulteriore paradigma ideologico: l’assunzione del giudizio di fatto come giudizio di valore (tanto apodittico quanto ingiustificato). […] Anche per quest’ultimo atteggiamento è esemplare la posizione del Lamennais, il quale la esprime assertoriamente, pretendendo di vedere nelle vicende coeve la necessità di un percorso immancabile: […] “ siccome nel nostro tempo Dio […] non è più ammesso e accettato da tutti […] ne segue che oggi l’unico sistema sociale possibile è quello che si fonda sullo svolgimento della libertà individuale”. […]
La riflessione critica, però, non può non scorgere nella “tentazione neolamennaisiana” una via senza uscita, un’aporia del pensiero ed una antinomia dell’azione. […] L’illusione dell’efficacia pagata col sacrificio della razionalità, conduce inevitabilmente alla inconsistenza degli argomenti ed alla inanità dell’azione. La tesi della libertà come opzione (come tale senza argomenti) e dei diritti come proiezione della volontà (degli individui come del potere), circoscrivono ogni argomentazione che miri a sottrarre qualche bene all’arbitrio dell’opinione ed al dominio del potere, all’interno di un circuito necessariamente (e coerentemente) ipotetico-convenzionale. Solo il riconoscimento teoretico (quindi schiettamente razionale) del bene come misura e criterio della libertà, la distinzione tra validità e vigenza della legge, e la consapevolezza della permanenza di quanto è autenticamente conforme alla natura delle cose, può approdare all’intelligenza del fondamento – in quanto tale autenticamente universale e perciò intersoggettivo – e sottrarre la libertà ed il diritto alle insidie della retorica (e dell’arbitrio).