Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo “Domande su laicità e laicismo”, tratto dal periodico cattolico Instaurare omnia in Christo, anno XXXIV, n. 2, maggio-agosto 2005
di Danilo Castellano
1. «Laicità» e «laicismo» sono termini ambigui, spesso confusi fra loro, resi cioè equivalenti. Talvolta i due termini sono usati con significato particolare: il «laicismo», per esempio, viene spesso scambiato con l’«anticlericalismo», che del «laicismo» può essere (non sempre, però) una manifestazione, non l’essenza. In taluni contesti culturali (per esempio nella cultura francese) «laicità» è sinonimo di «laicismo», anche se questo può assumere sia gli aspetti della «religione civile» sia gli aspetti della «neutralità dello Stato» nel tentativo di lasciare spazio alle «libertà spirituali», riconducibili a loro volta a una particolare (ed erronea) concezione della libertà, fatta propria anche dal «laicismo» che si manifesta come «religione civile»: già per Rousseau lo Stato avrebbe dovuto godere della «libertà negativa», ossia della possibilità dell’assoluta autodeterminazione della sua volontà (senza alcun criterio), come oggi, rovesciando le posizioni, si ritiene debba essere riconosciuto e garantito all’individuo/cittadino. Nel nostro tempo il dibattito sul «laicismo » e sulla «laicità» si va rinnovando nel tentativo, da una parte, d’istituire distinzioni tra i due termini e, dall’altra, per riproporre sotto apparenti aspetti di novità una (sostanzialmente) vecchia ma sempre attuale querelle.
2. Cerchiamo, pertanto, di vedere (sia pure brevemente) come i due termini vengono assunti nelle due culture che hanno avuto ed hanno un particolare ruolo in Europa. Laico per la cultura cattolica può essere tanto colui che non è incorporato nella Chiesa con il Battesimo, tanto colui che vi è incorporato (e, in quanto tale, appartiene al Popolo di Dio) ma non ha ricevuto l’Ordine sacro e non appartiene allo stato religioso riconosciuto dalla Chiesa (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.897). Laico, soprattutto per la cultura occidentale di derivazione illuministica, è, invece, colui che rivendica l’assoluta autonomia e, quindi, respinge ogni riferimento oggettivo nel pensare e nell’agire (libertà di pensiero, libertà di coscienza, uomo misura di ogni cosa), senza con questo assumere necessariamente una militanza contro qualcosa o qualcuno. Recentemente, per esempio, uno scrittore «laico» ha sostenuto che «laicismo» è sinonimo di indifferenza, vale a dire che il laicismo, portato alla sua conseguenza estrema, postula l’abolizione stessa dell’idea di «peccato». (cfr. E. SCALFARI, Perché non possiamo non dirci laici, in Dibattito sul laicismo, Roma 2005, p.15). L’abolizione dell’idea di peccato, essendo abolizione innanzitutto dell’idea di bene e di male (il peccato, infatti, ha rilievo religioso ma fondamento filosofico), comporta l’affermazione dell’assoluto relativismo, cioè la rivendicazione della «libertà negativa» (o luciferina) come libertà. Ecco, allora, le prime domande: la laicità, intesa in questa seconda accezione, non è forse già laicismo anche se esso si presentasse come semplice metodo che nasconde, però, un’ideologia? La rivendicazione del diritto a essere semplicemente “coerenti”, vale a dire “autentici” non come conformità alla propria natura ma come autodeterminazione della mera propria volontà, non è, forse, in ultima analisi un’aporia per ogni ordinamento giuridico? Il costituzionalista americano Weiler, per esempio, pone il problema chiaramente: se una religione riconosciuta come tale -scrive- […] dicevamo, esigesse sacrifici umani dai suoi seguaci, su quali basi, in presenza della libertà di religione e di credenza, sarebbe possibile negare il diritto a tale rito soprattutto se la vittima designata fosse consenziente al proprio sacrificio? Oppure su quali basi potrebbe essere vietata la macellazione rituale (ebraica o musulmana) per la sua (ritenuta) crudeltà soprattutto se questa turbasse le coscienze di coloro che non appartengono alle citate religioni o respingono particolari riti?
3. […] In nome, dunque, dell’umanesimo immanentistico, il laicismo ha sempre più richiesto il riconoscimento di principî che la cultura egemone, in particolare quella politica, considera indiscutibili (libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, neutralità delle istituzioni, pari trattamento di tutte le credenze e via dicendo: sono gli assiomi del liberalismo politico correttamente interpretato e correttamente applicato) ma che hanno portato a “casi” che fanno discutere: in Europa (ma anche negli Stati Uniti, contrariamente a quanto comunemente si pensa) le cronache riferiscono frequentemente della soppressione (per legge o per sentenze giudiziarie) di festività cristiane e del divieto della preghiera o della lettura della Bibbia o delle sacre rappresentazioni nelle scuole e, in Gran Bretagna, persino del consumo a merenda delle tradizionali brioches a forma di croce. La Francia da poco ha regolamentato (e ristretto) per legge l’uso pubblico dei simboli religiosi arrivando, per esempio, a impedire a un cappellano di un Liceo di Tolone di indossare la tonaca e, prima ancora, alle ragazze musulmane francesi di coprirsi il capo col velo. In Germania il Tribunale amministrativo del Baden-Württemberg ha vietato alle suore di vestire il velo all’interno degli edifici scolastici. Avvisaglie di orientamenti analoghi si sono registrati anche in Italia dove la Corte costituzionale ha ritenuto “costituzionalmente” legittimi divorzio e aborto procurato e ha sentenziato (sia pure dopo un’incerta giurisprudenza al riguardo) l’incostituzionalità della formula del giuramento decisorio proprio nella parte e a causa della parte in cui veniva invocato Dio a testimone (cfr. Sentenza n. 334/1996). […] Fece scalpore, però, nel 2003 negli stessi Stati Uniti la sospensione del giudice (Ray Moore) ritenuto colpevole di aver fatto mettere davanti alla sede di un Tribunale dell’Alabama (a Montgomery) una lapide con i dieci Comandamenti, rimossa per ordine della Corte Suprema Federale. Del resto le istanze tendenti alla legalizzazione del divorzio (e, ora, del divorzio breve), a istituire il matrimonio fra omosessuali (sia pure, talvolta, gradualmente, attraverso cioè le “partnerships registrate”), a riconoscere il diritto al suicidio, in particolare a quello assistito (definito diritto soggettivo nei Paesi Bassi), all’instaurazione del permissivismo, alla pratica della fecondazione medicalmente assistita, non sono, forse, la coerente applicazione dell’opzione fondamentale dell’umanesimo immanentistico?
Quando Pio XI nell’Enciclica “Quas primas” (11.12.1925) definì il laicismo “peste dell’età moderna” non lo fece con spirito di contrapposizione polemica verso il “mondo” al fine di aprire antichi dissidi o per alimentare sterili polemiche. Lo fece per spirito di servizio agli uomini e, in particolare, al gregge a lui affidato dalla Provvidenza divina, cioè per dovere di padre. Lo avevano fatto i suoi predecessori che, nelle particolari circostanze storiche in cui si trovarono, avevano con chiarezza e coraggio denunciato “il sogno detestabile” secondo il quale “il potere civile sarebbe la sorgente di ogni diritto, e secondo cui la Chiesa è soggetta all’onnipotenza dello Stato” (PIO IX, Lett. “Dum insectationem”, 10.2.1873). […]
4. Il problema, allora, è quello d’individuare la cosiddetta “sana” laicità. Che cosa implica questo aggettivo? Noi diciamo di essere “sani” quando godiamo della salute, vale a dire quando il nostro organismo vive secondo il suo ordine naturale, oggettivo. Quest’ordine non è prodotto né delle mani né della volontà dell’uomo. È un ordine impresso da Dio alle sue creature. Anche alla politica e al diritto Dio ha dato un ordine che gli uomini possono e debbono concorrere a scoprire e a instaurare. Possibilmente insieme, cioè con il concorso di tutti. La scoperta e l’instaurazione di questo ordine è opera “laica”, non religiosa: l’intelligenza, infatti, non è né cattolica né laicista, come la verità, il bene, la giustizia. Pretendere di sottrarsi a questo ordine o di surrogarlo con altri è la pretesa del laicismo che con il suo “non serviam” pone come condizione della laicità una condizione impossibile. Esso non è, forse, in ultima analisi un’insana e disumana utopia? […] Non bisogna dimenticare la vecchia e sempre attuale osservazione di Dante, arbitrariamente strumentalizzato dall’Italia “laica”, secondo il quale è vero che “quae sunt Caesaris Caesari” (Mt. 22,21) ma è altrettanto vero che Cristo, pur avendo davanti a Pilato affermato che il suo non è un regno temporale, è e resta Signore del temporale pur non essendosene assunta la cura (Monarchia, III, 13-16). La “sana” laicità non comporta, forse, il riconoscimento di questa signoria? E questo riconoscimento non è, forse, anche un intelligente atto di umiltà religiosa?
5. La signoria di Dio sul temporale sembra venga rifiutata in ultima analisi (al di là delle loro intenzioni e, forse, nonostante le loro buone intenzioni) anche da coloro che propongono una nuova forma di «laicità ». Vivaci dibattiti e scalpore ha suscitato, per esempio, a questo proposito l’omelia del Patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola, tenuta nella festa del Redentore, i cui contenuti sono stati anticipati sotto forma di intervista dal “Corriere della sera” (Milano 17.7.2005). I temi toccati nel corso dell’intervista sono tanti, tutti di una delicatezza estrema. Ci limiteremo, per ora, a porre domande solamente su alcuni, su quelli che, a nostro giudizio, investono più direttamente la questione della laicità e del laicismo.
a) Il dialogo. Giustamente il cardinale Scola ritiene opportuno il dialogo, inteso come confronto, a 360 °. Il dialogo, però, da metodo di confronto sembra venga da lui trasformato in metodo di convivenza, ovvero in tecnica di armistizio tra “visioni” della vita, dell’uomo, della società civile e delle istituzioni statuali, della razionalità e via dicendo. Non si tratterebbe, quindi, dell’apertura e dell’impegno a mettere in discussione tutto ma per trovare, insieme, le verità che valgono per tutti; si tratterebbe, piuttosto, di costruire uno spazio, definito comune, entro il quale tutte le “idee” abbiano diritto di cittadinanza: “l’unica strada è la costruzione rapida e pacifica di un terreno comune – scrive il Cardinale – in cui le autorità costituite operino come garanti di una pluriforme società civile”. Torneremo fra poco sulle conseguenze relative al problema dello Stato e del suo ordinamento giuridico che queste tesi comportano. Per ora ci limitiamo ad osservare che se tutte le opinioni hanno pari dignità e valore e se la loro bontà è lasciata al “consenso” popolare, il dialogo diventa, in realtà, monologo e la democrazia mero strumento d’imposizione dell’opinione che incontra i maggiori consensi, vale a dire adesioni senza motivazioni. La democrazia sarebbe il regime del relativismo politico, poiché sarebbe metodo erroneamente scambiato per fine e valore; ciò anche nell’ipotesi in cui sia considerata via che consente al “popolo sovrano” di decidere. Il confronto permanente, proposto anche da Habermas e accolto dal cardinale Scola, a che cosa si riduce? La democrazia moderna, anziché essere palestra di autentico confronto e via per individuare, con il concorso dei più, la verità, non si fa forse verità essa stessa?; e, facendosi essa stessa verità, non impedisce, forse, l’autentico confronto, non avendo altro fondamento (o “presupposto”) che la “libertà negativa”? Su quali basi può essere istituito il confronto se la democrazia moderna è, come la “libertà negativa”, il puro autodeterminarsi del volere? Non è, forse, questa, una conseguenza necessaria dell’accoglimento del primato della “società civile”? Ciò vale anche in presenza della determinazione del volere per qualcosa di positivo ma legittimato dalla sola sua autodeterminazione.
b) Allo Stato – sembra – sarebbe richiesta la “neutralità”, anche se non quella formalistica che porterebbe alla paralisi decisionale. Il suo ordinamento giuridico dovrebbe essere esclusivamente garante della possibilità di autodeterminazione della persona e (eventualmente) di identità collettive costituite dalle persone (famiglie, gruppi, associazioni, partiti, etc.). Lo Stato dovrebbe assumere l’«idea migliore», giudicata, però, tale dal popolo sovrano (Questa “logica” – lo diciamo per inciso – porterebbe a ritenere che, per esempio, nella legalizzazione dell’aborto sia prevalsa, attraverso il “popolo sovrano” l’«idea migliore »!). Trattasi della vecchia ratio democristiana, sostenuta da De Gasperi in sede di Assemblea costituente, costantemente propugnata dalla DC e ripresa con forza, verso la metà degli anni ’80 del secolo scorso, da Ciriaco De Mita, secondo il quale lo Stato non dovrebbe essere cristiano, poiché “cristiano” in riferimento a un ordinamento sarebbe improprio; non si dovrebbe, infatti, secondo questa opinione, trasferire la tutela dal rispetto del valore al valore stesso. Così facendo si identificherebbe norma e valore e si introdurrebbe un principio di intolleranza (C. DE MITA, Intervista sulla DC, Bari 1986, pp. 199-200). Lo Stato dovrebbe evitare che ci siano “soggettività” che abbiano privilegi; dovrebbe, però, nello stesso tempo garantire alle soggettività di esprimersi e di affermarsi. Come? Assicurando il riconoscimento della soggettività giuridica a tutti ma non prendendo posizione circa il contenuto della soggettività giuridica medesima. In altre parole dovrebbe riconoscere a tutti di avere diritti, ma non dovrebbe prendere posizione circa il contenuto del diritto: ognuno avrebbe diritto a ciò che egli considera tale. In questa prospettiva deessenzializzata del diritto non si cade, forse, almeno di fatto, in quel puro formalismo che si vorrebbe evitare? Se ognuno ha diritto a ciò che egli ritiene diritto, non si finisce nel relativismo della vecchia laicità, ovvero nel laicismo,sia pure nella sua versione” debole? Se il valore è tale solo per chi tale lo ritiene, non si cade, forse, nel nihilismo? Se il matrimonio (indissolubile), per esempio, fosse un valore solo per chi lo assume come tale; anche se questo “valore” venisse accolto come tale a livello sociale sulla base delle decisioni della sovranità popolare ma non fosse possibile sostenere che esso è un valore assoluto che l’ordinamento giuridico deve proteggere, non si cadrebbe nell’agnosticismo che, come insegnò, per esempio, Giovanni Paolo II è una delle cause del dissolvimento dello Stato, inteso come comunità politica?
c) La sovranità popolare (come, precedentemente, quella dello Stato) è una «conquista» del laicismo. Essa, infatti, segna il trionfo dell’empietà, per usare un’espressione del Rosmini. Non può essere il criterio di legittimazione né del potere politico né dell’ordinamento giuridico della comunità politica. Se si facesse del popolo (fra l’altro male inteso) o del Parlamento il criterio di legittimazione del potere e del diritto, si cadrebbe in un’aporia, forse in una duplice aporia. Una conseguenza inevitabile sarebbe il positivismo giuridico. Che senso avrebbe allora, per esempio, la rivendicazione dell’obiezione della coscienza? Su quali basi essa potrebbe essere invocata e giustificata? Forse sul presunto diritto alla sola coerenza con se stessi che, come si è accennato,è un’altra «conquista» del laicismo? Il laicista, infatti, rivendica il diritto di poter scegliere “senza confini” e senza criteri. La morale per lui è un fatto «privato», che richiede il «rispetto» dell’individuale coscienza, naturalisticamente intesa, vale a dire come immediatezza del «sentire» e come soggettivistica decisione che avrebbe il diritto di affermarsi sempre e comunque. L’etica politica, al contrario, altro non sarebbe che conformità alle decisioni della sovranità, vale a dire un comportamento legale. Il che non significa giusto, ma semplicemente conforme alla legge positiva: questa viene ritenuta condizione della giustizia, mentre è la giustizia condizione della legge.
d) Le questioni morali e politiche non possono essere trattate prescindendo dalle questioni metafisiche. Il laicismo nega, invece, questo legame come nega la necessità del fondamento; per esso conta la solidarietà nella sua negazione. Una forma di negazione del fondamento è data dalla tesi (di origine gnostica, in ultima analisi), secondo la quale l’identità dipenderebbe dalla differenza: identità e differenza, infatti, sarebbero concepibili solo in relazione, si afferma. È, questa, una questione ampia e complessa che non può essere qui né illustrata né approfondita. È, tuttavia, opportuno osservare che non c’è bisogno del negativo per riconoscere il positivo; al contrario è il positivo semmai che consente di individuare il negativo. Così, per esempio, non serve essere ammalati per sapere che si gode della salute. La “relazione” può rendersi necessaria per capire la patologia ma, in questo caso, essa si fonda sul positivo, cioè sull’identità, non sulla differenza. Così anche nel campo sociale e politico, ove la questione ha un particolare rilievo. L’ordine giusto, infatti, può essere conosciuto anche senza il concorso del disordine e questa conoscenza è la base per l’instaurazione dell’ordinamento giuridico. I valori, dunque, possono essere individuati e vanno giuridicamente tutelati. Perciò, l’ordinamento giuridico non è semplicemente lo spazio entro il quale si affermano tutte le identità. Esso, al contrario, deve garantire le sole identità che non mettono in discussione l’ordine giusto. La pluralità non è, infatti, pluralismo relativistico: una società bene ordinata consente e assicura tutte le libertà che non contraddicono all’ordine e al diritto naturale (classicamente inteso). […]