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«Coloro che vogliono il cielo hanno servito al meglio la terra.

Coloro che amano l’uomo meno di Dio molto fanno per l’uomo»

(C. S. Lewis, L’ultima notte del mondo)

di Luca Fumagalli

Come tutti i libri di C. S. Lewis –  poco importa se romanzi o saggi –  anche L’ultima notte del mondo nasconde tra le sue pagine un piccolo tesoro. Il sapiente, come nella parabola evangelica, dovrebbe vendere tutto quello che possiede per acquistare il campo dove riposa il pensiero di uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Autore di un capolavoro come Le Cronache di Narnia, di diversi romanzi e di un numero vastissimo di articoli e studi, Lewis ha il carisma dell’apologeta, il piglio graffiante del polemista e, soprattutto, l’ardore di un uomo mosso da un sincero amore per Cristo.

Il professore di Oxford è stato uno dei pochi scrittori cristiani a denunciare apertamente le illusioni del mondo moderno e a trovare nella tradizione religiosa dei propri padri quei fondamentali necessari per superare il ginepraio del dubbio che aveva angosciato la sua gioventù. La conversione avvenne infatti solo nella maturità, tra il 1929 e il 1931, grazie all’intercessione preziosa dell’amico J. R. R. Tokien. L’artefice de Il Signore degli anelli faceva parte con Lewis di un gruppo di docenti e scrittori, gli Inklings (imbrattacarte), che aveva l’abitudine di incontrarsi al pub la sera per discutere di mitologia e letteratura. A partire da quelle conversazioni, rigorosamente accompagnate da un buon boccale di birra, scaturì in lui il desiderio di penetrare il mistero dell’esistenza; così, dopo mesi di verifica, fece finalmente il suo ingresso nella chiesa anglicana. Il pregiudizio protestante ereditato dalla nativa Belfast gli impedì sempre – con somma delusione di Tolkien – il passaggio alla Chiesa di Roma. I suoi lavori, volutamente distanti delle disquisizioni dogmatiche e incentrati soprattutto sulle ragioni della fede, offrono comunque numerosi argomenti e spunti di riflessione anche per i cattolici.

È questo il caso de L’ultima notte del mondo, un libricino agile, silloge di nove articoli pubblicati dallo scrittore britannico tra il 1942 e il 1963 (l’anno della morte) e ancora inediti in Italia. Eterogenei per stile e lunghezza, i testi possono essere raggruppati in tre nuclei principali: la relazione con l’altro, la fede nella preghiera e nei miracoli e, in ultimo, la dimensione soprannaturale dell’esistenza. Il filo rosso che li lega è il medesimo che percorre l’intera attività letteraria di Lewis, animata dalla volontà di aiutare se stesso e il lettore a sentire e riconoscere coscientemente quel desiderio profondo del divino che è nell’uomo: «Quella nostra nostalgia che dura una vita, quel desiderio che abbiamo di essere riuniti a qualcosa nell’universo da cui ci sentiamo separati».

In Tre categorie umane, l’articolo di apertura del volumetto, si tratta degli uomini e dei loro egoismi. Secondo l’autore solo il mendicante alla mensa di Cristo è in grado di raggiungere la vera gioia. Gli altri brani dalla prima parte, Il problema con X… e Non abbiamo diritto alla felicità, costituiscono due argute dissertazioni incentrate sul difficile rapporto con gli altri – «È determinante capire che anche in voi c’è un difetto fatale, un qualcosa che dà agli altri la medesima sensazione di disperazione che provate nei confronti dei loro difetti» – e sul falso concetto di libertà tipico del liberalismo, attraversato dal rischio di ridurre l’umanità alla schiavitù degli istinti più bassi e volgari.

Il grandioso miracolo e Miracolo introducono alla tematica religiosa vera e propria andando a sondare uno degli aspetti della fede che risulta più difficile da comprendere per i laici moderni e per i prelati intrisi di razionalismo: «Eppure, se c’è una religione al mondo che non può fare a meno dei miracoli, per quel che ne sappia, si tratta proprio di quella cristiana». La ragionevolezza dei fatti soprannaturali, così diffusi nei Vangeli e nella storia della Chiesa, è dimostrata dall’autore partendo da alcune brillanti analogie con la legge naturale. Preghiera e lavoro sposta invece l’attenzione sul rapporto esistente tra la petizione al divino e lo sforzo personale.

L’ultima parte si apre con un curioso pezzo, decisamente attuale, sulla validità del messaggio cristiano anche nell’eventualità fossero scoperte forme di vita aliene. In Religione e viaggi interspaziali: c’è rischio di perdere Dio? si riprendono le medesime questioni già affrontate dal punto di vista narrativo nella trilogia fantascientifica composta da Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza. Vivere al tempo dell’atomica e L’ultima notte del mondo – l’articolo che dà il titolo alla raccolta – spostano l’attenzione sulla perniciosa tendenza a considerare la nostra epoca come un momento assolutamente unico della storia e, in seconda battuta, sulla fine del mondo. L’invito che lo scrittore rivolge al lettore è quello di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, confidando in Dio e nella sua misericordia: «Vestire la nostra anima non per la luce elettrica del tempo presente, ma per la luce di quello a venire. Il buon abito è quello che terrà al confronto con quella luce. Infatti quella luce durerà più a lungo».

Nella brevità, nella prosa asciutta e nel ragionamento limpido risiede tutta la forza apologetica di questo lavoro. Paragrafo dopo paragrafo la lucidità dell’argomentare colpisce per la schiettezza e la sistematicità. Tutto è profondo, scarno e appassionante. Una lettura quindi ottima per il periodo estivo, un’occasione per tornare a fare i conti con se stessi alla presenza di Aslan, il Cristo benevolo  che ogni opera di Lewis inevitabilmente rievoca.

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C.S. LEWIS, L’ultima notte del mondo, Roma, Castelvecchi, 2014, pp. 137.