«Sub specie aeternitatis tutti noi,
senza eccezione, siamo dei falliti»
(Fred Uhlman, L’amico ritrovato)
di Luca Fumagalli
Oxford, 1923. Nelle vie larghe e silenti della cittadina si aggirano due curiosi personaggi, matricole del college. Il primo ad avanzare è Charles Ryder, promettente artista di Londra, mentre accanto a lui, un poco in disparte, si trova il suo inseparabile amico, Sebastian Flyte, figlio del marchese di Marchmain e rampollo di una delle famiglie più in vista di tutta l’Inghilterra. Tra le sue braccia stringe un orsetto di pezza chiamato Aloisio a cui si rivolge con la curiosa severità di un padre, come se si trattasse di un ragazzo in carne e ossa. Due tipi piuttosto curiosi, eppure capaci con il sorriso di attrarre un numero crescente di compagni che, tra una bevuta cameratesca e un pranzo allo studentato, trascorrono i trimestri con la gaiezza dei vent’anni, estranei alla grave serietà dei professori o degli studenti più anziani. Naturalmente la resa accademica è piuttosto scarsa, ma tra Charles e Sebastian è nato un affetto così profondo che rende indimenticabile ogni giornata trascorsa insieme: «C’era in noi una vena d’infantile freschezza assai prossima alla gioia dell’innocenza».
L’allegra monotonia viene spezzata quando, durante l’estate, Sebastian invita Charles a trascorrere le vacanze da lui presso il bellissimo castello di Brideshead, la dimora di famiglia. «Era un corso d’estetica vivere tra quelle pareti, vagabondare da una stanza all’altra»: il giovane londinese tocca con mano per la prima volta l’opulenza del patriziato britannico, un’immersione nel delicato gusto della bellezza arcaica. I monumenti, la grande fontana e i verdi giardini che si affacciano su un incantevole lago sono l’adeguata cornice per un’esperienza indimenticabile. Charles ha così modo di incontrare la famiglia Flyte composta dall’austera madre, dal figlio maggiore Bridey e dalle figlie Julia e Cordelia. Il marito vive da tempo a Venezia con Cara, conosciuta in Francia durante la guerra; Lady Marchmain dal canto suo non nutre alcun risentimento nei confronti di un uomo che continua a dimostrare un grande affetto per la prole. Nonostante le attenzioni e le gentilezze di cui è fatto oggetto, Charles fatica a comprendere la religione di questi singolari cattolici, lui che è stato educato all’anglicanesimo dall’ammattito padre – la madre è morta durante la guerra mentre era in Serbia come volontaria per la Croce rossa – e che ora langue in un freddo e distaccato ateismo: «La loro era la tipica storia dei signorotti cattolici inglesi; dal regno di Elisabetta a quello della regina Vittoria avevano condotto vita ritirata, tra affittuari e parentado; mandavano a studiare i figli all’estero, dove prendevano moglie, quando non si sposavano tra loro, nella ristretta cerchia di famiglie della loro stessa fede».
Col passare del tempo i rapporti con Sebastian si fanno sempre più difficili a causa dell’ostentata dipendenza dall’alcol di quest’ultimo, e Julia rimpiazza presto il fratello nell’immaginario affettivo di Charles. Lacerati da forze opposte, i legami tra i protagonisti si dipanano confusi fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in un affresco mai prevedibile che trascina più volte gli inconsapevoli attori del dramma sul ciglio del precipizio. Ma proprio quando le tenebre sembrano aver irrimediabilmente offuscato l’orizzonte esistenziale degli abitanti di Brideshead, ecco che accade il miracolo che conduce la vicenda a un felice epilogo.
Ritorno a Brideshead, pubblicato per la prima volta nel 1945, è il romanzo più famoso dello scrittore britannico Evelyn Arthur Waugh (1903-1966). Noto per le sue narrazioni ironiche e disincantate, argute satire che prendono di mira la classe dirigente britannica, Waugh era un fervente cattolico, teologicamente tridentino, l’ultimo di una schiera d’autori che dal cardinal Wiseman si dipana idealmente fino a raggiungere gli anni del Concilio Vaticano II (accolto dallo scrittore con numerose critiche e riserve). La fede descritta nei suoi lavori ha un sapore antico. Gli uomini e le donne che abitano i romanzi dell’inglese sono peccatori della peggior specie, si comportano il più delle volte come se Dio non ci fosse, ma mai arrivano a negarne l’esistenza o la benevolenza. Alla sua poetica è dunque estranea quella modernissima “teologia del dubbio” che invece caratterizza il lavoro di altri grandi prosatori coevi come Graham Greene.
L’opera di Waugh, definita non a caso dallo studioso Richard Griffiths il “culmine della Tradizione”, è piuttosto eterogenea e solo con il romanzo del ’45 la tematica cattolica diventa rilevante. Il sottotitolo, Memorie sacre e profane del capitano Charles Ryder, rende ragione della convivenza dell’elemento satirico e di quello religioso, ma, soprattutto, mostra la natura intima del testo dove è evitato un intreccio troppo scopertamente apologetico per virare verso una storia di raffinato gusto aristocratico che, tra le pieghe di una vita mondana e apparentemente serena, nasconde i semi del tormento sociale e spirituale. L’edera che si arrampica pervicace sulle pareti del palazzo di Brideshead è infatti il segno più eloquente del tempo che passa, di un’epoca che, come il ciclo delle stagioni, sta giungendo al suo naturale capolinea. Quel glorioso passato in cui la nobiltà godeva di un prestigio invidiabile in Gran Bretagna è destinato a sfaldarsi come i colori degli antichi stemmi araldici. Allo stesso modo anche la fede della famiglia è in costante pericolo, preda delle tentazioni del nuovo che avanza. Una Julia ormai adulta commenta così la fallimentare storia d’amore con il ricco Rex Mottram, un uomo che dietro la modernità ha rivelato tutta la grottesca pretesa del tempo presente: «Lo avevo creduto un selvaggio primitivo, mentre era qualcosa di assolutamente moderno e al passo con i tempi, quale soltanto quest’epoca agghiacciante poteva produrre. Un pezzettino d’uomo che pretendeva d’essere un uomo intero».
Ritorno a Brideshead, come ogni classico della letteratura, generazione dopo generazione continua a parlare ai suoi lettori rivelando anche più di quanto il suo stesso autore avesse programmato. Waugh aveva deciso di accantonare per qualche tempo gli impegni editoriali più urgenti e di dedicarsi, anima e corpo, a un romanzo scritto solo per se stesso, totalmente indifferente alle logiche del mercato. È forse questa la chiave di un successo duraturo testimoniato tra l’altro dall’omonima serie Tv del 1981 con Jeremy Irons e dal film di Julian Jarrold del 2008 (da cui sono tratte le immagini a corredo dell’articolo). La riduzione cinematografica, come spesso accade, si scontra con la necessità di limitare alle linee essenziali un intreccio di per sé piuttosto complesso. Il prodotto finale è comunque positivo, abile soprattutto nel ricreare il plumbeo clima cattolico di Brideshead, anche se sacrifica molto dell’approfondimento psicologico dei personaggi – a volte un po’ stereotipati – che i numerosi dialoghi presenti nel testo contribuiscono a far emergere con vivace nettezza.
La recente edizione Bompiani presenta in appendice il breve racconto Charles Ryder ai tempi della scuola, pochi fogli che trattano degli studi liceali di Charles e, soprattutto, della sua reaziona alla notizia della morte della madre. Per la prima volta vengono presentate al lettore italiano le poche pagine sopravvissute di un probabile antefatto a cui Waugh stava lavorando. Una gradita integrazione che, lungi dall’aggiungere spessore o valore alla trama originale, ha comunque il merito di descrivere con riuscita ironia il vuoto sistema educativo anglicano, ridicolmente preoccupato di gareggiare in fasto e bellezza con la Chiesa di Roma.
Quale sia il filo rosso che unisce gli episodi di una storia lunga e frammentata è esplicitato dallo stesso autore nella prefazione dell’edizione riveduta e corretta del 1960: «Il libro ruota su ciò che la teologia definisce l’atto della Grazia, vale a dire l’immeritato e unilaterale atto d’amore, attraverso il quale Dio chiama le anime a sé». Persi nei tormentati legami esistenziali, i personaggi sono costantemente inseguiti dallo spettro della fiamma divina, un dolce imprevisto che come un segugio non molla mai la loro anima. Alla libertà del singolo è affidato il compito di rispondere alla sollecitazione dello Spirito che spesso si manifesta nei modi più improbabili. Se è vero che «conoscere e amare un altro essere umano è alla base di qualsiasi forma di saggezza», è proprio nelle relazioni che scaturisce l’anelito alla conversione. Come anticipato, ogni passaggio chiave della trama è sempre preceduto da un dialogo in cui è un gesto o una parola pronunciata al momento più opportuno che, come un archetto, fa vibrare le corde della coscienza dell’interlocutore.
È il caso, ad esempio, del colloquio tra Charles ed Anthony Blanche, ex compagno di college, dandy e omosessuale. A Londra per visitare la mostra di quadri recentemente inaugurata dall’amico, ormai affermato pittore, Anthony con le sue critiche ragionate e profonde è una divertente personificazione delle misteriose vie che il Signore adopera per toccare il cuore delle persone. A Charles non resta che ammettere l’evidenza: «Ci voleva quella voce del passato per farmi tornare in me». Anche Sebastian nella seconda parte del libro torna sul tema del riscatto personale: «Ritengo uno dei maggiori conseguimenti della Grazia quello di santificare la vita nella sua totalità».
Proprio lui e la sorella Julia al termine del racconto sperimentano più di altri la gioia del riscatto. Entrambi sembrano infatti condannati alla perdizione. Le loro vite, seppur molto diverse, si sono rivelate nulla più che un grande fallimento che li ha condotti a perdere la fede. Eppure, nel medesimo tempo, basta poco per ribaltare la sorte a cui verosimilmente erano destinati. Nel caso di Sebastian si tratta di un incontro, un’occasione per riprendere il controllo di sé e per chiudere definitivamente con ogni vizio, mentre a smuovere l’animo di Julia interviene una fredda costatazione di Bridey; la consapevolezza di vivere nel peccato la porta a spogliarsi di tutto, a rinunciare a ogni pretesa per arrendersi a Dio. L’epifania dei due fratelli ha inizio dalla conversione sul letto di morte del padre che, sentendo prossima la fine, raggiunge la famiglia a Brideshead. Quando l’uomo sta per chiudere gli occhi, con le ultime forze rimaste si fa il segno della croce e con un dolce sorriso si prepara alla Salvezza.
Nella confusione della modernità, una realtà liquida senza alcun punto d’appoggio, la fede rimane l’unica certezza: «Tutto ciò a cui i cattolici annettono importanza risulta essere diverso dagli altri». In una Oxford attraversata dalle istanze religiose più disparate – il lungo elenco delle possibili funzioni domenicali a cui uno studente può assistere è uno dei momenti satirici più brillanti del romanzo – non è altro che la cartina tornasole di un mondo in rovina di cui lo stesso Charles appare lo stereotipo più riuscito. Eppure anche lui, nonostante gli anni trascorsi e le traversie patite, nell’epilogo si mostra toccato dalla testimonianza dei suoi cari amici. In un finale aperto che suggerisce una situazione di stallo apparente, Charles si trova a fare il bilancio della propria vita, costretto a constatare, pur senza disperazione, il tempo perso a inseguire futili sogni e volgari pretese: «Quando i pozzi sono asciutti la gente prova ad attingere al miraggio». Ma anche per lui la Grazia è in agguato e fa capolino proprio nel momento in cui, nella solitudine della cappella di Brideshead, si trova quasi per caso a contemplare rapito una candela accesa, la speranza di un futuro diverso, più autentico e appagante: la storia è dunque del tutto simile a una fiammella votiva, il cui senso in fondo risiede nel suo perpetuo ardere in segreto.
Il libro: E. WAUGH, Ritorno a Brideshead, Milano, Bompiani, 2015.
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