di Isacco Tacconi
Nell’attuale dibattito sulle forme della celebrazione della Santa Messa, non di rado l’accento viene posto sulla “riformabilità” o su un “armonico adattamento” dei riti liturgici in forza di una convinzione erronea secondo la quale, con il Concilio di Trento, sarebbe stata creata una “Nuova Messa” lontana dalle celebrazioni dei primi secoli. In tale prospettiva si vorrebbe legittimare un’ulteriore e indefinita riformabilità della Messa. Si è diffusa cioè la credenza erronea che la Messa cosiddetta “Tridentina” sia appunto un’invenzione figlia del suo tempo, senza radici, lontana dalle quasi mitologiche liturgie dei padri della Chiesa e ancor più da quelle dei cristiani dei primi secoli. Ma, contemporaneamente a questa tendenza verso la “riforma”, si affianca paradossalmente una tendenza alla cementificazione statuaria della Liturgia che si vorrebbe giustificare guardando alla fissità dei riti liturgici delle Chiese orientali. Queste due tendenze, ossia l’una rivolta alla riforma e l’altra rivolta al fissismo, molto spesso oggi vengono, con evidente contraddizione, simultaneamente affermate. Non fa mistero che dopo il Concilio Vaticano II la tendenza alla sovversione della liturgia e l’apertura a qualsiasi forma d’innovazione bislacca vada a braccetto con un senso di inferiorità e di ammirazione per i cristiani (autodefinitosi) ortodossi. Si crede e si insegna, infatti, che i greci o gli armeni o gli slavi o i copti hanno conservato molto meglio di noi romani/latini la “purezza originaria” della liturgia apostolica.
Non ci si avvede però, che imboccando la via del fascino e dell’attrazione per una forma di mistica archeologica, si giunge inavvertitamente e lentamente a professare l’eresia secondo cui gli orientali avrebbero conservato non solo la liturgia autentica, ma anche la fede autentica o, peggio ancora, la Tradizione autentica, il che significa la Divina Rivelazione autentica. Non starò qui a cercare di dimostrare la gravità di tali affermazioni perché, come dice Aristotele, è da stolti chiedere il perché delle cose evidenti.
Quel che è più importante, piuttosto, è dissipare alcune false credenze storico-liturgiche che rischiano di portare, in questo momento di grave crisi della Chiesa, altre pecore fuori dall’unico ovile di Cristo ma questa volta non per la via del liberalismo bensì per la via del purismo anomico. Apriamo qui una breve digressione sul significato della parola “anomia” dal greco a-nomos = assenza di legge. Il dizionario di filosofia e delle scienze umane così la definisce: “lo stato di frustrazione e di assenza di punti di riferimento e valori in cui si possono trovare individui o gruppi in una società in cui, a causa delle rapide trasformazioni che ne sconvolgono gli assetti tradizionali, il vincolo tra individuo e valori della collettività va perduto […]. Di fronte all’anomia l’individuo può reagire in vari modi, descritti e classificati da Merton: dal conformismo alla rinuncia, al tentativo di innovazione, alla ribellione”. Non possiamo negare che la società contemporanea abbia attraversato e stia tutt’ora attraversando uno sconvolgimento radicale, una sorta di cataclisma spirituale da cui non va esente nemmeno la «società dei veri cristiani» ovvero la Chiesa Cattolica (Cat. San Pio X n.105).
Questa crisi generale e capillare, come abbiamo detto, può indurre a guardare e a cercare la quiete del cuore al di fuori della Chiesa Romana, per esempio nelle chiese scismatiche ed eretiche orientali. Vien dunque doveroso chiedersi: è giustificata la credenza secondo cui gli “ortodossi” hanno conservato la liturgia e la Fede meglio di noi cattolici romani? Cerchiamo di rispondere.
“Esiste – dice Michael Davies – ciò che il padre Fortescue descrive come una sorta di «pregiudizio secondo il quale tutto ciò che appartiene alle Chiese orientali è necessariamente antico». Opinione erronea: non esiste attualmente nella liturgia orientale chi possiede un uso ininterrotto così antico come la Messa romana[1]. Questo è particolarmente vero per il canone romano. Dom Cabrol, monaco benedettino, il «padre» del movimento liturgico moderno, sottolinea che il «canone del nostro rito romano, che fu, per l’essenziale, redatto nel IV secolo, è l’esempio più antico e più venerabile di tutte le preghiere eucaristiche in uso oggi»”[2].
Le testimonianze a tal riguardo non mancano. “È dalla tradizione apostolica (ex apostolica traditione) – dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone”.
Ancor più chiaramente il beato Ildefonso Schuster dichiara che il Liber Pontificalis ci attesta l’origine apostolica della liturgia romana e che “ripetendo oggi dopo tanti secoli nella Messa la prece consacratoria, noi possiamo esser sicuri di pregare, non solo già colla fede di Damaso, d’Innocenzo, di Leone Magno, ma colle stesse parole che prima di noi essi ripetettero all’altare e che anzi santificarono la primigenia età dei Dottori, dei Confessori e dei Martiri”[3].
Dunque il primato dell’antichità delle forme liturgiche in uso ancora oggi, non risiederebbe nelle Chiese orientali bensì in quella Cattolica Romana. Le dispute sul primato petrino e sull’obbedienza alla Prima Sedes, risalgono agli albori della Chiesa e in più occasioni le sedi episcopali elleniche attentarono all’autorità dei Pontefici Romani. Era chiaro, infatti, che si dovesse obbedienza totale alla sede che poteva fondare la propria autorità sulla Fede integralmente professata e ininterrottamente trasmessa (quod semper ubique et ab omnibus creditur). È una questione che sant’Ireneo vescovo di Lione, primo vero teologo della Chiesa, dovette affrontare già nel II secolo. “La Chiesa disseminata attraverso il mondo, fino alle estremità della terra – dice Ireneo –, professa la fede che ha ricevuto dagli apostoli che a loro volta l’hanno ricevuta dal Figlio di Dio. Questa Chiesa ha il suo centro a Roma con cui tutta la Chiesa deve accordarsi a causa del suo supremo primato, perché, con la successione dei Pontefici romani, la Tradizione apostolica della Chiesa è pervenuta fino a noi”[4].
D’altra parte, in seguito alla consumazione dello Scisma d’Oriente, la concezione che della fede e della liturgia hanno osservato fino ad oggi gli ortodossi, è congelata ad un’epoca storica specifica: l’arco che va dal 787 d.C., data dell’ultimo Concilio Ecumenico da loro riconosciuto, fino al 1054 data ufficiale del Grande scisma, non oltre.
Questi rimanendo bloccati, in larga parte, ad una teologia apofatica e pseudo-mistica e a forme liturgiche dell’XI secolo, rifiutano ogni tipo di approfondimento e di studio teologico razionale che conduca ad una chiarificazione della Rivelazione Divina e quindi ad ogni definizione dogmatica ulteriore. La filosofia aristotelica, il pensiero di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino e di tutta la scolastica medievale, il culto mariano, l’ascesi e la mistica della controriforma, la multiforme devozione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria sono ricchezze della Grazia sconosciute alle “Chiese” orientali “ortodosse”, le quali le rifiutano come aberrazioni ed eresie.
Questa povertà teologica degli ortodossi, emerge ancor più chiaramente se accostiamo la vita e la storia della Chiesa cattolica romana rispetto a quella greco-ortodossa. I numerosi dogmi, la folta schiera di santi dottori che hanno arricchito la Fede con la loro sapienza, la miriade di ordini e congregazioni religiose che sono fiorite nei secoli santificando generazioni di cristiani; gli indiscutibili frutti di penitenza prodotti dall’albero degli ordini mendicanti di San Domenico e San Francesco; l’innato slancio missionario che ha condotto un San Francesco Saverio fino alla remota isola di Cipango (Giappone), o che ha condotto un padre Guglielmo Massaia a predicare la luce del Vangelo nell’Africa nera, o ancora l’anelito al martirio di un San Nicola Tavelic e i suoi confratelli francescani che li ha portati ad offrirsi in sacrificio per la conversione dei maomettani predicando la Divinità di Cristo nel mezzo del mercato di Gerusalemme. Per non parlare della protezione tutta speciale dell’Immacolata Vergine Maria sulla Santa Chiesa Cattolica Romana che la ha arricchita di grazie, apparizioni e rivelazioni per la salvezza delle nazioni, di popoli e di città. Tutto ciò è del tutto assente nelle Chiese orientali, le quali sono sempre state caratterizzate da un intrinseca contrazione etnico-linguistica, ripiegate su se stesse in una fede esclusiva e non inclusiva, dunque, non cattolica. L’unica forma di vita religiosa consacrata che si conosce in Oriente è una forma spuria di monachesimo, a volte malamente ricondotta a San Basilio Magno ma che nella maggior parte dei casi fa capo a tradizioni eterodosse caratterizzate da una mistica fideista e iconolatrica. Inoltre, da un punto di vista meramente storico, il vero erede della regola monastica cenobitica di San Basilio fu proprio San Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo occidentale e della civiltà cristiana europea.
Rifiutandosi di servire al Papa, i patriarchi di Costantinopoli preferirono asservirsi all’Imperatore prima e ai Turchi poi, mentre in Russia la Chiesa non fu altro che uno instrumentum regni nelle mani degli assolutisti zar i quali se ne servirono a proprio vantaggio.
Altro elemento caratteristico dell’eresia greco-ortodossa è la radicale impossibilità di uno sviluppo artistico e culturale. Non esiste cioè nelle Chiese orientali alcuno studio o forma di produzione frutto della pietà o dell’ingegno dei fedeli. Coerentemente con la teologia negativa, cioè apofatica, di cui l’ortodossia è impregnata, l’unica forma d’arte ammessa è l’iconografia di origine bizantina. Non esistono altre forme di arte pittorica o scultorea poiché l’immagine di Dio viene inscritta e, appunto, “fissata” in una serie di archetipi inviolabili che quasi “contengono” la divinità.
Allo stesso modo la musica non è mai stata sviluppata in alcun modo come invece è avvenuto con risultati davvero prodigiosi nella polifonia sacra e profana in ambito cattolico. La lista dei compositori sarebbe veramente troppo lunga ma pensiamo soltanto alle opere di chierici e laici come Pergolesi, Gastoldi, Landi, Frescobaldi, Vivaldi, De Victoria, Palestrina, Byrd, Dowland, Zipoli, Cavalieri, san Filippo Neri, sant’Alfonso de Liguori ecc.
Tutto ciò spiega anche l’arretratezza culturale, scientifica e socio-economica dei paesi slavi fino all’avvento della rivoluzione bolscevica. Non si è mai sviluppata, infatti, in ambito ortodosso la scienza sperimentale in senso moderno e questo perché non esistevano, e non potevano esistere, le università e le scholae come avvenne nell’Europa del Sacro Romano Impero.
Da uno studio approfondito si comprende che quella ortodossa è una tradizione morta, archeologica, immobile come il Discobolo di Mirone o il Partenone, ossia un “monumento dell’antichità”. Ciò vale anche per la liturgia la quale, se così intesa, diviene una mera opera museale.
Eppure i libri liturgici, quelli romani come quelli greco-orientali, non sono caduti dal cielo come il Corano maomettano, né si potrà credere che l’Apostolo San Giacomo celebrasse i Sacri Misteri esattamente come li celebrava San Giovanni Damasceno, o l’evangelista san Marco allo stesso modo degli odierni Copti.
La liturgia, o meglio, le “liturgie” approvate hanno tutte in maniera più o meno diretta radici apostoliche ma sono anche andate gradualmente formandosi nel tempo. Ad esempio “il messale [romano] si è formato progressivamente nel corso dei secoli, sempre protetto con cura dalla Chiesa per timore che vi si infiltrasse qualche errore. È il riassunto dell’insegnamento autentico della Chiesa; rivela il vero significato del mistero che si compie nella messa e il senso delle preghiere di cui si serve la Chiesa”[5]. Uno sviluppo santo certamente, discreto, naturale e organico come è la crescita di un albero santo. La Divina Liturgia, l’Opus Dei come la chiama San Benedetto, è infatti il vero Albero della Vita dal quale si coglie il frutto della Grazia per il nutrimento e la santificazione delle anime.
Quello che però erroneamente si crede, è che tra i riti liturgici ancora in uso oggi i riti greco-orientali sarebbero i più antichi e che il rito romano non sia antecedente al medioevo. Ma a tal proposito il padre Fortescue scrive: «Il messale di San Pio V è, per l’essenziale, il sacramentario gregoriano, che si è formato a partire dal sacramentario gelasiano, che proviene esso stesso dalla raccolta (collectio) leonina. Troviamo le preghiere del nostro canone nel De Sacramentis, e vi sono degli elementi del IV secolo. La nostra messa risale, dunque, senza modifiche essenziali, all’epoca in cui essa ha incominciato a svilupparsi a partire dalla più antica liturgia. Essa emana ancora il profumo di questa liturgia; dai tempi in cui Cesare dominava il mondo e pensava di poter schiacciare la fede cristiana; da quei giorni in cui i nostri padri si riunivano prima dell’alba e “cantavano un inno a Cristo come a un Dio”[6]. La conclusione della nostra inchiesta è che, malgrado che qualche punto resta non risolto, e a dispetto di cambiamenti intervenuti in seguito, non c’è nella cristianità un rito così venerabile come il nostro»[7].
Inoltre, la necessità di rafforzare, di sottolineare e di rendere più espliciti alcuni elementi del rito, non solo è legittimo, ma nel corso della storia della Chiesa si è reso indispensabile per combattere le eresie, e mai per il gusto della novità o del rinnovamento fine a se stesso. Quando si parla di “sviluppo organico della liturgia” non si intende rivoluzionare, distruggere o abolire, al contrario si tratta di conservare e perfezionare, e ciò può avvenire mutando anche gli spazi liturgici ossia l’architettura interna/esterna della chiesa, oppure aggiungendo gesti o preghiere come l’Introito, il Confiteor e l’Ultimo Vangelo, o inserendo l’elevazione del Corpo e del Sangue di Cristo per mostrarli al popolo adorante eccitando così la fede nella Presenza Reale.
“Tutte le preghiere che fecero la loro comparsa nella messa romana dopo l’epoca di Gregorio Magno furono quelle che i riformatori [protestanti] rigettarono per prime. Nulla di sorprendente per questo: una delle ragioni che aveva senza dubbio spinto la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, ad accettare queste preghiere, era l’eccezionale chiarezza del loro contenuto dottrinale. Che un rito tenda così ad esprimere sempre più chiaramente ciò che contiene, s’accorda perfettamente con il principio lex orandi, lex credendi”[8].
Di fatto, tutti i riti, i gesti, le parole, i paramenti e i suppellettili che sono stati via via aggiunti nella celebrazione del rito romano, sono funzionali alla tutela dell’integralità ed ortodossia della fede. “«Nessuna delle parti del Messale romano – dice il Catechismo del Concilio di Trento – può essere considerata inutile o superflua»: tutte, fin la più piccola parola, hanno il loro senso e la loro portata”[9]. Non solo, tale arricchimento formale ha come suo fine ultimo circondare di onore e di amore ciò che di più prezioso esiste sulla terra: i Sacramenti. Un caso emblematico è rappresentato da San Francesco d’Assisi il quale, dicono le fonti, amasse molto le cerimonie liturgiche che si svolgevano in Francia a causa del culto eucaristico che colà si andava sviluppando e diffondendo e attraverso il quale si circondava di pietà e di onore il Santissimo Sacramento. Altro esempio di sviluppo (santo) della liturgia è l’uso invalso di inginocchiarsi alla lettura delle parole “et Verbum caro factum est” entrate nella liturgia grazie a San Luigi IX re di Francia il quale per la sua pietà nel contemplare il Mistero dell’Incarnazione volle che tutta la corte e il sacerdote celebrante al pronunciare tali parole si prostrasse. Ecco come cresce la liturgia, con la pietà e la santità.
In realtà questo principio dello sviluppo organico della liturgia è il medesimo che si realizza nello sviluppo teologico-dogmatico e che, come abbiamo visto, è del tutto o quasi assente nelle chiese orientali al pari di quello liturgico. A fissità e sterilità liturgica corrisponde fissità e sterilità teologica e viceversa.
A testimonianza della necessità logica dello sviluppo teologico-dottrinale sta la formulazione del Credo Niceno-costantinopolitano, che lo pone ad un livello di maggior completezza e perfezione rispetto al Credo Apostolico. Il Simbolo di Nicea e Costantinopoli, appunto, è la formula della fede, forgiata dalla pietà e dalla sapienza dei santi, la sua cattolicità è completa e indiscutibile, perciò è così necessario che sia professato fedelmente al pari se non più di quello Apostolico. Questo perché è meno attaccabile dalle eresie e dai travisamenti a causa della forma specifica dei singoli articoli. Non a caso la sapienza e la pedagogia della Chiesa lo ha inserito nell’ordinario della Messa a preferenza dell’altro anche se più antico.
Ma oggi si vorrebbe minimizzare la questione del Filioque come se fosse una futile disputa capziosa, ma dietro a questa unica parola si cela una serie di articoli di fede strettamente tra loro concatenati e interdipendenti che vanno da una retta comprensione della natura della Santissima Trinità e delle relazioni che sussistono fra le Tre Divine “Personae”, e non “Hypostaseis” come le intendono i greci, fino al ruolo espiatorio del Figlio di Dio nel mondo. Ben più complessa, dunque, di una semplice bega partitica tra latini e greci. I termini, infatti, descrivono l’essenza delle cose e, come ricorda J. H. Newman, “il retto uso delle parole è implicito nel retto uso del pensiero”[10]. Se gli ortodossi si esprimono male riguardo alla Santissima Trinità, va da sé che hanno una concezione erronea, anzi eretica, della Santissima Trinità.
In ultima analisi, al fine di non cadere in quell’anomia di cui sopra, risulta necessario riconoscere l’antichità del rito e al contempo il suo sviluppo organico, il che significa, come disse il domenicano padre Roger Calmel, attenersi al rito romano così come ce lo trasmette il messale di San Pio V. “Il fatto che [il rito romano] sia rimasto lo stesso durante tredici secoli è la testimonianza più eloquente della venerazione di cui non smise mai di essere circondato, e degli scrupoli che si sono sempre provati nel mettere le mani su un’eredità così sacra che ci viene dalla notte dei tempi”[11].
In conclusione, possiamo riposare nella tranquilla certezza che l’antichità del rito romano gode della storicità dei documenti, della testimonianza dei padri, nonché della sentenza della volontà Divina che lo canonizza come il rito proprio della Prima Sedes, cioè di Roma.
Roma, il luogo dove la Divina Provvidenza dispose che il Principe e Capo degli Apostoli, e San Paolo l’Apostolo dei gentili, dovessero dare la vita per Cristo. Non andiamo perciò in cerca di esperienze spirituali “nuove” o “diverse” quando il Cielo stesso ci è venuto incontro nella larghezza della Misericordia Divina offrendosi a noi attraverso l’ulivo della Romanitas divenuta Cristianitas. La prima grazia insondabile è l’aver ricevuto il Santo Battesimo ma a questo si aggiunge l’essere nati Cattolici Romani, una grazia particolare di cui forse ci renderemo veramente conto, se ne saremo degni, soltanto nel Paradiso. C’è forse una testimonianza più forte del sangue di Cefa e di San Paolo, le colonne della Chiesa Cattolica, che ci impedisca di abbracciare con filiale e riconoscente devozione ed amore il venerabilissimo rito romano giunto a noi quasi di mano in mano per la Gloria di Dio e la salvezza delle anime nostre?
La liturgia romana, dice padre Faber, “è ciò che vi è di più bello in questo mondo. Essa è il prodotto del genio della Chiesa; ci trasporta fuori di noi stessi, ci eleva lontano da questa terra e, avvolgendoci in una nube di dolcezza mistica, ci trasporta nel mondo sublime di una liturgia che sorpassa quella degli angeli; purificandoci malgrado noi stessi, ci tiene sotto il fascino di un incanto celeste, così bene che i nostri stessi sensi sembrano vedere, intendere, sentire, gustare, toccare al di là di ciò che la terra è in grado di darci”[12].
Bene. A questo punto sarebbe interessante e proficuo avere un dibattito tra dotti della Chiesa Greco-Ortodossa e della Santa Romana Chiesa.
Infatti. C’è un sito molto interessante, che non consulto da molto ma di cui ricordo bene le posizioni, Traditio Liturgica, che esprime idee antitetiche a quelle espresse in questo articolo. La Scolastica dava molta importanza al dibattito, con le quaestiones e le disputationes. Una disputa, nella carità e nel rispetto, tra posizioni opposte sarebbe molto proficua, specie per noi poveri fedeli disorientati.
Supponendo che l’autore dell’articolo, abbia conoscenza della didachè, della Tradizione, del Denzinger, della Storia della Liturgia and co, mi chiedo:” come mai dal secondo secolo D.C. la liturgia prima pronunciata in greco koinè e poi, a partire da una volontà africana che fece arabbiare alcuni nobili romani, venne tradotta in latino? Come mai, il venerabile rito Ambrosiano, ormai più antico di quello Romano riformato da Pacelli e sodali, presenta paramenti comuni con gli orientali? Come mai le immaginette di santi come Nicola di Myra e affini, vengono cattolicamente rappresentati con paramenti liturgici orientali? Come mai San Paolo, parla di preti scelti anche tra uomini uxorati? Come mai La Divina Liturgia di San Giacomo (cattolica- ricordiamoci che i cosiddetti ortodossi erano e sono cattolici, come ben potrete notare nelle chiese del IV e VI secolo presenti a Ravenna) ha i tratti comuni con la Liturgia narrata nella didachè e nel Vangelo? Come mai anche nella Divina Liturgia vengono utilizzate le medesime parole consacratorie del Vangelo e del rito Ambrosiano e Romano? Come mai gli antichi canti del Iv secolo ambrosiani e romani sono simili a quelli orientali? Come mai i pontificali ambrosiani e romani (questi utlimi prima delle riforme di san pio X and co) presentavano durate e paramenti simili a quelli orientali? Come mai la Comunione veniva data sotto le due specie? Come mai i segni di Croce come cita De sacro Altaris Mysterio di Innocenzo III presentano segni di croce identici a quelli orientali? E potrei continuare fino all’infinito, in attesa di una risposta convincente
inoltre la cosa vera e giusta è che i riti romano, ambrosiano, di san basilio, di san giovanni crisostomo, di san giacomo, mozarabici, sono forme “leggermente” diverse del medesimo Rito. Ricordiamoci che il Santo Sacrificio durò 3 ore perché sia il seder di Pesah sia la Crocifissione durarono 3 ore ( il seder shel Pesah dura ancora 3 ore). Padre Pio e molti Santi CELEBRAVANO PER 3 ORE DI FILA, non per dei miseri 40 minuti scelti e decisi da vattelapesca o per una misera oretta la domenica. AMDG! L’angelo che apparve ai pastorelli disse una frase ancora presente nella Divina Liturgia e mancante nelle riformette dei Messali in uso fino a Pacelli e Roncalli e nella preghiera della coroncina alla Divina Misericordia (per chi ci crede e la recita, è presente l’inno Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis et totius mundi, ancora presente in greco nella Theia Liturghia (Aghios o Theos, Aghios Ischiros, Aghios Athanathos eleison imas). Quindi nella Theia Liturghia, si trovano elementi presenti anche nelle preghiere riconosciute (per chi lo ritiene) dalla Chiesa Cattolica di sempre. Un saluto
Carissimo Simone Petrus Basileus,
cercherò di risponderti brevemente ed, ahimé, brutalmente perché è pressocché impossibile ridurre in poche righe uno studio così ricco e denso che già mi ha richiesto una estrema sintesi e cesura.
Ma ci provo dandoti soltanto un principio generale che serve per snocciolarne poi le naturali conseguenze.
La liturgia è stata fin dall’evo apostolico “contenuta” nella Tradizione orale e nella prassi del culto e soltanto successivamente messa per iscritto (come la Sacra Scrittura d’altra parte). L’errore che si commette con la Bibbia isolandola dalla Tradizione orale, avviene ugualmente nella Liturgia, riferendosi esclusivamente ai testi scritti. Ma non è questo il criterio giusto per leggere la storia della Liturgia al pari della Bibbia, si rischierebbe di farne una “Sola Scriptura liturgica”. Il criterio invece risiede nella prassi e nella tradizione orale.
La differenza sostanziale che in questo senso ha influito sullo studio della liturgia è il fatto che in Oriente e in Egitto (Bisanzio/Alessandria) i testi liturgici sono stati messi per iscritto prima di Roma. Ma la liturgia greco/bizantina non si è materializzata dal nulla con San Basilio e San Giovanni Crisostomo, soltanto è che con loro che viene messa per iscritto in maniera totale e sistematica e quindi già “codificata”. E per loro non abbiamo testimonianze anteriori a quell’era, ossia anteriori alla loro stesura scritta (IV secolo).
A Roma, invece, questa trasposizione dall’orale allo scritto è avvenuta successivamente e, con sicurezza, soltanto con San Gregorio Magno. Questo, come ho cercato di dimostrare con l’ausilio di eminenti studiosi di liturgia, tra i quali non ho potuto inserire anche dom Prosper Gueranger a causa della lunghezza dell’articolo che si sarebbe dilatata ulteriormente, non significa che la liturgia romana risale a San Gregorio Magno ossia al VI secolo, giacché è lo stesso San Gregorio che ci ha trasmesso testi (anche se incompleti) precedenti parlandoci della tradizione a lui precedente. Con San Gregorio abbiamo il primo messale romano “conchiuso” ma, ripeto, non inizia lì la liturgia romana, bensì molto prima, e ne abbiamo notizia e testimonianze molteplici nei padri e negli scritti dei Papi dei primi secoli. Inoltre, lo scopo dell’articolo che ho scritto, era quello di dimostrare, seppur in maniera del tutto inadeguata, l’antichità del rito romano molto spesso considerato la “sorella minore” dei riti orientali: non è così. Ma anche cercare di spiegare un pochino l’essenza della liturgia che non è la pietrificazione statica e sterile del rito, ma una crescita progressiva, naturale e santa.
Ma a questo punto riscriverei di nuovo il medesimo articolo perciò mi fermo qui.
Ma la bibliografia in questo campo è vasta. Mi permetto di consigliare principalmente “Gueranger”, “Schuster”, “Cabrol” e gli scritti di Sant’Agostino in merito, il quale è piuttosto disprezzato dai cosiddetti “ortodossi”.
Cordialmente
Isacco Tacconi
Come ho visto scritto su FB, Latini sì, latino-centrici no.
Ringrazio Isacco Tassoni per la cordiale risposta e son d’accordo con quanto ha scritto nel rispondere al mio commento tranne su due punti: 1 l’essenza della liturgia che non è la pietrificazione statica e sterile del rito, ma una crescita progressiva, naturale e santa. La Theia Liturghia non è statica né sterile, e anch’essa ha subito lievi variazioni nel corso dei secoli, sia in campo artistico-iconografico, sia in campo liturgico e musicale.
Inoltre una crescita progressiva, naturale e santa, può portare come ha portato nei secoli, al concilio vaticano II
2 l’antichità del rito romano molto spesso considerato la “sorella minore” dei riti orientali: non è così. VERO, ma cambierei il tempo verbale, ossia non era così, in quanto come ho scritto nel soprastante commento, i riti occidentali e orientali, sono diverse forme o espressioni del medesimo Unico Rito della Chiesa Cattolica.
la definiscono sorella minore, semplicemente perché è stato abbreviato nel tempo quasi a dire che abbreviarlo è un risalire alle fonti, cosa sbagliatissima.
Probabilemente tra qualche giorno riceverete risposte da un prete “ortodosso”
In Cristo Re
Simone Petrus Basileus I.G.
Attenzione anche al discorso sullo “sviluppo” per crescita organica: anche questo ha il suo termine. Una pianta richiede il suo tempo per giungere al suo pieno sviluppo: raggiunto il quale essa sta in tutto il suo magnifico rigoglio per la gioia di chi la contempla: bisognosa tutt’al più di qualche potatura per eliminarvi le intervenute piccole superfetazioni…. Come fece San Pio V con la sua ‘riforma’ , grazie alla quale il Messale fu restituito “ alla sua antica forma secondo la norma e il rito dei Santi Padri”
e che lo stesso Santo Pontefice volle, per volontà divina, definitiva e tale da essere mantenuta inalterata per i secoli a venire.
“…stabiliamo e comandiamo, sotto pena della nostra indignazione che a questo Nostro Messale, recentemente pubblicato nulla mai possa venire aggiunto, detratto, cambiato…
“Affinché poi questo Messale sia ovunque in tutta la terra preservato incorrotto e intatto da mende ed errori, ingiungiamo a tutti gli stampatori di non osare o presumere di stamparlo, metterlo in vendita o riceverlo in deposito, senza la Nostra autorizzazione o la speciale licenza del Commissario Apostolico, che Noi nomineremo espressamente nei diversi luoghi a questo scopo….
“Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto dichiarazione, volonta, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo.”
–L’introduzione del nuovo Rito , dove l’ ‘”audacia “ dei Novatori si è spinta fino allo snaturamento dell’ Antico Rito, tale da renderlo completamento “mutato” rispetto alla “norma” dei “Santi Padri”… non è la prova provata che in esso si esprime e si rivela una religione che non è più – essa stessa – quella dei nostri “Santi Padri”???
Sinceramente più che un’argomentazione razionale in certi punti sa più da panegirico
Inoltre rilevo un po’di inesattezze:
_Non è vero che la liturgia orientale si è fossilizzata dopo lo scisma: per quella bizantina il suo sviluppo cessa più o meno all’inizio del XIV secolo e comunque continueranno ad esserci piccoli cambiamenti.
La liturgia siriaca è una sintesi tra elementi nuovi su schemi più antichi
La liturgia etiopica si fissera intorno al 1500 modificando delle parti per meglio adattarle agli approfondimenti delle nozioni di presenza reale etc
_ok il canone è antichissimo, antecedente a Nicea per molte parti: ma la sua struttura è altamente problematica da spiegare e lo stesso si può dire per la sua evoluzione. Inoltre il canone di ambrogio, che è parziale, in certi punti diverge dal testo di Gregorio Magno
E poi rimane il problema delle antiche anafore prive del racconto della Cena