di Isacco Tacconi
Apro gli occhi, indeciso se alzarmi o restare in quel calore opprimente del letto dopo una notte insonne: mi alzo. Prendo gli scarponi, mi butto sulle spalle il cappotto e infilo la via del mattino.
Un dormiente silenzio avvolge il paese al primo albeggiare quando ancora le lingue di fuoco son celate dietro il bianco orizzonte lontano. Ed ecco che la vedo, ergersi come una fortezza silenziosa, il rosone ben cesellato, le schiere di santi che mi fissano vuoti come la mia anima che attraversa un paese semidistrutto. Sentinelle a guardia del Tempio dedicato a Nostra Signora della Mercede.
Ho detto, confesserò al Signore le mie colpe. Un peso grava sul mio cuore, un fardello insopportabile, mi tormenta. Il male che ho commesso mi sta sempre dinanzi, e da quel piacere, da quella illusione non ho tratto altro che inganno e morte. La porta è aperta. Spingo il maniglione di ferro battuto e scricchiola in punta di piedi il pesante uscio di legno, come se non volesse svegliare il Divin Prigioniero. Eppure non dorme il Custode.
Se consideri le colpe Signore, Signore chi potrà sussistere? Un brivido nell’attraversare gli atrii del mio Signore. Mio Signore? Come posso pensare che Egli ancora mi voglia dopo ciò che ho fatto. Come oso annoverarmi tra i suoi familiari: verme e non uomo. Dal vento pungente del mattino transito ad un caldo tepore che pervade l’interno della Chiesa al riparo dal freddo, tenebroso gelo del mondo. Una candela arde in lontananza, una flebile luce illumina lungo la navata sinistra una statua lignea della Regina del Cielo dai piedi in su. La Chiesa è piena e vuota, il rumore del silenzio è totale.
Sull’orlo della disperazione mi presento pieno di vergogna dinanzi alla Donna. Stabat Mater! Si stagliava ferma come la sua fede, la Madre. Anche adesso, in quest’ora in cui buio si è fatto su tutta la mia anima, Lei, permane stabile. Stabat Mater! Ad un tratto, con la coda dell’occhio percepisco un movimento alla mia sinistra, sgrano gli occhi nella semioscurità per vedere chi. Una figura ricurva, di nero vestita, una barba lunga e senile tiene delle chiavi trascinando i suoi vecchi piedi. Mi avvicino con timoroso desiderio: se mi riceverà, penso, sarò guarito.
«Perdonatemi, padre», il suo sguardo profondo e tenero mi indica il confessionale e mi precede lentamente e sicuramente. La stola viola è già al suo interno. Nell’attraversare la metà della navata centrale si volta verso l’abside e in direzione del Crocifisso al di sopra del Prigioniero d’amore, genuflette. Sembra quasi spezzarsi nel fare quel gesto abituale come il respirare, segno di chi ha camminato tutti i giorni di sua vita alla presenza dell’Altissimo. Genuflette faticosamente eppure la sua maestà mi abbaglia, non posso far a meno di ammirarlo con vergogna.
Ma più faticoso è piegare le ginocchia del mio cuore, lo sforzo è grande ma il dolore è più forte. Cor contritum et humiliatum Deus non despicies. Un tribunale è stato convocato, un giudizio e una sentenza. Chi oserà presentarsi impunito dinanzi al giudice senza aver saldato prima i suoi debiti? Miserere mei secundum magnam misericordiam tuam.
Un gesto, la mano alla fronte per il Padre e all’insegna della Santissima Trinità dischiudo il mio cuore, come si riapre una piaga purulenta dinanzi al chirurgo per permettergli di pulirla e sanarla. Bonitas Tua me stringit Caritas. Sospiro nel giorno della giustizia: O Dulcis, o Pie, o Iesu filii Mariae. Miserere mei. Il sudore freddo discende per la schiena, la voce trema, la vergogna rinfaccia il peccato. Sul rischio del mutismo diabolico intervien la grazia che infonde coraggio e speranza con le parole del Serafico padre: “Chi si accusa sarà scusato, e chi si scusa sarà accusato”. Vinci il timore anima mia, Quare tristis es anima mea et quare conturbas me?
Ma a dissipar i tormenti di coscienza bastò una voce paterna, discreta, amorevole. Dietro quella grata, come una fessura nella roccia, proviene una parola di vita, come il mormorio di un vento leggero. Non lasciarti opprimere dai tuoi peccati, e non trattarti con durezza sintomo di amor proprio non mortificato. «Le osservazioni – disse – di un papà, fatte con mitezza e cordialità, hanno molta più efficacia per correggere il figlio, della collera e delle sfuriate». Abbasso la testa, e a stento trattengo le lacrime, che tra i singhiozzi zampillano copiose. «La stessa cosa avviene quando il nostro cuore è caduto in qualche colpa» proseguì con delicata sollecitudine dicendo «Io procederei così – un breve sospiro – Coraggio, mio povero cuore, eccoci caduti nella trappola da cui avevamo promesso di stare lontano. Rialziamoci e liberiamocene per sempre. Invochiamo la misericordia di Dio e speriamo in essa. D’ora in poi ci aiuterà per renderci più decisi. Rimettiamoci in cammino con umiltà. Coraggio, d’ora in poi stiamo in guardia, Dio ci darà la forza e ce la faremo».
Non riesco ad alzare gli occhi al Cielo, il cuore è stretto in un abbraccio d’amore celeste che non vuole lasciarmi. Contristatam et dolentem pertransivit gladius. Ecco tua Madre, piangente per i miei peccati che hanno ucciso il Figlio adorato. Io pure li piango per aver trafitto quel Cuore Immacolato, lo sguardo di pietà, gli occhi compassionevoli, e intorno una congregazione di angeli leva al cielo il conforto dei peccatori penitenti. Patiens et multae misericordiae il nostro Dio. Hai voluto penar per me, dal presepio alla Croce passando per il cortile del Tempio e il pretorio dei pagani. Insulti, maledizioni, sputi, flagelli e canzoni su di Te, Bontà Infinita. L’Inferno merito e tu mi offri il Paradiso, punizione e tu mi mostri il tuo perdono. Sventurato colui che non si umilia davanti a Te durante questa breve vita, perché allora lo sarà per l’eternità.
«C’è altro figliolo?», non so rispondere. Gli occhi sono vitrei di lacrimosa pioggia, se penso a me e vedo l’abisso posso soltanto sospirare: “In iniquitatibus conceptus sum et in peccatis concepit me mater mea”, per quel patente mistero per cui attraverso la generazione della vita la morte si trasmette. La vita naturale a nulla giova se non è sollevata dalla grazia, poiché la Tua misericordia vale più della vita.
Mio è solo il peccato, Tuoi il bene e la grazia. Dio, Dio mio, salvami, Dal profondo a Te grido, cancella le mie colpe, conosco essere molte e gravi, non posso vivere senza la tua grazia. Meglio non essere mai nato se non devo aver parte con Te in eterno. Patire e amare, abbracciando la vostra Croce dal quale regni, Dio.
Nell’ascoltare quelle divine parole uscire dalla bocca di quel vecchio ministro, ascolto Te o Signore. Lo credo perché Voi lo avete detto. Ego te absolvo. Ti sciolgo dai vincoli del demonio, dai lacci della morte, dalle catene dell’abisso. Il Sangue divino versato come olio sulla mia anima, lavata nel Sangue dell’Agnello, e quel gesto invisibile dall’altra parte della grata, quel segno di croce insignificante all’uomo carnale, muove la mano dell’Altissimo che su di me imprime come sigillo infuocato il segno degli eletti. Unto sull’architrave dell’anima con il Sangue della Vittima che ci scamperà dall’angelo sterminatore nel giorno dell’Ira. Cuius latus perforatum unda fluxit sanguine.
«Va’ in pace», mi alzo dall’inginocchiatoio tarlato del confessionale: è già giorno. Il gallo ha cantato e il sole attraversa, come lo Spirito Santo l’incorrotta verginità di Maria, le vetrate di mille colori del rosone ben cesellato. I riflessi dal cielo illuminano la terra, ma prima di poter baciare quella mano pietosa, fattasi strumento della Misericordia e della Giustizia di Dio, vedo quel povero vecchio ministro rinfilare la porta da cui l’avevo visto uscire poche ore prima. Un angelo silenzioso, un’ombra su questa terra, una fiaccola nell’eternità. Homo fugit velut umbra.
Sembrava essere passata una vita perché davanti a Lui un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno solo. Solo nel Signore è misericordia, e redenzione copiosa presso di Lui. O uomo, da chi andrai quando avrai consumato gli anni tuoi? Contati come i capelli del tuo capo sono i tuoi giorni.
Solo Tu, o Signore, hai parole di vita eterna. Gesù mio, Amore mio, mio Signore e mio Dio, Dio mio e mio tutto.
Meraviglioso.