Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo “Il ’68, ovvero la ‘contestazione'”, tratto dal periodico cattolico Instaurare omnia in Christo, anno XXXVIII, n. 1, gennaio-febbraio 2009

 

di Danilo Castellano

 

1. Il ‘68 è l’epifania della radicalizzazione della «modernità» (intesa in senso assiologico), ovvero del soggettivismo che, gradualmente e in forme diverse, si è affermato soprattutto negli ultimi secoli in tutti i settori della vita umana. Il ‘68 segna il punto di non oltrepassamento della Weltanschauung soggettivistico-razionalistica: soggettivistica, perché rappresenta l’esaltazione estrema dell’individualismo; razionalistica, perché rappresenta il tentativo di sovrapporre all’ordine della realtà l’ordine/non ordine della volontà del soggetto. La «Contestazione», perciò, «è stata l’ultima rivoluzione, sul piano del pensiero, alla quale fosse concesso di affermarsi senza contemporaneamente autonegarsi», in quanto essa ha assunto a proprio fondamento la totale negatività. Essa, in altre parole, ha tentato di affermarsi ponendo come «positivo» il «negativo» ossia è stata l’epifania del nulla, di una vaga «forza» vitalistica che, affermandosi, ha posto le premesse del nihilismo contemporaneo.

2. Si può dire che l’essenza del ‘68 […] sta nel vitalismo, vale a dire nel recupero della filosofia orientale che, non sapendo spiegare la vita, faceva (e fa) della vita stessa e di talune sue manifestazioni (soprattutto sessuali) l’origine e il fine di tutte le «cose». È significativo, infatti, che la «Bibbia», ovvero il libro sacro, della «Contestazione» sia stata un’opera di Wilhelm Reich. Non, dunque, Marx e Marcuse (anche se questi autori hanno avuto un ruolo e un ruolo importante come la Scuola di Francoforte) ma Reich con la sua opera Rivoluzione sessuale è stato l’ispiratore del movimento che ha generato l’«evento» del ‘68 e che va penetrato per comprendere la nuova mentalità, i nuovi costumi, le mode di pensiero e di vita che si sono imposte in questi ultimi decenni. Intendiamoci: vanno precisate due «cose». La prima che Reich è ispiratore nel senso che ha fornito un testo che interpreta e riassume una Weltanschauung allora (come oggi) assai diffusa; di origine gnostica. Non è stato, in altre parole, l’autore che ha dato vita a un movimento ma è colui che l’ha aiutato nel suo sviluppo e nella sua diffusione a livello di massa. La seconda che le teorie di Marx e di Marcuse erano strumenti utilissimi per l’affermazione del vitalismo. Non erano, però, la via maestra per la sua assoluta affermazione. Anzi, sotto certi aspetti, potevano rappresentare un ostacolo al pieno dispiegarsi del vitalismo in quanto, sia pure in modi diversi e assumendo il principio in forma sbagliata, esse conservavano ancora il «principio di realtà» (il primato dell’economico per Marx e dell’individuo per Marcuse) che il vitalismo travolge per affermare (coerentemente anche se assurdamente) il totalmente negativo.

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Il vitalismo della «Contestazione» è stato preparato, piuttosto, dalla dottrina liberale che, come scrive il liberale Hobhouse, «è un elemento che permea tutte le manifestazioni e le strutture del mondo moderno». Il Liberalismo, infatti, è stato ed è «un movimento che il suo nome definisce perfettamente: cioè, un movimento di liberazione, una rimozione di ostacoli e di aperture di canali per il flusso di attività libere, spontanee, vitali». Non a caso Reich nella Prefazione alla quarta edizione del suo libro citato (1949) scrive che, nonostante le tendenze reazionarie esistenti negli Stati Uniti, in America come in nessun altro posto è possibile battersi per la felicità e i diritti della vita, ove «felicità» è da intendersi come felicità sessuale e «i diritti della vita» come diritti del vitalismo. Reich, dunque, colse lo stretto legame intercorrente fra Liberalismo e vitalismo e, perciò, vide negli Stati Uniti d’America il luogo migliore per la sua dottrina.

3. La prima conseguenza del vitalismo è la dissoluzione del soggetto, identificato con un fascio di pulsioni (non controllabili e da non controllare) che «irrompono» nella vita e come vita e che, pertanto, vanno lasciate dispiegarsi secondo il modo corrente di intendere l’autenticità (per il quale ha giuocato un ruolo importante Heidegger). È, così, rovesciata l’impostazione aristotelica secondo la quale il soggetto, in quanto dotato di razionalità (intesa in maniera classica), è signore (ancorché non sovrano) dei propri atti e, quindi, di se stesso. Il soggetto, al contrario, per il vitalismo si servirebbe della razionalità (modernamente intesa, cioè come capacità di calcolo e di operazioni) per «liberare» istinti e passioni. Per comprendere il rovesciamento operato dal vitalismo basterebbe osservare che c’è un prima e un dopo la «Contestazione», per esempio, a livello di moda nel vestire: prima il vestito serviva alla modestia e al decoro; dopo esso serve all’esaltazione del corpo, alla sua «liberazione» e, spesso, diventa arte per sollecitare e promuovere istinti animaleschi dell’essere umano.

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4. La seconda conseguenza del vitalismo è il coerente (ancorché assurdo) rifiuto di ogni ordine dato. Il suo negativismo totale investe non solamente la civiltà e i valori ma la realtà stessa. È la conclusione irrazionalistica del razionalismo che, come si sa, rivendica il diritto di onnipotenza: la realtà è solamente quella da esso creata, costruita. Per questo non ci sono «dati» metafisici di cui prendere atto, come non ci sono regole morali: l’etica diventa mero costume (sempre provvisorio in quanto costume e mai fondato, giustificato). Persino i Dieci Comandamenti sono stati considerati (e da docenti in Seminari diocesani!) paracarri, vale a dire limiti inaccettabili, della libertà e, comunque, regole convenzionali di convivenza non esistendo – è stato erroneamente scritto agli inizi degli anni ‘70 – «morale individuale nel Decalogo [… ma] solo una morale di rapporto con gli altri». Non esistono né giustizia (questa è, al più, creata dagli ordinamenti giuridici, prodotto della Teoria generale del diritto) né verità (questa è il risultato della relazionalità intersoggettiva, vale a dire un evento storico continuamente cangiante in quanto prodotto dal gruppo identitario e dai gruppi identitari).

Quello, però, che il vitalismo coerentemente sostiene è che né verità, né morale, né giustizia devono esistere: l’ordine naturale della realtà e dei fini rappresenterebbe, infatti, un «limite» al vitalismo medesimo. In altre parole, la realtà sarebbe repressiva della volontà, come la giustizia segnerebbe un limite alla libertà, intesa come «libertà negativa» ovvero come potere di autodeterminazione assoluta della volontà. Basterà un solo esempio per comprendere come il vitalismo della «Contestazione» abbia fortemente influenzato l’orientamento della vita individuale e sociale degli anni posteriori al ‘68. Sul problema politico è necessario tornare perché esso rivela la più recente evoluzione del nihilismo.

Limitiamoci ora alla «questione famiglia». È chiaro che il vitalismo deve considerarla, al pari dello Stato, istituto repressivo per eccellenza. La famiglia, infatti, è inseparabile dall’ordine dei fini di cui la realtà naturale è portatrice. Essa, cioè, rivelando un ordine metaempirico e metasociologico, non può consentire il dispiegarsi del vitalismo che richiede come condicio sine qua non della sua esistenza l’autenticità come spontaneità non mediata dalla razionalità. Per il vitalismo non è accettabile una donazione personale, totale e reciproca. La donazione, infatti, impegna al rispetto della medesima, «vincola» e i vincoli, per il vitalismo, sono segni di schiavitù, non di libertà. Pertanto il vitalismo non può accettare né il matrimonio monogamico né il matrimonio indissolubile. Non è un caso se, in Italia, negli stessi anni della «Contestazione» fu introdotto l’istituto del divorzio (Legge n. 898/1970), confermato poi dal referendum del 1974. Non è stato un caso nemmeno la riforma del diritto di famiglia (Legge n. 151/1975) che lo seguì e che segnò una «svolta» per quel che attiene alla «concezione» e del matrimonio e della famiglia, anche se non esplicò immediatamente tutti gli effetti dirompenti che essa virtualmente contiene.

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La Legge n. 151/1975 segnò una «svolta» significativa anche per quel che attiene alla «politica» della famiglia. Basti pensare che solamente trent’anni prima Pio XII, negli anni ‘46-’47 cioè al tempo della Costituente, chiese con insistenza (quanto inutilmente) che l’ordinamento giuridico italiano riconoscesse solennemente l’unità della famiglia e l’indissolubilità del matrimonio e non procedesse alla equiparazione legale dei figli illegittimi con i figli legittimi. A distanza di soli trent’anni questi sono, invece, argomenti portati anche dai parlamentari eletti con i voti dei cattolici per la riforma, la quale s’ispira alla medesima ideologia edonistica del divorzio che, sotto taluni aspetti, la Legge n. 151/1975 conferma ed irrobustisce.

Per il vitalismo non è accettabile, poi, che il matrimonio abbia in sé finalità naturali che i coniugi, sposandosi, non possono non accettare (altrimenti non contrarrebbero matrimonio). Il matrimonio per il vitalismo, ha i fini che ognuno momentaneamente gli attribuisce. Anche il cosiddetto «matrimonio» omosessuale, legalizzato ormai in diversi Paesi, troverebbe legittimazione poiché questa dipenderebbe dalla sola volontà delle parti. Tutto e nulla sarebbe, pertanto, legittimo. E ciò dimostra il nihilismo del nostro tempo. C’è di più. Il vitalismo richiede (coerentemente) la destabilizzazione di ogni istituzione. Anche la famiglia dovrebbe subire (e ha subito) questo destino. Essa, infatti, non è compatibile con la cultura sessantottina. Non è un caso se a rallegrarsi della vittoria dei divorzisti in Italia, nel 1974, fu una parte notevole del clero e non è un caso se lo stesso oggi sostiene che l’indissolubilità vale non per il matrimonio ma per la coppia. Questa, però, non è quella giuridicamente riconosciuta e stabilita tale una volta per tutte con l’atto della celebrazione del matrimonio ma quella che è giudicata tale effettivamente perché «vive» hic et nunc d’amorosi sensi, cioè di quella spontaneità ed autenticità di cui sopra si è parlato.

5. Si comprende, inoltre, come il vitalismo del ‘68 rappresenti la condizione per la dissoluzione della morale. La rivendicata autenticità (o spontaneità impulsiva) come condizione normale e irrinunciabile dell’individuo, comporta anche la dissoluzione della morale. Questa ha bisogno, innanzitutto, di un soggetto capace di atti responsabili, non di atti semplicemente «autentici». Anche gli animali, infatti, sono capaci di atti e, a loro modo, di atti «autentici», ma mai di atti responsabili. Non è, quindi, la liberazione dell’istinto ma la sua disciplina (innanzitutto interiore) condizione del bene che, a sua volta, è regola della libertà.

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6. Il vitalismo della «Contestazione» ha dispiegato i suoi effetti anche nel settore teologico [sia nel campo delle Teologia morale (si ricordi, per esempio, a questo proposito la presa di posizione di Cornelio Fabro con il suo libro L’avventura della teologia progressista)] sia nel campo della Teologia dogmatica (con la Teologia della liberazione, per esempio, si arrivò – lo affermò la Congregazione per la dottrina della fede nel 1984 – ad assumere acriticamente gli elementi della ideologia marxista e a un’ermeneutica biblica viziata dal razionalismo)]. […] L’autoredenzione dell’uomo starebbe nella sua «liberazione». Sarebbe la libertà che rende liberi, non la verità, come invece insegna il Vangelo (cfr. Gv., 8, 32); una libertà vitalistica, appunto, che rende l’uomo schiavo delle sue pulsioni e delle sue passioni e che, pertanto, – come si è ricordato – dissolve il soggetto nel suo farsi: il soggetto non è la condizione del divenire ma lo stesso divenire. Quando la libertà pretende di essere regola della libertà, come sostiene la dottrina liberale, si instaura la barbarie, vale a dire una condizione di vita disumana a livello sociale ma prima ancora a livello individuale. È quanto sta accadendo a causa dell’accoglimento teorico e pratico del vitalismo, oggi assurdamente celebrato e che nel ‘68 ha vissuto una delle sue massime manifestazioni.