«Ciò che non è persona in fondo non è nulla»
(Nicolás Gómez Dávila)
di Luca Fumagalli
Un piccolo libro, quello di Sciffo, modesto e asciutto come chi ama andare alla carne del problema senza curarsi di fronzoli e orpelli. Un’agenda personale, il taccuino di un insegnante e scrittore cattolico che dall’alto del suo amore per le lettere e della sua esperienza in classe prova a tracciare il bilancio di un secolo in cui l’arte pare aver smarrito lo scopo che le è proprio: interrogare l’uomo sulla verità ultima del suo destino. Presi da solipsismi inconcludenti e da manie postmoderne, i grandi nomi della letteratura occidentale, quelli pubblicizzati e promossi dal consumismo massificante, il più delle volte sono ciechi che guidano altri ciechi, oppure, come recita il titolo del saggio del professore monzese, alberi capovolti, poderose piante secolari «rovesciate da un tempesta afosa e lasciate nella desolazione di un mattino senza nubi, con le radici fuori dal terreno, sconvolte, braccia protese nell’aria avvelenata».
L’Heimatlösigkeit di Nietzsche, la perdita dell’intima radice paterno-materna, è la cifra comune che caratterizza i tanti apolidi dell’esistenza i cui romanzi affollano gli scaffali delle librerie e che appestano di inutili fantasmi la mente del lettore, eterodiretto all’acquisto dal sottile ricatto morale dell’etichetta “provinciale”. Ma l’avanguardista, prima che agli altri, mente a se stesso. Emblema dello sradicamento, assertore di quella civiltà della velocità e degli spostamenti trafficati, le pagine dei suoi libri sono la stanca cronaca di un viaggio insensato, senza scopo apparente, intrapreso solo per il gusto di muoversi, di mettere un piede davanti all’altro. Della meta, quell’orizzonte che la letteratura dovrebbe indicare o almeno suggerire, non vi è alcuna traccia.
Ma è anche per colpa della stanche e stereotipate scelte delle letture scolastiche se in Italia, come recitano le statistiche, non si legge quasi più. Aleksandr Solgenicyn parlava di un esaurimento della cultura, come se le fonti di una civiltà si fossero progressivamente inaridite; una conseguenza dell’ateismo pratico, della gnosi che ammanta di indifferenza i problemi primi e ultimi della vita. In altre parole, si è perso il libro buono, quello che genera gratitudine e riconoscenza, apertura alla realtà.
«Non è un male l’attuale disaffezione alla lettura perché essa dice che il fenomeno offre un’occasione decisiva: prepara lo spazio per una cultura diversa da quella del disagio esistenziale delle classi colte, cioè la cultura dell’illuminismo». Con queste parole prende avvio il verso de L’albero capovolto, una sorta di secondo tempo del testo che spalanca le porte, per così dire, alla pars construens, a tutti quei grandi autori che, nel solco della tradizione, ancora oggi offrono brillante testimonianza di un’umanità messa in gioco a partire dalle fondamenta stesse del vivere.
Nonostante i cattivi maestri e gli impostori è dunque possibile tracciare un’ideale antologia del “contro-Novecento”, una galleria di scrittori del radicamento che costituiscono l’ultima speranza, l’antidoto prezioso per sfuggire al nichilismo imperante. Péguy e l’eroismo del padre di famiglia, Louis De Wohl con i suoi personaggi costantemente chiamati al confronto con la storia e con la propria anima, il Bradbury di Fahrenheit 451 che condanna la barbarie dell’ostentata ignoranza, Flannery O’Connor e l’amore per l’imperfezione, la verità che vince la violenza in Eugenio Corti, la sofferta testimonianza di Rigoni Stern e Tolkien con la sua fiducia contagiosa sono solo alcune faville positive, uomini che, oltre le sofferenze e le difficoltà, hanno saputo amare la vita con cuore sincero, consolati – come solo un buon libro può fare – da una speranza che travalica il tempo e la storia.
«Nel tessuto intimo di qualunque opera letteraria c’è, umida e feconda come un muschio, la nostalgia di un luogo felice»: la frase, riportata nelle pagine conclusive del saggio, rimanda a quel bosco che cresce all’ombra delle macerie moderne. Fortunatamente il Novecento è finito e ora, pagato il tributo agli idoli crudeli di una civiltà sterile, c’è sufficiente spazio per tornare finalmente a mettere radici in un habitat dove davvero si possa vivere e non solo vegetare, dove si possa nuovamente crescere verso l’alto come un albero che ha ritrovato la sua giusta collocazione.
Il libro: A. SCIFFO, L’albero capovolto. Scrittori del radicamento nel ‘900, Rimini, Il Cerchio, 2005, pp. 126.