Nullity

 

 

di Guido Ferro Canale

 

Jorge Mario Bergoglio, con due Lettere Apostoliche “gemelle”, in forma di motu proprio, firmate il 15 agosto 2015 (ma la pubblicazione data all’8 settembre e l’entrata in vigore è stabilita per l’8 dicembre), è intervenuto sulla disciplina dei giudizi di nullità matrimoniale del CIC e del CCEO; qui intendo soffermarmi soltanto sulla riforma che riguarda la Chiesa latina, il m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus, che sostituisce integralmente i cann. 1671-91 CIC, ossia le disposizioni speciali che regolano i giudizi di nullità matrimoniale. Contrariamente a quanto si legge – purtroppo non solo nelle prime sintesi giornalistiche – esso non interviene sulla disciplina sostanziale del Matrimonio e, dunque, non introduce nuovi motivi di nullità; si occupa solo di modificare il modo in cui la Chiesa latina accerta la sussistenza dei motivi già codificati. Beninteso, si tratta comunque di una riforma complessa che incide su una materia di non poca importanza; e proprio per questo la sua analisi richiede un impegno che vada al di là degli “spunti di attualità”.

 

Antefatto: la “riforma occulta”

Potrà sembrare che, parlando di “riforma occulta” dei giudizi matrimoniali, io voglia indulgere al colore giornalistico, dato che ciò cui mi riferisco, dopotutto, non è segreto.

Più o meno.

Il grande pubblico non ne sa nulla. Il Bollettino della Sala Stampa – che io sappia – non ne ha parlato mai. Neppur ne ho udita menzione nelle molte discussioni sulle riforme possibili, auspicabili o nefaste dei giudizi di nullità matrimoniale.

Inoltre, le circostanze in cui è avvenuta questa “riforma occulta” sono quantomeno singolari.

L’11 febbraio 2013, lo stesso giorno della rinunzia al Pontificato, Benedetto XVI, con Rescriptum ex Audientia sottoscritto dal Segretario di Stato, Card. Bertone, ha accordato al Decano della Rota Romana alcune “facoltà speciali” – cinque in tutto – che consentono al Tribunale Apostolico di procedere in deroga al diritto vigente. Per la precisione:

I. Le sentenze rotali che dichiarano la nullità del matrimonio siano esecutive, senza che occorra una seconda decisione conforme.

  1. Dinanzi alla Rota Romana non è possibile proporre ricorso per la N.C.P. [nova causae propositio], dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico.

III. Non si dà appello contro le decisioni rotali in materia di nullità di sentenze o di decreti.

  1. Il Decano della Rota Romana ha la potestà di dispensare per grave causa dalle Norme Rotali in materia processuale.
  2. Siano avvertiti gli Avvocati Rotali circa il grave obbligo di curare con sollecitudine lo svolgimento delle cause loro affidate, sia di fiducia che d’ufficio, così che il processo davanti alla Rota Romana non ecceda la durata di un anno e mezzo.

Il rescritto ha durata triennale; ma in realtà, poiché le facoltà speciali si considerano un caso di potestà delegata e cessano quando viene meno l’autorità del delegante, esso è spirato già il 28 febbraio, con la vacanza della Sede. Salva la successiva conferma da parte del neo-eletto, certo; ma è quantomeno singolare che il Papa accordi l’11 una facoltà che sa benissimo che, dato il suo annuncio della mattina, spirerà il 28, o che egli metta il successore, eligendo a stretto giro, nell’imbarazzo di dover decidere su due piedi se confermare o meno disposizioni di tutto rilievo. Dopotutto, un tratto di penna sarebbe bastato a trasformare la richiesta di facoltà in un m.p. ad experimentum, quindi in legge speciale, immune da questi inconvenienti e, magari, da mandarsi in vigore l’indomani, previa pubblicazione su “L’Osservatore Romano”, come si è fatto in altri casi ritenuti urgenti.

Invece, il rescritto disponeva la propria pubblicazione in AAS, che però, salvo mio errore, non è ancora avvenuta; poiché non si tratta di una legge, l’adempimento non è necessario alla sua entrata in vigore, ma l’omissione desta comunque una certa sorpresa. Ma le stranezze non sono ancora finite: il provvedimento in parola, infatti, è stato divulgato dal Decano della Rota proprio in periodo di Sede vacante, quando l’autorità del rescritto stesso era cessata. Eppure, a quanto pare, esso è stato applicato dal momento dell’annuncio in poi (il Tribunale Apostolico non cessa di operare in tempo di Sede vacante); si suppone con successiva conferma da parte di Bergoglio, ma non se ne ha notizia ufficiale. Il minimo che si possa dire è che il Decano non ha agito esattamente nel modo più opportuno… o più rispettoso della legalità.

Le ragioni di perplessità non diminuiscono affatto se, dal piano formale, passiamo al contenuto.

Nulla quaestio per il quinto punto, che in effetti non è neppure una facoltà;[1] circa il quarto, la dispensa dalle norme processuali spetta, generalmente, alla Segnatura, ma sembra che il Decano abbia inteso derogare alla peculiare organizzazione “per Turni” della Rota e istituire una sorta di “sezione stralcio” per smaltire l’arretrato (e non sarebbe stato praticabile un intervento della Segnatura per dispensare dalle Norme speciali della Rota in ogni singolo caso); il terzo punto, ossia l’esclusione dell’appello per le pronunzie in materia di nullità, non equivale a privazione di garanzie, perché comunque il vizio lamentato può riproporsi in Segnatura, con la querela nullitatis, come di fatto – almeno in caso di diniego di nova causae propositio – avveniva sistematicamente una volta esperito detto appello, che, quindi, non riusciva neanche a fungere da “filtro”.

Ma il discorso si fa ben diverso, preoccupato e preoccupante per le prime due facoltà, tanto che, al termine di un articolato commento al rescritto (cui rimando anche per ulteriori dettagli sulla sua genesi), Mons. Joaquín Llobell – uno dei massimi studiosi del processo canonico, materia che insegna alla Pontificia Università della Santa Croce – ha auspicato che si trattasse solo di facoltà temporanee, dettate dall’esigenza di sgravare la Rota dall’arretrato, dopodiché “le due prime facoltà speciali potrebbero decadere, evitando eccezioni al diritto comune che possono affievolire il rispetto della natura meramente dichiarativa delle cause di nullità del matrimonio, al servizio della legge naturale dell’indissolubilità, proclamata da Cristo e accolta dal Vangelo senza mezzi termini. Invece, le altre tre facoltà speciali, magari con un’altra sistemazione formale e sostanziale, potrebbero entrare a far parte stabilmente dell’ordinamento canonico.”.

Ebbene, per conoscere la sorte delle facoltà III-IV-V, bisognerà attendere la riforma delle Norme speciali della Rota, opportunamente ordinata in chiusura del m.p. Mitis Iudex; però, quanto alle prime due, già si può dire che l’auspicio dell’insigne canonista dell’Opus Dei è stato accolto solo a metà, poiché il divieto di nova causae propositio non è passato nella nuova legge universale, ma il superamento della doppia conforme sì.

Finora, a norma di Codice, le sentenze in materia matrimoniale, sia che affermassero la nullità sia che la negassero, non erano esecutive (e dunque non avevano l’effetto di sancire lo stato libero o coniugato) finché due giudici diversi non si fossero pronunziati nello stesso modo sulla questione: è questo il requisito della “doppia sentenza conforme”. Ma, anche intervenute queste due pronunce (pro nullitate o pro vinculo), restava possibile riaprire il processo, purché si adducessero argomenti gravi, tali da far venire meno la certezza morale che si fosse deciso giustamente: è appunto il rimedio della nova causae propositio.

La duplice innovazione del rescritto introduceva una singolare disparità di trattamento, per cui le sentenze pro vinculo restavano assoggettate alla doppia conforme, mentre per la nullità bastava un’unica pronuncia favorevole della Rota. Al riguardo, non posso che far mio, anche nelle virgole, il commento di Mons. Llobell: “Questa disparità di effetti potrebbe far sì che qualcuno giungesse a pensare che questa facoltà speciale si traduca in un favor nullitatis. In verità, si tratterebbe soltanto della dimensione processuale del favor nullitatis (limitatamente al diritto di appello). Tuttavia, ciò potrebbe promuovere un clima favorevole alle dichiarazioni di nullità matrimoniale anche sotto il profilo del giudizio di merito sia presso la stessa Rota Romana, sia presso i tribunali locali. Infatti, la prima facoltà potrebbe sembrare identificare la salus animarum con la dichiarazione di nullità del matrimonio e la celeritas iudiciorum. Invece, la salus animarum nelle cause di nullità matrimoniale deve essere identificata piuttosto con l’accertamento della verità sul proprio status.” (sottolineature aggiunte).

Il rischio era e resta – almeno fino alla scadenza del rescritto – ancora maggiore perché quell’unica sentenza pro nullitate (o una doppia conforme in tal senso, resa da giudici inferiori) diventa, di fatto, inattaccabile, vietandosi la riapertura del processo tramite nova causae propositio, in presenza di nuovo matrimonio canonico di una delle parti. Altrimenti detto: si danno argomenti gravi, capaci di far risorgere il dubbio che il primo vincolo fosse valido, e quindi invalido il secondo, anche se contratto in perfetta buona fede data la pronunzia dei giudici ecclesiastici; eppure, questo dubbio dev’essere accantonato per il semplice fatto che esiste un secondo matrimonio coram Ecclesia, sebbene, all’evidenza, la validità di tale atto e vincolo dipenda dalla nullità del primo, quindi dalla soluzione del dubbio in parola!

Peraltro, la facoltà II del rescritto, per inaudita che sembri, non è piovuta dal cielo: corrisponde agli auspici formulati a più riprese, già oltre vent’anni fa, da Carmelo de Diego-Lora, che – peraltro nel contesto di una tesi volta a riconoscere, contro la lettera del Codice, che anche le sentenze in materia matrimoniale passano in giudicato, perché per infirmarle con la nova causae propositio non basta qualsiasi argomento, ma se ne richiedono di “gravi” – sosteneva che il bene che, in astratto, sarebbe potuto derivare dal nuovo accertamento sul primo vincolo dovesse cedere alle esigenze di stabilità delle decisioni e pace delle coscienze, dato che, dopotutto, la riapertura del caso equivaleva a sconvolgere tutto un assetto di vita… quando poi, magari, si sarebbe deciso nuovamente pro nullitate.

Non vi è il minimo dubbio che esista un problema di tranquillità della coscienza dei fedeli, che devono poter fare affidamento sulle pronunce dei Tribunali ecclesiastici e non restare in ansia tutta la vita riguardo al proprio stato; si può anche concedere che, spesso, chi sollecita la nova causae propositio non è animato tanto da zelo per la verità, quanto da desiderio di nuocere alla controparte e/o alla sua nuova unione (legittima o meno che sia davanti a Dio). Ma non credo che la soluzione possa essere quella proposta e, purtroppo, adottata nel rescritto: si faccia di tutto per assicurare la completezza delle istruttorie, si allarghi la trattazione anche a dubbi venuti in mente al giudice e non alle parti, si puniscano con sanzioni spirituali e, perché no?, pecuniarie i ricorsi per nuova proposizione che appaiano pretestuosi o ispirati a pura volontà di nuocere; queste saranno misure sacrosante. Però, ritengo che, in questo caso, almeno per analogia venga in rilievo il principio per cui, in materia sacramentale, non ci si può attenere all’opinione probabile, nemmeno alla più probabile, ma solo alla più sicura. Un ricorso ammissibile per nova causae propositio, per definizione, non può che far sorgere un dubbio probabile,[2] in cui da una parte militano gli argomenti gravi con esso addotti, dall’altra le ragioni che sorreggono la doppia conforme; l’unico modo per risolvere tale dubbio e ricostituire la certezza morale è riaprire il processo, sede istituzionale di ricerca della verità. Il nuovo matrimonio, la buona fede delle parti o del terzo che con una di loro abbia contratto le nuove nozze, etc., potranno rilevare, e molto, per le misure disciplinari a carico di giudici o avvocati, per la loro condanna al risarcimento dei danni in favore degli innocenti, all’occorrenza anche per l’inflizione pubblica di pene canoniche (cfr. can. 1457); ma non possono mai, per loro natura, far raggiungere la certezza morale su validità o invalidità delle prime nozze.

Peraltro, non è inutile aggiungere che, in origine, il principio di rivedibilità di ogni momento – e quindi non passaggio in giudicato – è stato introdotto proprio per le decisioni pro nullitate, onde porvi rimedio ogniqualvolta constassero l’errore e l’inganno alla Chiesa[3]; e non si può rifarsi all’argomento storico per affermare che, se le parti sono in buona fede e dunque non vi è inganno alla Chiesa, la pronuncia erronea va lasciata in piedi (così, invece, Mons. Llobell nel commento citato, per i casi in cui l’errore si deve a scarsa professionalità dei giudici): la riapertura del processo matrimoniale non costituisce un’ingiustizia in sé; all’indubbio pregiudizio che essa arreca, quantomeno in punto tranquillità di coscienza, si dovrà ovviare contenendo al minimo indispensabile la durata del giudizio, evitando lo scandalo, punendo i colpevoli, se necessario anche con le pubbliche scuse della Chiesa, se in Suo nome essi hanno agito; però la ratio peccati vitandi esige comunque che si riapra il caso.[4]

A questo punto, vien fatto di chiedersi se sia stato opportuno un intervento di questa portata – e anche, si licet, tanto azzardato sotto il profilo dottrinale – tramite semplice rescritto d’udienza e allo spirare di un Pontificato. In effetti, e più in generale, la prassi di adottare provvedimenti anche molto importanti con rescritto ex Audientia SS.mi presta il fianco a diverse critiche: tra le altre, ha poco senso che sia un Cardinale ad attestare quanto udito dalle auguste labbra, quando già ora, in simili occasioni, il Papa firma un foglio d’udienza che attesta l’approvazione delle richieste e che è il vero documento dell’approvazione pontificia.[5] Rispetto al suo contenuto, o alla cui assenza, mi pare che debbano cedere tutte le altre attestazioni, inclusa quella cardinalizia (sebbene, almeno sotto il vecchio Codice, facesse fede in foro esterno: cfr. can. 239 CIC 17). L’esigenza di pubblicare questo documento, in luogo del rescritto, sembra tanto più pressante nel caso in esame, dato che il Bollettino della Sala Stampa non menziona alcuna udienza al Segretario di Stato in data 11 febbraio 2013 (non ho avuto modo di controllare L’Osservatore Romano); soprattutto chi reputasse incredibile che Benedetto XVI – non certo uno sprovveduto in materia teologica e neppure notoriamente avvezzo a decisioni precipitose o avventate – abbia effettivamente accordato questo genere di facoltà, oltretutto in un momento così particolare, potrebbe anche sospettare un falso, favorito proprio dall’imminente vacanza della Sede (una volta che il Papa non è più Papa, mette male che venga a sapere e più ancora che smentisca).[6] Ora, siccome solo la pubblicazione del foglio di udienza potrebbe dirimere il dubbio, non sarebbe forse il caso – in generale – di eliminar l’occasione prossima di peccato?

 

[segue]

 

 


[1]    Il can. 1453 fissa la durata auspicabile dei processi in un anno per la prima istanza e sei mesi per la seconda, ma nulla dice sulla terza e ulteriore, cioè appunto sulla sede tipica di intervento della Rota; quindi, il rescritto colma una lacuna legislativa e, nello stesso tempo, deroga al can. cit. per il caso in cui la prima istanza o la seconda pendano presso il Tribunale Apostolico della Rota Romana.
[2]    Esiste anche la possibilità che il ricorso rechi la prova evidente dell’erroneità delle precedenti pronunzie, vuoi per incompetenza professionale o atteggiamento “divorzista” dei primi giudici, vuoi per manovre di una parte in danno dell’altra o, come pure è accaduto, di tutte e due in danno della Chiesa e della verità. Ma va da sé che, in tali nefande ipotesi, a fortiori non si potrà lasciar sussistere la doppia conforme (che sia pro nullitate o pro vinculo, sebbene la seconda possibilità mi sembri quasi soltanto accademica).
[3]    Cfr. Alessandro III, decretale Lator (X.2.27.7).
[4]    Alcune decretali – evidentemente considerando proprio la tranquillità di coscienza dei fedeli: nihil sub sole novi – hanno affermato la possibilità di dissimulare su un errore occulto, di cui l’autorità fosse venuta a conoscenza per vie traverse, senza una denuncia delle parti; palesemente, non è questo il caso e la dissimulazione, o “fingere di ignorare”, non è mai ammessa se un fedele avvia un procedimento accertativo. Sul tema, cfr., anche per gli opportuni esempi in materia matrimoniale, E. Olivero, Dissimulatio e tolerantia nell’ordinamento canonico, in Id., Studia Canonica, Milano 1987, pagg. 5-196.
[5]    Per il foglio d’udienza e l’auspicio che, tramite la sua pubblicazione, si superi la prassi del rescritto, cfr. E. Baura, La procedura per ottenere facoltà speciali da parte dei Dicasteri della Curia Romana. Commento all’art. 126 bis del Regolamento Generale della Curia Romana, in Ius Ecclesiae 23 (2011), pagg. 290-8, spec. 293-4. In senso critico verso l’impiego disinvolto del rescriptum ex Audientia SS.mi per l’adozione di provvedimenti anche molto importanti e derogatori – a vario titolo – rispetto al diritto comune, cfr. V. Gómez-Iglesias, La “aprobación específica” en la “Pastor Bonus” y la seguridad jurídica, in Fidelium Iura 3 (1993), pagg. 361-426, spec. 377-82. Superfluo osservare che la situazione, rispetto ad allora, non sembra affatto migliorata.
[6]    Il sospetto, a mio avviso, è lecito, considerato il cumulo di stranezze e anomalie; ma vi è un forte argomento in contrario, ossia il fatto che interventi incisivi sui giudizi di nullità fossero già ad uno stadio avanzato di elaborazione, secondo quanto riferisce Mons. Llobell. E’ possibile, dunque, che la concessione delle facoltà speciali nasca da una decisione di Benedetto XVI, nel senso di lasciare al successore l’adozione di misure organiche, ma provvedere ai problemi più urgenti della Rota con misure già ampiamente studiate e vagliate in sede di prospettata riforma generale.