Sposi-anno-1936

 

di Isacco Tacconi

Che piaccia o no, San Paolo l’ha detto, i Padri lo hanno sostenuto, la Chiesa lo ha solennemente insegnato e il Signore l’ha consacrato: “Il marito è il capo della moglie” (Ef 5,23). Ogni tentativo di storicizzare questa sentenza relativizzandola sarebbe un tradimento del Vangelo oltreché una falsificazione storica. La concezione patriarcale della famiglia, infatti, in base ai dati di cui disponiamo, risale certamente ad Abramo (ca. 2000 a.C.) ed è rimasta tale nelle società occidentali, per lo meno di impianto cattolico, fino al secolo XX d.C. Difatti la famiglia patriarcale dura con certezza da almeno 4000 anni ossia da quando comincia il fiorire delle civiltà mesopotamiche. La differenza tra questo tipo di famiglia e una famiglia matriarcale, incentrata cioè sulla “donna”, è la solidità, l’ordine e la stabilitas. Caratteristica, invece, delle società matriarcali è la brevità della loro durata e l’instabilità del loro ordine sociale e morale ma anche una certa irrazionale istintuale primitività. La storia delle religioni insegna, infatti, che le religioni cosiddette “telluriche” che vedevano cioè nella divinità la “madre-terra” risalgono ad un’epoca in cui le società erano estremamente retrograde sotto ogni aspetto. La concezione “materna” della divinità è, dunque, uno stato primordiale potremmo dire “infantile” della religione naturale. Con l’evolvere della religiosità e l’abbandono delle divinità telluriche progrediscono anche i costumi e l’assetto sociale.

Roma fin dall’epoca monarchica, passando dalla Repubblica fino al primo periodo dell’età imperiale, fu fondata sui valori patriarcali e la sua forza conquistatrice e di governo era solidamente imperniata sul mos maiorum (le tradizioni dei padri o costume degli antenati) e sullo ius romanum (il Diritto). Tali elementi mancarono ad Alessandro Magno il quale riuscì a conquistare ma non seppe governare né lasciare un ordinamento giuridico, sociale e tanto meno morale duraturo. Ma il vero cavallo di Troia dell’Ellenismo fu l’“orientalizzazione”, ossia la mollezza dei costumi che penetrò infettando la morale della civiltà ellenica attraverso l’effeminatezza della cultura persiana e delle civiltà matriarcali dell’Oriente centrale. A tale tendenza si aggiunse quella forma di gnosticismo iniziatico, esprimentesi nelle orge segrete in onore di Bacco, caratterizzato dalla brutalità della perversione e dallo sfogo delle passioni libidinose che le cosiddette “baccanti” praticavano fra di loro e con gli uomini mentre adoravano e si univano “misticamente” in virtù di trance estatiche alla divinità Pan, guarda caso, un mostro mezzo uomo e mezzo caprone. Questo dominio della sessualità femminile sull’uomo che lo rendeva schiavo e ridotto ad animale era già nell’Antica Grecia, e specialmente a Roma, perseguitata e repressa come pratica empia, indegna dell’uomo e degli déi, pericolosa per l’integrità della società e della morale. Dunque, la ragione stessa condusse i grandi pensatori greci e latini (Socrate, Platone, Aristotele, Catone, Cicerone e Seneca) a difendere la società naturale, quindi razionale, fondata sul pater familias.

Per quanto riguarda perciò specificamente il matrimonio, la prospettiva che lo concepisce secondo una struttura patriarcale non è semplicemente espressione di una cultura che si è imposta nel tempo ma corrisponde all’intrinseco ordinamento gerarchico che la natura stessa, creata da Dio, porta inscritto in sé. Tale gerarchia vede al vertice il pater anzitutto perché Dio è Padre in senso proprio ed assoluto e, come dice San Paolo, “ogni paternità discende da Dio” (cfr. Ef 3,15). La paternità umana perciò è una “partecipazione” e un riflesso della paternità divina ed ogni tipo di attentato alla figura paterna è una rivolta verso colui che è l’“Eterno Padre”.

In secondo luogo, il riconoscimento della disparità gerarchica fra l’uomo e la donna trova un’ulteriore ragion d’essere nel fatto che prima fu creato Adamo, con una creazione tutta speciale, e solo secondariamente Eva la quale fu tratta da Adamo e non venne all’essere allo stesso modo di Adamo. Infatti, “prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione”. (1Tm 2,13-14). La donna cioè si dice ed è in riferimento all’uomo giacché è il suo stesso essere a provenire dall’uomo. Essa è stata tratta da lui: “la si chiamerà «donna» perché dall’uomo è stata tolta” (Gn 2,23).

In ebraico uomo si dice «ish» e donna «ishah» che letteralmente si traducono con «uomo» e «uoma». In latino abbiamo una medesima terminologia giacché uomo corrisponde a «vir» e donna a «virago» o «vir-go» intesa nella sua virginea integrità. Interessante notare come anche l’inglese esprima questa dipendenza ontologico-lessicale nei termini «man» and «wo-man». Un altro dato interessante fornitoci dall’anatomia e dalla biologia è che la capacità cerebrale media dell’uomo è di 1500 cc e quella della donna è di circa 1350 cc. Questo ovviamente non significa automaticamente che l’uomo sia, di per sé, più intelligente della donna, la realtà stessa ci smentirebbe molte volte. Questo dato scientifico ci manifesta piuttosto che l’uomo, a causa del ruolo centrale che necessariamente riveste nella società naturale e civile, necessita di un “dipiù”, di un surplus di materia cerebrale. Non fa mistero che le responsabilità richieste all’uomo fin dai tempi antichi sono maggiori di quelle che sono richieste alla donna.

Un dato tratto dall’antropologia e dalla cultura è che l’uomo ben formato, il «vir» (da cui “virile”), è colui che solo ha la capacità di domare la sensibilità trasbordante e disordinata della donna: “Sarai sotto la potestà del marito, ed egli ti dominerà” (Gn 3,16). La realtà stessa ci dimostra che la donna per essere veramente donna e realizzare le sue più intime inclinazioni ha bisogno dell’uomo. La fragile sensibilità, il sentimento a volte incontrollabile che costituisce l’anima femminile della donna prevale molto spesso, oggi più che mai, sulle istanze della ragione cioè dell’intelletto. Tra i due è l’uomo che detiene la fiaccola della ragione, è l’uomo che, libero da quella sensibilità che lo porterebbe all’impotenza, all’incapacità di sacrificarsi, a quella effemminatezza che mortifica la virilità, ha in sé la capacità di essere la guida ferma infondendo sicurezza anche nella donna.

Nella lingua latina questo ruolo ontologico dell’uomo è luminosamente manifestato con la comune radice tra «vir» (uomo) e «virtus» (forza). La virtù si addice all’uomo, lo individua o, per lo meno, dovrebbe individuarlo. Tra le virtù quella che descrive il ruolo e la vocazione profonda dell’uomo è senz’altro la “fortezza”. In greco tale virtù si chiama «andrèia» da «andròs» (uomo) che letteralmente significa «virilità» ad esprimere che essa è caratteristica propria dell’uomo, manifesta cioè la sua essenza.

La fortezza – dice San Tommaso – è la virtù che spinge l’appetito irascibile e la volontà a non desistere dal conseguire il bene arduo o difficile neppure quando è in pericolo la vita corporale”. Tale virtù dà la capacità di affrontare e attraversare dei mali anche prolungati in vista di un bene maggiore. È ovvio che la fortezza non è appannaggio esclusivo dell’uomo, anzi, deve essere assolutamente appresa e praticata sia dall’uomo che dalla donna, ma ci sono alcune attività e alcune proprietà che, per la loro natura, si addicono più all’uno che all’altra. Una donna forte, cioè fortificata dalla virtù, fattasi cioè virile, ben attenti non “mascolina”, è una donna pienamente realizzata nella sua, passatemi il termine, “donnità”, perché ha appreso quell’aspetto di cui era deficiente per il suo stesso essere «femmina». Il famoso luogo comune secondo cui “dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna” non è falso ma incompleto perché bisognerebbe scoprire che quella “grande donna” è tale perché ha avuto alle sue spalle un “buon padre” che l’ha resa tale. Bisogna, come in tutte le cose, risalire la catena delle “cause” che rivela all’origine di tutto la Paternità di Dio.

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L’uomo, infatti, è la guida, il protettore, cioè pater et patronus ma è anche il legislatore ossia colui che stabilisce le norme, in altre parole è il “formatore”, l’autentico detentore del compito di educare. Fra le varie cause all’origine dell’odierna crisi dell’educazione svetta l’estromissione della figura maschile dal compito educativo e formativo dei giovani e dei giovanissimi. La crescente “femminilizzazione” dell’educazione, privata di quella “salutare virilità” che come abbiamo visto serve anche alla donna, ha portato alla “effeminatezza” cioè a quell’atteggiamento molle, volgare, indisciplinato, incontinente e ciò che è più grave di non credibilità dell’educatore, dell’insegnante e del genitore. Oggi i padri non sono credibili, tanto meno gli insegnanti e le insegnanti, sviliti e incapaci di autorità. Il concetto stesso di educazione è svanito, perché la capacità di educare e correggere il prossimo presuppone il “dovere” morale di educare e correggere se stessi. Quell’essenziale asimmetria indispensabile al rapporto maestro-alunno e alla relazione padre-figlio si è disciolta in un “panamicismo” che livella le indispensabili differenze e la varietà gerarchica fra le relazioni umane: siamo tutti amici. Questo porta inevitabilmente alla morte dell’autorità, alla morte della paternità. Ma il padre non deve essere l’amico: deve essere il padre, le due cose non si equivalgono né sono intercambiabili.

Il padre, in fondo, è colui che mette gli ostacoli e “contiene” l’esuberanza (da latino «ex ubero» = dal seno) dei sentimenti e delle passioni. In questo Sigmund Freud, “padre” (sic!) della psicanalisi, aveva ragione: il padre è veramente colui che ha il compito di “censurare” e “limitare” gli impulsi disordinati della prole, ordinandoli al bene. Solo che difronte all’ontologia e al ruolo paterni Freud si rivolta, insorge cioè contro il “padre” e la paternità in nome della libertà libidinosa e perversa che lega il figlio alla madre e non al padre, interpretando ogni relazione padre-figlio secondo lo schema del complesso di Edipo, ossia uno schema di rivalità e di odio viscerale e archetipico. Ciò ha contribuito ad aumentare il discredito e il disprezzo per la figura paterna fino a confluire nel 900 nell’altra rivolta contro l’autorità che è il marxismo, sfociando poi nella Rivoluzione del 68 radicalmente rivolta contro il “padre” e in definitiva contro Dio, Sommo Legislatore e fonte di ogni paternità.

Vediamo poi che la facoltà di imporre obblighi e divieti e di fissare i diritti è insita nel concetto stesso di autorità: “Il potere legittimo deriva da Dio e chi resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; in tal modo l’obbedienza acquista molto in nobiltà, divenendo ossequio verso un’autorità giustissima ed elevata in sommo grado”[1]. L’autorità del padre, dunque, è inviolabile e avvolta da “sacralità” tanto che la sua benedizione verso i figli è sempre stata concepita come un’eredità da meritare e mai da disprezzare.

Nefasto è stato l’egualitarismo che ha voluto dichiarare uomo e donna sullo stesso e identico piano. Questo ovviamente non può che generare competizione, rivalità, rivalsa e odio giacché fa rientrare la relazione moglie-marito nello schema rousseauiano secondo cui “la tua libertà finisce dove comincia la mia”. Solo che nessuno si è mai premurato di delimitare quali siano i limiti della libertà dell’uno e dell’altro.

Quando nella coppia di sposi la moglie si pone, o viene spinta dalla società, in una parità di autorità con il padre, la famiglia perde il suo centro e la sua guida ossia il suo impianto ontologicamente “monarchico”. Con tale operazione “democratizzante” si è voluto sovvertite l’ordine gerarchico naturale della famiglia. Lo si sperimenta quando, nelle famiglie odierne, per prendere una qualsiasi decisione è necessario convocare un “soviet” democratico che sfianca i coniugi e avvilisce il padre il quale si vede esautorato del proprio ruolo ontologico. È la logica del “consenso” e della legittimazione dal basso: è la Rivoluzione. È questo un principio che inevitabilmente finisce per aderire ad ogni tipo di relazione anche a quella fra l’uomo e Dio. Ecco la radice perversa ed empia della libertà religiosa e di coscienza che vede Dio come un “possibile” interlocutore ma che non deve interferire eccessivamente nelle faccende umane. Come se per regnare sopra di noi, Egli che è Re per diritto di natura, con la Creazione, e di conquista, con la Redenzione, dovesse essere autorizzato da noi chiedendo a noi il consenso.

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Ogni buon discorso sulla famiglia e sulla paternità non può esimersi dal contemplare il mistero della Sacra Famiglia nello svolgersi di quella santa quotidianità fra la casa di Nazareth e la bottega di San Giuseppe. Per cogliere il fondamento della Carità che la regolava e guidava bisogna ricercarne quella invisibile e ammirabile gerarchia che come le mura di una fortezza assicura solidità e protezione. Contemplando il Presepio, infatti, scopriamo con intimo stupore che il Figlio di Dio, il Verbo Eterno del Padre, la Seconda Persona della Santissima Trinità si incarna e vuole nascere in un focolare domestico. Entra delicatamente nell’ordine naturale che Lui aveva già stabilito e non lo sovverte. Ma ciò che più illumina il Mistero dell’Incarnazione è l’Infinita Umiltà di Dio il quale, pur essendo il Tre volte Santo, pur essendo l’Onnipotente, pur essendo l’Autorità Somma per essenza sceglie liberamente di sottomettersi a due creature da Lui stesso create.

Nell’Icona della Sacra Famiglia contempliamo una paradossale “gerarchia di santità” in cui il più Santo, cioè Dio, che è anzi la Santità stessa, si mette all’ultimo posto. Subito sopra di Lui si trova la Madonna, l’Immacolata Concezione, la creatura più perfetta mai uscita dalle mani del Creatore, Lei che è onnipotente per Grazia ma pur sempre una creatura. E al vertice, posto in autorità al di sopra sia della creatura più perfetta e più santa sia dello stesso Creatore che è la santità stessa, San Giuseppe il giusto, il padre. Vediamo, dunque, che nella Sacra Triade il capo eletto da Dio a custode dei tesori più preziosi di Dio (Gesù e Maria) è, se vogliamo, il meno santo, il meno perfetto. Nella nostra mentalità giustizialista sarebbe stato più giusto che Gesù fosse a capo, o addirittura Maria visto che era stata preservata dal Peccato e dalle sue conseguenze nefaste. La Rivelazione invece dimostra la diversa concezione che Dio ha dell’ordine naturale e sociale rispetto a quella cui siamo abituati dopo due secoli di propaganda egualitaria e rivoluzionaria. Il padre è, dunque, insostituibile e la paternità inviolabile e con il farsi “figlio” di Maria e di Giuseppe Nostro Signore ci ha voluto dare l’esempio del rispetto della gerarchia naturale che neppure Dio si sogna di alterare o stravolgere.

Inoltre, se nelle relazioni intra-umane fossimo tutti uguali non sarebbe possibile la Carità, giacché la virtù della Carità si fonda sulla “disparità” tra Dio e l’uomo, e sull’amore che l’uomo deve a Dio e al prossimo per amore di Dio. “L’uomo, che per sua natura è servo del Creatore, giunge ad essere, mediante la grazia e la carità, figlio ed amico di Dio. Se questa servitù già lo nobilita tanto (servire Dio è regnare), chi potrà misurare l’altezza cui lo eleva la carità di Dio, la quale «è largamente diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato?»[2]. Ma la disparità è causa materiale anche dell’umiltà. Questa, uestaQ“in quanto virtù speciale, mira principalmente alla sottomissione dell’uomo a Dio, per cui si sottomette anche agli altri, umiliandosi dinanzi ad essi[3]. Questa virtù imprescindibile per il cristiano rivela come ognuno sia inferiore al prossimo, avendo in sé i medesimi sentimenti di Gesù “il quale, sussistendo in natura di Dio, non considerò questa sua eguaglianza con Dio come una rapina, ma svuotò se stesso, assumendo la natura di schiavo, e facendosi simile all’uomo” (Fil 2,6-7). Tale sentimento, perciò, non è e non può essere “falsa modestia” o una finzione intellettuale o una ipocrita maschera autosuggestiva bensì una interiore e profonda presa di coscienza della “verità” su se stessi. L’umiltà perciò è certamente una disposizione della volontà e guidata dall’intelletto illuminato dalla Grazia, svela al cristiano che nulla di buono possiede che sia suo, ma tutto ciò che di buono possiede lo riceve dal Padre Eterno. Il cristiano, in altre parole, (uomo e donna) si deve porre in fondo, alla base, sotto a tutti (sub – iectum = gettato sotto) ultimo fra gli ultimi alla maniera di Nostro Signore.

In ultima analisi, nella gerarchia familiare, non conta avere l’autorità per l’autorità, fine a se stessa o dispoticamente esercitata. Per questo siamo costretti a ritornare sempre sulla distinzione essenziale fra il “libero arbitrio” e la “libertà”. Ciò di cui sono stati convinti gli uomini e le donne di oggi è ricercare il libero arbitrio fine a se stesso ossia la capacità di fare ciò che si vuole, e questo sarebbe il diritto fondamentale e inviolabile di ogni uomo. Ma la vera libertà non sta nella capacità di fare ciò che si vuole ossia compiere indifferentemente il bene o il male bensì nel dovere di fare il bene.

Questa ricerca del libero arbitrio per il libero arbitrio, altro non è che il desiderio del “potere”, dell’autodeterminazione, dell’emancipazione. Questa superbia mal celata ha portato la donna, oggi più che mai, a rivoltarsi contro l’uomo e, sobillando la moglie contro il marito, ha minato la stabilità della famiglia e del vincolo matrimoniale sul quale essa è fondata. In fondo ogni peccato ha la medesima radice nella superbia luciferina del “sarete come Dio”, che nella rivolta della moglie contro il marito diventa un’emancipazione che si esprime così: “sarai come tuo marito, ne hai diritto!”, o anche “perché devi ubbidire a tuo marito? Non vali di meno e non sei una serva!”. Eppure non c’è niente di più anticristiano di questa visione egualitaria. A tal proposito la risposta della Vergine Maria all’Arcangelo è sufficientemente eloquente: “Eccomi! sono la serva del Signore”. L’egualitarismo, infatti, come abbiamo visto, impedisce la carità e ancor più l’umiltà senza la quale non c’è né carità né alcuna vita cristiana.

Dio, dice la Scrittura, “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ed ha innalzato gli umili” e Nostro Signore aggiunge “chi si innalza sarà umiliato, chi si umilia sarà innalzato”. L’essere moglie cristiana, in definitiva, è una via privilegiata per imitare la santità e l’umiltà di Nostro Signore il quale si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce, mentre ogni forma di rivalità che subdolamente si insinua nel matrimonio sovverte l’ordine naturale-sacramentale, indebolisce la vita cristiana e raffredda la carità.

Terminiamo con un aneddoto, che ritengo illustri con sufficiente chiarezza l’atteggiamento “giusto” che dovrebbe nutrire una “buona” moglie verso suo marito.

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Tempo fa mia madre mi raccontò di un felice incontro che fece mentre attendeva di essere servita in una merceria. Ad un tratto una signora molto anziana, appoggiata al suo bastone entra nel negozio chiedendo se poteva, per gentilezza, passare avanti a causa della fatica che faceva per stare in piedi. Come capita spesso negli anziani, la vecchina comincia a raccontare la sua vita. Nel ringraziare gli altri clienti per la loro bontà, incomincia ad intessere un elogio di suo marito: «Dovete sapere che mio marito, è una persona veramente buona, lui è intelligentissimo, un genio! Io lo amo da impazzire: è l’amore della mia vita. Ha 10 anni più di me, sapete? [la vecchina ne avrà avuti più di 80!] quindi non ce la fa più a badare a se stesso. Ma se non ci penso io che sono la moglie, chi ci pensa?». Mia madre e le altre persone presenti, ammirate e commosse per tanto candore e semplicità, ascoltano edificate l’ultima sentenza di questa donna “d’altri tempi”: «Io ho sempre insegnato ai miei figli due cose – dice l’anziana –, figli miei: Dio prima di tutto, poi vostro padre”.

Ecco cosa significa “gerarchia” in una famiglia cristiana, ecco il segreto per formare l’unica società giusta che è la società cristiana.

 

 


[1] Leone XIII, Enciclica “Libertas”.
[2] Royo Marìn, Teologia della perfezione cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 602.
[3] Ibidem, p. 734.