s5b8sn

 

a cura di Ilaria Pisa

 

La situazione è grave ma non è seria, diceva Ennio Flaiano, e il prevedibile evolversi delle vicende sinodali in tal senso non fa altro che confermare i timori e i realismi che sin dall’anno scorso la blogosfera cattolica – e Radio Spada in prima fila – ha espresso sperando, come sempre, di essere contraddetta.

Ma come pensare che ci sia un briciolo di serietà nei “ludi” ecclesiali in corso, se sul tavolo dei padri sinodali giacciono argomenti la cui intangibilità non dovrebbe essere neppure in discussione? A fronte di un battage mediatico sovversivo di cui è difficile trovare l’eguale nel recente passato, uno dei “padri” sinodali, uno dei “pastori” che dovrebbero mantenere il gregge curato e unito – Mark Coleridge, Arcivescovo di Brisbane, Australia – osserva con perfetta naivité conciliare che siamo stufi di sentir parlare la Chiesa con “il linguaggio della crisi”, stufi di sentire raffigurazioni “crude” e negative della realtà. Realtà che, abbandonando le categorie chiare e concrete del tomismo, assume i nebbiosi contorni che il fumo modernista più ama:

“I don’t think we can any longer say that we condemn the sin but not the sinner”, states the archbishop.

“A person will say in the cultures that you and I come from that my sexuality isn’t just part of me, it’s part of my whole being,” he states. “Therefore, you can’t isolate my sexuality by identifying it with this act that you call intrinsically disordered that is somehow distinct from or separate from me, the sinner”.

[Trad.: “Non credo che possiamo ancora affermare di condannare il peccato ma non il peccatore”, afferma l’Arcivescovo. “Una persona proveniente dalle nostre culture (occidentali, ndr) non può ammettere che la sessualità non sia parte della sua intera essenza”, dice. “Non si può dunque isolare la sessualità di alcuno identificandola con un atto, chiamare questo atto intrinsecamente disordinato e volerlo vedere come qualcosa di separato dalla persona, dal peccatore”.]

Ma certo. A suo modo, la riflessione del Salomone australiano è consolante anche per il cattolico brutto sporco e cattivo che crede ancora alle parole di Cristo; perché mai sforzarsi di odiare il peccato e di amare il peccatore – sforzo invero gravoso – quando si può impacchettare soggetto e azione in un unico fascicolo e decidere in piena libertà di odiare entrambi? O di amare entrambi, come forse il prelato voleva suggerire.

Del resto, la cronaca davvero incoraggia una visione meno pessimista del secolo, suggerendo di abbandonare “il linguaggio della crisi”, e, ove possibile, anche la dottrina, la fede e (se rimasta) la decenza.

Primo caso: John Murphy, congedato da un istituto di carità diocesano in Richmond (suffraganea di Baltimora, USA) a seguito del suo “matrimonio” gay, ha impugnato il licenziamento lamentandone il carattere discriminatorio, facendo quindi causa alla Diocesi. Lasciamo ad altra sede le riflessioni, anche giuridicamente interessanti, su “libertà religiosa” e “free speech”, tanto decantati, anche da Bergoglio in occasione del recente viaggio, quanto illusorii (in questo caso, non sono proprio pervenuti). Meglio così, forse – vogliamo essere ottimisti, come Coleridge – qualche americanista sfegatato aprirà gli occhi e capirà che di fronte alla perversione omofila non è la perversione liberale la cura più efficace.

Secondo caso: un ameno ritrovo femminista argentino a Mar del Plata (Buenos Aires) si trasforma in delirio vandalico-orgiastico in occasione del quale la città viene imbrattata da scritte oscene e blasfeme, la cancellata della cattedrale abbattuta e il cordone di fedeli riuniti in preghiera preso di mira da raffiche di oggetti contundenti, sputi e spazzatura. Ma il problema, chiaramente, è la cupa diffidenza cattolica verso la modernità, il linguaggio inadeguato ai tempi.

Ora, a fronte di simili spudoratezze – e sia chiaro, non riteniamo i chierici traditori del proprio mandato migliori delle femmin-isteriche dalla bestemmia facile, che se non altro sono meno ipocrite – fa quasi tenerezza leggere che c’è ancora chi issa lo stendardo dei “vescovi africani resistenti” o dei cardinali firmatari di chissà quale sconvolgente lettera che cambierà le sorti dell’assise sinodale (salvo disconoscerla ventiquattr’ore dopo). Come abbiamo già scritto, la sconfitta è a monte, ossia nel rendere discutibile l’indiscutibile e “pastorale” (si scrive pastorale, si legge mutevole) l’immutabile.

Lobbying? Anche. Lobbying contro Francesco, a suo dispetto, come molti suggeriscono? Vaneggiamenti. Dimentichiamo che l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (qui un sintetico commento) l’ha composta Bergoglio e che vi si può leggere, come giustamente sottolineato da Rorate Caeli, una sorta di programma di devolution[*] cui la “detonazione controllata” del Sinodo è perfettamente funzionale.

Araldi bergogliani, chetatevi perché il vostro paladino non è certo vittima di un complotto ordito a suo danno. La lenta “bollitura della rana” che vuol fare accettare a tutto l’orbe cattolico l’inaccettabile, il cammino felpato dello schiacciasassi rivoluzionario, la verbosa confusione terminologica e filosofica, il dico-nego modernista…, non sono “mali della Chiesa” estranei a chi siede in Vaticano (emerito o meno) ma tappe precise di una strategia pensata, in cui l’autorità è impiegata a presidio non dell’ordine ma del caos.

Ciascuno tragga le conclusioni più opportune.

 


 

Radio Spada anche quest’anno segue il Sinodo con attenzione. Ti possono interessare:

 


[*] 31. Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade. Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, dovrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Codice di diritto canonico e di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti. Ma l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti.
32. Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.
33. La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale.