di Isacco Tacconi
Dopo la precedente introduzione dedicata alla persona di John Ronald Reuel Tolkien cominciamo ora questo nostro viaggio prendendo in esame il piccolo-grande protagonista del Signore degli Anelli: Messer Frodo Baggins.
Anzitutto dobbiamo rilevare come questo personaggio non si possa realmente comprendere, né d’altra parte avrebbe senso, se non in relazione al protagonista “implicito” del libro: l’Anello. La vita di Frodo difatti è intrecciata all’esistenza dell’Anello e tutto il suo ruolo si svolge e si esaurisce in riferimento ad esso. Vedremo, perciò, come l’Unico Anello sia anch’esso un vero e proprio “personaggio”.
Ma perché l’oggetto che tiene in scacco tutti i personaggi del libro, Sauron incluso, è un “anello”? Perché mai Tolkien ha scelto proprio questo oggetto e non un altro come punto focale e catalizzatore di tutto il suo racconto? Certamente il riferimento letterario a Sigfrido e alla saga dei Nibelunghi che il dotto professore di Oxford conosceva molto bene è indubbio, ma il valore simbolico e il ruolo dell’Anello è troppo profondo e centrale per poter essere soltanto una citazione dotta o una mera “copia” delle epopee nordiche.
Bisogna notare, infatti, che caratteristica dell’Unico Anello è il suo influsso sulla volontà di coloro che vi entrano in contatto. La forza attraente dell’Anello su tutti coloro che lo guardano è paragonabile alla forza attraente che i beni finiti, ossia il piacere sia intellettuale che sensibile, esercitano sulla volontà dell’uomo; in altre parole l’azione che l’Anello, non a caso chiamato “del potere”, svolge per conto dell’Oscuro Signore è la “tentazione”. Al pari della tentazione al peccato, l’Anello si “adatta” alla dimensione della mano di colui che ne entra in possesso o meglio in contatto giacché, in realtà, nessuno è “padrone” dell’Anello neppure Sauron che ne è l’autore. Al contrario si potrebbe dire che l’Anello diventa il padrone di colui che lo usa schiavizzandolo, allo stesso modo in cui il peccato, liberamente commesso dall’uomo, lo rende schiavo del peccato come dice San Paolo. La triste storia dell’hobbit Smeagol divenuto la spregevole creatura Gollum ne è l’esempio più drammatico.
Ma perché si chiama l’Anello “del Potere”? a quale potere fa riferimento? Solo alla supremazia dell’Oscuro Signore sui popoli della Terra di Mezzo? Questo non avrebbe alcun senso giacché tutti quanti sono tentati dal potere dell’Anello ma non per sottomettere le nazioni. Anzi, i buoni come Gandalf, Galadriel o Boromir sono attirati dall’Anello ma non manifestamente per compiere il male. Il male sempre si presenta come bene altrimenti non riuscirebbe ad indurre gli uomini a compierlo, solo il Demonio compie il male per il male non provando in esso né piacere né soddisfazione.
Dicevamo, perciò, che i buoni sono sì tentati di usare l’Anello ma per fare del bene. Come si vede la dinamica del peccato originale come quella del peccato attuale di ogni uomo è la stessa: fare affidamento sulla propria forza di volontà o sulle proprie buone intenzioni. Quando l’uomo pecca decide di fare il male per raggiungere un bene, vuole cioè farsi arbitro del bene e del male, utilizzando il male come via verso il bene. Nel peccato l’uomo vuole disporre del bene e del male, vuole cioè diventare come e più di Dio con le proprie forze. Questa è una costante ciclica nella storia dell’umanità dalla Torre di Babele all’ideologia filantropico-pacifista odierna radicata nel naturalismo antropologico. Ciò che fa difetto però non è che l’uomo desideri divenire come Dio giacché questo è stato il piano di Dio fin da prima della creazione. Dio, infatti, ha messo nel cuore dell’uomo il desiderio del Bene Infinito e dell’Eterna Felicità che è Dio stesso, Egli aveva già stabilito di far partecipare gratuitamente Adamo ed Eva della propria natura divina. I progenitori perciò sarebbero si diventati “come déi” ma per Grazia e non con le loro forze. Ma l’essenza del peccato è proprio questa, voler cioè fare il bene attribuendo a se stessi la capacità di farlo anziché a Dio che è l’autore di ogni bene e il Bene stesso.
La tentazione, poi, differisce da persona a persona a seconda dell’indole, delle inclinazioni, delle circostanze e del ruolo ma per tutti essa spinge al male anche se sotto la veste del bene, un bene parziale, apparente, non ordinato al fine e che in definitiva diviene male per colui che lo desidera perché lo distoglie dal Fine Ultimo che è il Bene Assoluto. Non può esistere la “tentazione al bene” e ciò mette in luce l’essenza perversa del peccato che lo rende inutilizzabile, ossia segnato da un divieto. Detto in termini moralmente più appropriati “il fine buono non giustifica mai i mezzi illeciti cioè cattivi”. Nel caso dell’Anello, al pari di un qualsiasi altro oggetto o azione malvagia in sé stessa, la regola sarà: non è possibile utilizzare un mezzo intrinsecamente malvagio per ottenere un qualsiasi bene. Questa sarà la lezione che tutti i protagonisti del Signore degli Anelli dovranno imparare loro malgrado e ciò porterà alcuni all’autodistruzione (Gollum, Denethor, Saruman), altri alla frustrazione (Bilbo, Boromir), e tutti all’impotenza di poter utilizzare l’Anello per il bene nonostante le buone intenzioni.
A questo punto diventa più chiaro come l’Anello sia la rappresentazione allegorica del “peccato” ed è per questa stessa ragione che i buoni non possono utilizzarlo, l’unica possibilità che resta loro è distruggerlo, distruggere cioè il peccato, causa di ogni male sulla terra. Ma per adempiere a questa missione indispensabile alla salvezza della Terra di Mezzo è necessario che qualcuno “porti il peso del peccato” ossia che si faccia “portatore” del male per essenza per distruggerlo una volta per tutte. Colui che lo porterà dovrà essere uno che non ne subirà il malefico influsso tentatore, dovrà riuscire a vincere la tentazione di usarlo che è, come sempre il male, la via più facile. È necessario colui che la Sacra Scrittura definisce “l’innocente di mani e puro di cuore” (Psal 23,4). Serve qualcuno che si offra “liberamente” in sacrificio d’espiazione per tutti, che porti il peso del peccato di tutti senza lasciarsi vincere da esso, in definitiva serve un capro espiatorio: una vittima.
È interessante che Tolkien ritenga che per gli hobbit il passaggio alla maggiore età avvenga proprio ai 33 anni, gli anni della pienezza di Nostro Signore, gli anni in cui la virilità raggiunge il suo vertice, l’età in cui il Figlio di Dio scelse di abbracciare la Croce. Vero è che Frodo aveva sui cinquant’anni quando partì da Casa Baggins e non trentatré, ciononostante il concetto fondamentale è che il “portatore dell’Anello” è una persona matura, non un giovincello avventato. In realtà scopriamo che Frodo aveva la stessa età di Tolkien quando pose mano al Signore degli Anelli, i due cioè erano coetanei.
Ad ogni modo la scelta di Frodo di addossarsi quel penoso “fardello” non è priva di sofferenza, e la consapevolezza che dalla propria fedeltà o infedeltà dipenderà il destino di molti segna il suo cammino aumentandone il peso morale. Lui sa che deve farsi forte per i deboli, andare avanti quando gli altri cederanno e questo è forse un peso maggiore della stessa tentazione dell’Anello. “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni”, esclamò Frodo. “Anch’io” annuì Gandalf, “vale per tutti coloro che vivono in tempi come questi. Ma non tocca a noi decidere. Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso”. Questa consapevolezza richiama un altro dogma fondamentale della nostra divina Fede Cattolica ossia la Communio sanctorum. Tale articolo del Credo ci rivela che c’è una compartecipazione ai beni spirituali fra i santi, e il bene che ogni anima battezzata compirà per carità di Dio ridonderà a bene dell’intero Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa Cattolica. C’è quindi una circolazione della Grazia e un sostegno reciproco tra la Chiesa militante, la Chiesa Purgante e la Chiesa Trionfante dei beati. A questo stesso principio, ossia che ogni buona azione porta frutto a suo tempo, fa riferimento Gandalf quando ricorda a Frodo che Bilbo pur potendo fare il male non lo fece. “La pietà di Bilbo – dice Gandalf – può decidere il destino di molti”.
La somiglianza tra Frodo Baggins e Nostro Signore Gesù Cristo emerge velatamente, grazie all’intensità della narrazione e alla carica simbolica di cui Tolkien disponeva essendo un cattolico estremamente profondo e sensibile. Infatti, lo hobbit è il più piccolo essere della Terra di Mezzo, certamente non scelto per la sua forza né per la sua saggezza quanto per la sua umiltà. Il legame degli hobbit con la terra, con l’humus esprime proprio la caratteristica della loro semplicità ed umiltà. Queste creature infatti vivono sotto terra, coltivano la terra, la rendono bella, piacevole e accogliente; hanno i piedi grandi ben piantati a terra. Potremmo quasi dire che gli hobbit vengano dalla terra e ciò ci riporta alla creazione dell’uomo plasmato da Dio con la polvere della terra. La stessa parola latina homo ha la sua radice etimologica precristiana nella parola humus, segno chiaro della costituzione ontologicamente terrestre dell’uomo in accordo con quanto rivela la Genesi.
Proprio queste umili origini di Frodo Baggins rendono il suo eroismo radicalmente opposto a quello dei romanzi cavallereschi classici e ancor più a qualsiasi eroe prodotto dalla letteratura umanista e antropocentrica contemporanea: i supereroi dei fumetti americani ne sono la più ridicola e banale espressione.
Chi mai, infatti, avrebbe pensato fra i grandi re degli uomini e i sapienti re degli elfi che il “salvatore” della Terra di Mezzo sarebbe giunto dalla sperduta e insignificante contrada della “Contea”? Ciò richiama l’esclamazione dubbiosa di Natanaele: “Può mai venire qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv 1,46) e la risposta di San Paolo spiega quanto i piani della Divina Provvidenza siano lontani e imperscrutabili alla sapienza umana: “La stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini (e degli elfi, per non parlare dei nani)”.
Lo stesso viaggio verso il Monte Fato ricalca in maniera analogica le modalità e il fine del viaggio di Nostro Signore al Calvario, ossia il ritorno sul luogo dove il peccato originale è stato compiuto, reimpiegando lo stesso mezzo con cui era stata perpetrata la grande offesa contro Dio.
C’è una tradizione e delle rivelazioni private secondo cui Adamo fu seppellito su quello che sarà il Gòlgota cioè il monte Calvario. Tali tradizioni affermano poi che il legno dell’albero della conoscenza del bene del male da cui i progenitori presero il frutto del peccato, sarà lo stesso legno riemerso dopo secoli e utilizzato dai giudei per fabbricare la Croce alla quale inchiodarono Nostro Signore. Per questo nel Prefazio della Santa Croce la Chiesa prega: «unde mors oriebàtur, inde vita resùrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur» («affinché donde aveva avuto origine la morte, di là scaturisse la vita; e chi nel legno aveva vinto, proprio nel legno fosse vinto»). Nel caso dell’Anello del Potere l’elemento d’origine non è il legno ma il fuoco. Quel fuoco da cui fu tratto l’Anello è lo stesso fuoco che lo distruggerà.
Anche gli altri membri della Compagnia dell’Anello si offrono di accompagnare la “vittima” cioè Frodo nel suo viaggio al Monte Calvario, liberamente offertosi come Cristo per la salvezza del mondo. Dice Frodo: “Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle”. In una parola: sacrificio. La morte di uno è il prezzo per la salvezza di molti. Quello che la Compagnia compie, dunque, è una vera e propria Via Crucis. Singolare poi il fatto che Frodo nel momento estremo della distruzione dell’Anello simbolo del Peccato si trovi solo, eccettuato Samwise Gamgee suo fedele servitore. L’“eroe” in questo caso non si trova a dover affrontare un drago o un mostro esteriore come Beowulf o Re Artù, ma deve vincere se stesso e l’interiore attrazione che il male esercita sulla sua volontà; quello di Frodo è un terribile combattimento interiore. Il resto dei membri che con lui erano partiti, non ci sono più, egli è da solo sul Monte, solo dinanzi al Male e all’estrema tentazione dell’Anello che sembra sopraffarlo rendendo vano tutto il viaggio compiuto fin là. In questa sconfitta finale e tragica del Portatore dell’Anello si vede inoltre come tra Frodo e il Cristo vi sia soltanto una analogia e non una identificazione. Sappiamo, poi, che Tolkien non ebbe l’intenzione esplicita di fare di Frodo una sorta di “figura messianica” ma, come abbiamo detto nel precedente articolo, una vera opera d’arte supera e sublima la semplice intenzione dell’artista realizzando non soltanto il desiderio della volontà ma anche tutto quel bagaglio di valori, di credenze e di virtù vissute che costituiscono la personalità stessa dell’artista. Da un’opera d’arte, infatti, conosciamo dell’artista molto di più di quanto egli non voglia effettivamente mostrare. Per questo dinanzi agli orrori e alle aberrazioni della cosiddetta “arte contemporanea” conosciamo lo stato dell’anima di questi artisti maledetti ovvero che sono anime vuote, morte alla Grazia e abbrutite dal peccato e questo lo esprimono nell’arte che producono che è ontologicamente, metafisicamente, inevitabilmente “BRUTTA”.
Ma torniamo alla Bellezza, che è uno con la Bontà e la Verità. La debolezza di Frodo, dunque, è coerentemente figura e paradigma del cristiano. Ogni cristiano, infatti, incede su questa “Terra di Mezzo” sul cammino verso il Monte “Fato” che è la Croce del Calvario, fra continue cadute e sinceri pentimenti. Il messaggio sotteso a tutta la narrazione deve essere chiaro: la vita dell’uomo su questa terra è un Purgatorio, nata e segnata dalla sofferenza. “Gli anni della vita dell’uomo sono settanta, ottanta per i più robusti ma quasi tutti fatica e sofferenza” dice la Sacra Scrittura. Tolkien, essendo nato in un’epoca “più cattolica”, aveva ben presente questa realtà, o meglio aveva ben presente “La realtà”, consapevole che l’uomo vive, esiste al solo scopo di guadagnarsi con l’ascesi, la mortificazione interiore e il sacrificio di carità i Beni eterni che la tignola non consuma né i ladri possono rapinare. Inutile lamentarsi delle sofferenze del tempo presente, non sta a noi decidere, dice Gandalf, il cristiano sa che il tempo non dipende da lui ma l’impiego che farà del tempo sì, e su questo verrà giudicato. Il Serafico padre San Francesco d’Assisi era solito ammonire i suoi frati dicendo loro: “Fratres, dum tempus habemus operemur bonum”.
Ed è proprio nel Tempo che la Provvidenza Divina supera e soccorre le deboli forze dell’uomo. Quando tutto sembra perduto, quando la disfatta sembra completa sul “Monte il Signore provvede”, e quell’essere meschino e malvagio che è Gollum, grazie a quell’incomprensibile atto di pietà di Bilbo, diviene in quell’ora estrema lo strumento della Provvidenza per portare a termine la missione di Frodo. Ciò manifesta la visione teleologica ed escatologica cristiana del Male il quale, in fin dei conti, per quanto possa sforzarsi nei suoi scopi oscuri, resta sempre uno strumento nelle mani della Sapienza Divina, e malgrado se stesso concorrerà a compiere i disegni divini. Il Male, quindi, non sfugge all’Onnipotenza divina, come il sinedrio e Giuda Iscariota aizzati da Satana credono di raggiungere i propri scopi, in realtà sono strumento per compiere il piano divino di Redenzione fissato fin dall’inizio dei tempi e che era stato annunciato dai profeti.
Infine il vero Signore degli Anelli non è Sauron ma neppure Frodo giacché anch’egli ne subisce il fascino. Sant’Antonio da Padova diceva che è vero signore soltanto colui che riesce a signoreggiare se stesso, colui che è dominus sui. Nel Signore degli Anelli solo Sam nella sua semplicità di “giardiniere”, riesce a vincere la seducente attrattiva dell’Anello del Potere creato dall’angelo caduto per ghermire e incatenare nell’oscurità. Accompagnando il suo padrone verso il Monte, Sam condivide il giogo e il peso dell’Anello come il Cireneo la Croce di Nostro Signore.
In ultima analisi, la missione di distruzione dell’Anello rivela come per vincere la tentazione al peccato e praticare le virtù sia necessario il sostegno e il conforto di un amico. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, del sostegno e della preghiera altrui. L’amicizia cristiana si basa infatti sull’Imitazione di Cristo che ha comandato di servirci gli uni gli altri e di amarci come Lui ci ha amato morendo per noi sulla Croce. Alla vita cristiana è necessario il sostegno e la carità fraterna, la fedeltà, la lealtà, l’amicizia cristiana, lo spirito di sacrificio per amore del fratello e dell’amico. Quale altra religione umana insegna l’immolazione di sé per amore di Dio e del prossimo? Nessuna.
Ma la libera e generosa offerta di Frodo lo condurrà molto al di là del Monte Fato. La sua missione non finirà con un ritorno a Casa Baggins. La vita terrena, la verdeggiante Contea, la locanda, i canti e le amicizie hanno perso per lui, ormai, ogni attrattiva: desidera soltanto la Pace. Il suo Calvario gli ha meritato l’ingresso nel Riposo eterno, alla beatitudine dei santi, al di là dell’oceano, lontano ad ovest.
«Paradiso, o paradiso!» esclamava gemente San Filippo Neri infiammato per il desiderio della vita eterna. Esso è la Meta ultima di questo penoso viaggio che è la vita, per coloro che avranno perseverato fino alla fine. Tale è la disposizione interiore che il cristiano dovrebbe nutrire nel cuore: il costante, intimo, ardente e gemente desiderio di essere per sempre con Cristo e in Cristo in Paradiso per essere ricongiunto all’Amore del suo cuore e per Lui rinunciare al mondo intero.
Tale atteggiamento traspare delicato nella dipartita di Frodo che Tolkien narra con toni di mistica poesia quasi desiderasse essere egli stesso, con Frodo, su quella nave per Valinor: “Allora Frodo baciò Merry e Pipino e per ultimo Sam, e salì a bordo; le vele furono issate, il vento soffiò, e lentamente la nave scivolò via lungo il grigio estuario; e la luce della fiala di Galadriel che Frodo teneva alta scintillò e svanì. La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”.
bellissima presentazione, grazie.
Articoli meravigliosi, da lacrimoni, umilmente grazie infinite.
mio cognato Robert Lazu, filosofo e teologo cattolico che che in Romani ha scritto molti libri su Tolkien, hacosi commentato: Caro Gianni,
La interpretazione proposta da questo autore – jeannedarc? (chi è…?) – è veramente meraviglioso.
Questo articolo ha solo un problema: è breve (corto). ?
Alcune delle sue idee merita di essere sviluppato. Ad esempio, la distinzione tra eroismo di Frodo e l’eroismo di “romanzi cavallereschi classici”. O la discussione su la rappresentazione allegorica del “peccato” (Tolkien non piace la nozione di “allegoria” – un altro concetto deve essere usato).
Ma, in ogni caso, l’articolo è molto utile per qualsiasi lettore di opere di Tolkien.
Molto grazie!
In Jesu et Maria,
Robert
scusate ma l’autore, scritto in bella evidenza, è Isacco Tacconi.
Scusate ma non ero in grado di identificare immediatamente il nome dell’autore … perché nel mio browser compare sotto l’immagine, non sotto il titolo dell’articolo. È questo a causa di un problema tecnico? Grazie mille “jeannedarc” per la risposta.