«I delusi siamo noi, delusi due volte:
delusi ieri, delusi oggi; delusi della dittatura, delusi della democrazia;
delusi degli opposti ideali, delusi degli stessi risultati. […]
Ci ritroviamo vecchi soldati di un esercito coi tamburi bucati,
e marciamo a casaccio dietro la bandiera di Arlecchino»
(Leo Longanesi, I delusi)
di Luca Fumagalli
Raffaele Liucci è uno studioso attento delle “cose d’Italia”. Nei suoi libri accompagna il lettore con singolare lucidità alla scoperta delle ambiguità e delle contraddizioni del periodo postbellico. L’Italia borghese di Longanesi è l’ennesima dimostrazione della singolare capacità del saggista milanese di alternare leggerezza a gravità, analizzando aspetti della storia nazionale che, per svariati motivi – e non sempre in buona fede – sono stati passati sotto silenzio o solo superficialmente affrontati dagli studiosi. In questo senso si inserisce la sua appassionata disamina dell’esperienza editoriale de «Il Borghese», giornale fondato da Leo Longanesi nella Milano del 1950 e destinato, con alterne fortune, a segnare un punto fondamentale nella storia nazionale.
La vita del singolare esperimento giornalistico longanesiano – il terzo dopo «L’Italiano» e «Omnibus» – ha inizio in un periodo sostanzialmente negativo dal punto di vista culturale, caratterizzato dal grigiume della sclerotizzazione politica interna e internazionale. La stampa periodica d’attualità, con «Il Borghese» in testa, fu proprio il primo settore in cui iniziarono a scorgersi segnali d’insofferenza per la subordinazione dell’offerta giornalistica alle autorità di governo e ai notabili dei partiti d’opposizione.
Nel periodico confluirono vecchi e giovani del giornalismo italiano che contribuirono, secondo le diverse sensibilità politiche e culturali, a formare l’identità varia e oppositiva della rivista, innalzandola oltre la media delle pubblicazioni dell’epoca. Se Montanelli ne fu la colonna ideologica – tra individualismo anarchico e revisionismo storico – Longanesi era il factotum che, oltre a curare l’impaginazione e la veste grafica, interveniva direttamente sugli articoli dei suoi collaboratori, sovente modificati per meglio integrarsi nel tessuto del numero in fase di impaginazione. Sagace e sprezzante innovatore, il direttore era l’unico in grado di tenere insieme, all’interno di un progetto coerente, il nichilismo anti-italiano di un Prezzolini, il conservatorismo postfascista di un Ansaldo, l’anticomunismo di un Peirce e il neofascismo di un Tedeschi (che rilevò la testata dopo l’improvvisa dipartita di Longanesi nel ’57). Più che una tribuna ricca di individualità, «Il Borghese» era una piccola ma agguerrita milizia capace di muoversi in modo armonioso e compatto, come un sol uomo.
È impossibile però individuare nella rivista una linea politica dai confini certi. Lo scopo de «Il Borghese» era infatti quello piuttosto generico di dare voce a quella borghesia italiana che inclinava esplicitamente a destra, che non si identificava nella Resistenza, che nutriva una generica ostilità verso il pensiero progressista e che non accettava l’opinione secondo la quale il fascismo fosse il male assoluto della storia d’Italia. Al contempo, tra le pagine non si coglieva nessuna traccia di nostalgismo, se non il rimpianto per un vago ideale risorgimentale, per quell’Italia giolittiana e liberale a cui Longanesi fu sempre legato: l’unico passato per cui valeva davvero la pena combattere. Ma diversi fattori, tra cui la fallimentare creazione di una rete di circoli politici legati alla testata e sparsi per tutto il territorio nazionale, mostrarono l’inattuabilità del progetto. Mancavano gli spazi per creare un’alternativa a destra della DC, un partito afasico che, con il suo peso elettorale, aveva immobilizzato l’Italia. Nonostante tutto, però, quella stessa “balena bianca” che Longanesi accusava di ogni nefandezza, rimase per molto tempo l’unica possibile alternativa di governo al “pericolo rosso” costituito dal PCI. Il celebre aforisma «Vota per la democrazia Cristiana, ma non dirlo ai vicini» vale come riassunto del pensiero longanesiano in merito alla questione.
L’unica chiara ideologia de «Il Borghese» fu dunque la sua intrinseca anti-ideologia, figlia di diverse tradizioni giornalistiche di inizio ‘900 come quella di Luigi Albertini e di Edoardo Scarfoglio, entrambi promotori, nella scomoda posizione di direttore, di un singolare conformismo travestito da irriverenza. A partire da questo retropensiero, lo stile longanesiano sfociò in una sorta di “cinismo estetizzante” con la tendenza a confondere piano etico ed estetico nel momento di esprimere un giudizio politico (con il rischio di banalizzare e ridicolizzare acriticamente ogni idealismo militante). Non a caso, se «Il Borghese» fu splendido nel suo ruolo d’opposizione, a volte si impantanò in un dadaismo intellettualistico alla lunga inconsistente e poco incisivo. L’elogio del meridione rurale e incorrotto in confronto alla caotica modernità di Milano è un esempio, a suo modo dei più riusciti, di un atteggiamento che a volte, dietro l’arguto fraseggiare, nascondeva un qualunquismo di cui la rivista fu spesso accusata e che si acuì col passare del tempo, di pari passo alla crescente disillusione di Longanesi.
Eppure, a distanza di molti anni, Leo Longanesi e il suo «Il Borghese» rimangono un momento determinante nella storia d’Italia. Dal punto di vista culturale si produsse infatti una linea giornalistica che, attraverso tutto un secolo, continua ancora oggi a mietere i suoi frutti. «La Repubblica» di Scalfari e «Il Giornale» fondato da Montanelli sono solo due tra le testate più diffuse che si ispirano, più o meno direttamente, all’ingegno del romagnolo. Un modo di fare giornalismo che considera la carta stampata un mezzo più formativo che informativo, ma che al contempo ha avuto il grande merito di creare uno strumento educativo alternativo e convincente.
Il libro: R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 215.