Listener (1)

«Tutti i conflitti umani sono ultimamente conflitti teologici»

(H. E. Manning)

di Luca Fumagalli

L’aspetto maggiormente esecrabile del modernismo, quello che in qualche modo rende ragione della sua natura più profonda, è il sentimento di sprezzante superiorità che dimostra nei confronti del passato, come se la Chiesa avesse insegnato per duemila anni puerili inesattezze, inadatte all’adulto e maturo mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II ha elevato questa cultura a rango di verità, e tutti gli archeologismi e i sofismi che si sono susseguiti a ritmo frenetico negli anni del postconcilio sono stati generati dal desiderio dei novatori di riscattare la cattolicità dalla propria presunta ignoranza. L’esito è sotto gli occhi di tutti, e più che una nuova pentecoste si assiste all’ennesima scena di una tragicommedia mediocre e noiosa di cui, purtroppo, non si intravede la fine.

L’epoca di Bergoglio non ha fatto altro che confermare la deriva del cattolicesimo verso le spiagge poco accoglienti del criterio mondano. Il sinodo sulla famiglia, solo per fare un esempio recente, ha nuovamente ribadito una sorta di primogenitura del mondo che anticipa e informa la stessa Chiesa. L’antroposofia montiniana continua dunque a trovare nuovi adepti all’interno di un quadro teologico che, sovvertendo la dottrina tradizionale, prende marxisticamente le mosse da una prassi che dà corpo alla fede. Si tratta di una spaventosa contraddizione che porta a sostituire l’uomo a Dio, l’esperienza soggettiva alla verità oggettiva.

Il primo merito di Non possumus, il nuovo saggio di Pietro Ferrari che, come recita il sottotitolo, ha lo scopo di indagare proprio le deviazioni dottrinali e liturgiche del Concilio Vaticano II, è quello di essere un prodotto editoriale unico. Non che manchino volumi dedicati al tema – ce ne sono, al contrario, fin troppi – ma mai nessuno era riuscito con piglio così sistematico a riunire in una pratica raccolta le principali ragioni per una critica profonda alla rivoluzione conciliare, presentate al lettore in uno stile serio e godibile. La penna dell’autore si muove agile, districandosi con efficacia tra i tecnicismi e l’ampio apparato citazionistico messo in campo, abile nel confezionare un prodotto rivolto a un pubblico più ampio della ristretta cerchia degli esperti. Inoltre, il tappeto storico che accompagna e rende ragione degli argomenti esposti nel volume contribuisce a restituire un po’ di carne al discorso teologico che, per sua stessa natura, corre il rischio alla larga di risultare astratto o noioso.

I capitoli spaziano da argomenti di ampio respiro a momenti più attentamente dedicati alle deviazioni conciliari che hanno per oggetto la riforma del Messale e i nuovi Sacramenti e sacramentali. Ne risulta un ritratto d’insieme tutt’altro che scontato, capace con pochi tratti di restituire il sapore di un cambiamento epocale in atto, di uno sradicamento della tradizionale dottrina cattolica in nome di quel moderno vitello d’oro che prende il nome di ecumenismo.

Allo stesso tempo Non possumus si incarica di sfatare alcuni miti del postconcilio, soprattutto le presunte tendenze conservatrici che qualcuno ha preteso di rintracciare nei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Entrambi, al di là dei luoghi comuni, rivelano una perfetta continuità con i nuovi insegnamenti del Concilio. Wojtyla, per esempio, parlò in toni elogiativi dell’ «eredità spirituale di Lutero», partecipò al culto anglicano nella cattedrale di Canterbury e ricevette regolarmente membri della potente massoneria ebraica del B’nai B’rith, con cui aveva instaurato rapporti di collaborazione. Anche Ratzinger, in giovane età una delle punte del progressismo europeo, ha parlato in anni recenti della paternità spirituale degli ebrei – che possono salvarsi anche senza credere in Cristo -, ha messo in dubbio in alcuni suoi scritti la veridicità del racconto evangelico e nella Caritas in Veritate impiega un linguaggio più sociologico che religioso per offrire un contributo cristiano all’agenda del G8.

Ma la novità principale del libro di Ferrari, più che la diagnosi, è la cura proposta. Non possumus, infatti, condisce le sue pagine di una pungente critica dal gusto sedevacantista, uno sguardo interpretativo che, come ricorda Piergiorgio Seveso nell’elegante postfazione al volume, è una boccata di aria fresca «dopo anni e anni di mantra sull’ “ermeneutica della continuità” ripetuti sino alla nausea, di antichi ma sempre rinnovati refrains sul “Concilio da interpretare alla luce della tradizione”, di “ripareggiatori” tanto messianicamente invocati ma mai giunti tra i nostri libri». A partire da questa ipotesi, l’autore si lancia in una disamina precisa e ricca che conduce a un coraggioso impatto con il problema dell’autorità, una questione che non è certo secondaria, costituendo anzi il cuore stesso della rivoluzione conciliare.

Nelle parole di Ferrari l’opposizione al Concilio prende la forma di una radicale scelta di vita che, lungi dal mero estetismo dei pizzi e dei merletti, si sostanzia in una lotta quotidiana, combattuta  prima di tutto con se stessi. Non esistono opzioni, compromessi o sotterfugi: il cattolicesimo o è integrale o non è; ed è proprio con questa sfida implicita che si chiude Non possumus. La conclusione, però, non è disperante, non parla di una sconfitta irrimediabile che, data l’evidente sproporzione tra le forze in campo, sembrerebbe cosa certa. Della parte del vero cattolico c’è Cristo, una luna che tinge di desiderio e speranza anche le tenebrose acque del pozzo conciliare.

Il libro: P. FERRARI, Non possumus. Indagine sulle deviazioni dottrinali e liturgiche a 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, Reggio Emilia, Radio Spada, 2015.