«Il sacrificio della messa è la più orribile blasfemia che si possa immaginare»
(Hugh Latimer, riformatore anglicano)
di Luca Fumagalli
All’epoca di Elisabetta, Edmund Plowden era considerato come il giurista più eminente e più integro del suo tempo. La regina gli portava una tale ammirazione da arrivare a offrirgli la carica di Gran Cancelliere, se avesse rinunciato alla sua fede cattolica. Plowden rifiutò di lasciarsi comprare. Un giorno in cui difendeva un cliente accusato di aver ascoltato una messa, scoprì che il rito era stato compiuto da un agente provocatore che si era fatto passare per un prete. «L’accusa non tiene più», disse, «niente prete, niente messa!».
Sovente la saggistica e la narrativa hanno sapientemente affrontato lo spinoso tema della Riforma anglicana e, in particolare, del terribile e sanguinoso regno di Elisabetta, in cui decine di cattolici furono martirizzati in odio alla fede. I “recusant” erano considerati traditori che si rifiutavano di sottomettersi alla chiesa di stato. Resistettero fino a quando fu possibile, ma presto la ferocia protestante si abbatté su di loro e la Chiesa cattolica inglese fu costretta alla clandestinità per almeno due secoli e mezzo.
Meno studiati sono invece i motivi e le modalità che resero possibile nel giro di pochi anni la trasformazione di un tranquillo paese periferico della cristianità in un covo di protestanti viscerali. Ciò è ancora più sconcertante se si pensa che nel 1521 Enrico VIII era stato insignito da Leone X del titolo di “difensore della fede” per le sue tesi antiluterane.
La breve storia di Plowden porta allo scoperto quale fu la peculiarità della Riforma anglicana rispetto ai movimenti protestanti dell’Europa del XVI secolo. Essa, infatti, si contraddistinse dapprima per una rottura dell’unità con Roma e solo in seguito, durante il regno di Edoardo VI, avvenne la Riforma vera e propria, promossa dal vescovo Cranmer attraverso un’astuta sovversione della liturgia.
Michael Davies nel suo pregevole saggio intitolato La riforma anglicana. La distruzione del cattolicesimo attraverso la rivoluzione liturgica (Editrice Ichthys) si concentra soprattutto su quest’ultimo aspetto, andando a indagare le origini della “cena del Signore” anglicana. Lo scopo, scopertamente promosso dall’autore nella prefazione, non è solamente quello di studiare la fisionomia del protestantesimo inglese, ma anche e soprattutto di mostrare l’analogia che esiste tra le istanze di Cranmer e le innovazioni promosse dal Novus Ordo Missae montiniano.
Michael Davies, del resto, è noto per essere stato uno degli esponenti principali del “tradizionalismo” anglosassone. Inglese di origini gallesi, dopo essersi convertito al cattolicesimo, divenne estimatore e seguace di Marcel Lefebvre. Il desiderio di difendere la Chiesa dalla tempesta scatenata dal Concilio Vaticano II lo portò a scrivere diversi saggi di carattere apologetico. Tra il 1995 e il 2003, un anno prima della scomparsa, fu anche presidente della Federazione Internazionale “Una Voce”.
Il libro, dopo una parentesi iniziale dedicata alla teologia cattolica del sacerdozio e della messa, entra nel cuore della questione, conducendo il lettore nell’Inghilterra di Enrico VIII. La chiesa nazionale, creata a seguito del rifiuto di Roma di annullare le sue nozze con Caterina d’Aragona, si mantenne quasi identica alla Chiesa universale sia in materia di morale che di dottrina. Si trattò dunque di uno scisma, ma non di un’azione eretica. Il gesto, evidentemente grave, non ebbe alcun legame con la Riforma come comunemente la si intende. Il sovrano rifiutava certamente di riconoscere l’autorità del Papa, ma non solo non negava la transustanziazione, la messa, né l’insieme del sistema sacramentale, anzi, li difendeva aspramente. Per quanto concerne le riforme liturgiche allora in vigore, Enrico VIII aveva adottato un atteggiamento molto conservatore. Durante il suo regno, i messali latini in uso nelle differenti diocesi d’Inghilterra e del Galles non furono modificati, ad eccezione delle preghiere per il Papa. Le sue azioni furono dunque più politiche che teologiche, e anche la sistematica spoliazione dei monasteri fu una mossa provocata innanzitutto dall’impellente bisogno di denaro.
L’inizio dei grandi cambiamenti dottrinali avvenne invece sotto il regno del figlio Edoardo VI. La giovane età del sovrano fornì l’opportunità ai riformatori inglesi per eliminare ciò che Cranmer descriveva come le radici del “papismo”, «la dottrina della transustanziazione, della presenza reale della carne e del sangue di Cristo nel sacramento dell’altare». Per lui, influenzato dalle idee di Zwingli e Calvino, il cattolicesimo era la messa: bisognava dunque abbatterla, e con essa tutto ciò che esisteva della fede romana. Per preparare il popolo all’introduzione del “servizio di comunione” protestante, celebrato in lingua volgare, furono messi in opera diversi mezzi di propaganda come la stampa e i predicatori itineranti, sovente utilizzando come argomento principale l’esigenza di un ritorno alle origine, alle fonti evangeliche. Un aspetto nient’affatto secondario per la riuscita del progetto fu poi la connivenza dei nobili, uomini le cui ricchezze erano state recentemente accresciute dall’espropriazione dei beni ecclesiastici.
Le innovazioni liturgiche vennero comunque introdotte lentamente, onde evitare sommosse, anche grazie all’ausilio di periti protestanti, come Bucer, giunti appositamente dal continente. Il programma realizzato da Cranmer prevedeva quattro tappe: si cominciò con il celebrare in lingua vernacolare, dopo di che si introdussero elementi nuovi nel messale, nessuno dei quali formalmente eretico (e in molti, tra cui il vescovo Stephen Gardiner, caddero nel tranello). Fu poi il momento della sostituzione della messa con un “servizio di comunione” provvisorio che, nel giro di poco tempo, sarebbe diventato definitivo, impossibile da interpretare cattolicamente.
Questa rivoluzione, iniziata con la promulgazione del Book of Common Prayer del 1549, portò più tardi alla distruzione delle immagini sacre nelle chiese, alla vendita dei paramenti, dei reliquiari, alla sostituzione dell’altare con una tavola e alla demolizione degli altari laterali dedicati alla devozione dei santi. Il processo non fu lineare, ma subì avanzamenti e brusche battute d’arresto. Tuttavia, dopo la morte di Maria Tudor, gli ultimi ostacoli furono rimossi e il 1563, data dell’imposizione dei Trentanove articoli di religione, sancì definitivamente il trionfo della Riforma in Inghilterra.
Anche se Cranmer fu giustiziato come eretico durante l’epoca della restaurazione, i suoi figli spirituali ne portarono a compimento l’opera. Ulteriori interventi resero sempre più calvinista il messale anglicano, mostrando un’evidente volontà di rompere con la tradizione cattolica. Fu questo uno dei motivi che portò Leone XIII all’emanazione della bolla Apostolicae curae (1896) in cui gli ordini anglicani venivano considerati invalidi.
Il caso inglese costituisce dunque una sorta di apologo utile per interpretare i tempi attuali, una testimonianza di quanto sia profondamente vera la formula Lex orandi, lex credendi: dove i protestanti modificarono la liturgia, con essa morì anche il cattolicesimo.
Molto interessante.
Ringrazio Luca per il pezzo.
Mi permetto di intervenire semplicemente ponendo tre domande:
1) dove si legge “Si trattò dunque di uno scisma, ma non di un’azione eretica. Il gesto, evidentemente grave, non ebbe alcun legame con la Riforma come comunemente la si intende. Il sovrano rifiutava certamente di riconoscere l’autorità del Papa …”, io avrei scritto: “Si trattò dunque di uno scisma, ma non di un’azione eretica. Il gesto, evidentemente grave, non ebbe alcun legame con la Riforma come comunemente la si intende. Il sovrano, pur riconoscendo l’autorità del Papa, certamente gli disobbediva ….”
L’autore che ne pensa?
In poche parole: chi riconosce l’autorità del Papa e gli disobbedisce, è scismatico o ha un atteggiamento scismatico (dipende dai casi, come da CJC); mentre chi semplicemente non riconosce l’autorità del Papa, è eretico o prossimo all’eresia (dipende se il dogma era già stato definito o se era rivelato, creduto tradizionalmente e non ancora definito), poi è anche scismatico per logica conseguenza.
La mia domanda/richiesta è: si può precisare meglio nell’articolo?
Ora, se il sovrano proprio non riconosceva l’autorità del Pontefice, era pure eretico (o prossimo all’eresia) oltre che scismatico. Che ne dice l’autore?
Grazie.
PS: ovviamente sto parlando di “Papa legittimo”. I “papi materialiter” o gli antipapi fanno casistica a parte.
Si tratta di una semplificazione, per certi versi ineludibile in un articolo breve e, per sua natura, votato alla sintesi.
Segnalo il brano di H. Belloc citato da Davies a p. 133 del suo libro: “Non fu un’impresa eretica nel senso abituale del termine; vale a dire che essa non contestò nessuna delle dottrine essenziali, come quelle che erano combattute (e con violenza!) nel continente”. Belloc è uno storico e, seppur fine e dotto cattolico, può aver peccato in questo passaggio di una qual certa leggerezza.
Davies, qualche riga prima, precisa: ” Benché il rifiuto di riconoscere l’autorità del Papa costituiva un’eresia, nonostante ciò ha ragione Belloc di dire che ciò che accadde sotto il regno di Enrico VIII merita di essere chiamato Scisma”.
Luca ti ringrazio per la risposta.
AmDg
Con il V2 la liturgia sembra essere diventata la moda femminile della Chiesa Cattolica.