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di Vito Plantamura

 

L’ultimo lavoro del simpaticissimo Checco Zalone segna una svolta decisa nella sua filmografia. Se è pur vero, infatti, che il leitmotiv della sua produzione è stato sempre quello dell’accettazione della diversità, dell’inversione dei ruoli, e del superamento di concezioni sociali grette ed arretrate, secondo il paradigma della sinistra “all’americana” – la sinistra dei diritti civili, cioè, delle nozze gay, dei figli in provetta: in definitiva, di tutti quelle “battaglie” che al capitale vanno benissimo, perché sono a costo zero, non implicano alcuna forma di redistribuzione della ricchezza, ma dividono e distraggono i lavoratori dal conflitto di classe –, tuttavia, nei film di Checco non si era mai arrivati all’attacco frontale contro l’altra sinistra, quella economica, del lavoro, delle tutele e, in definitiva, della nostra Costituzione repubblicana. Con Quo vado?, invece, la maschera cade definitivamente, e i diritti dei lavoratori, e in particolare di quelli pubblici, preferibilmente fannulloni, incompetenti, incapaci e corrotti, si trasformano in privilegi odiosi, come il congedo parentale e l’incredibile assurdità della tredicesima.

Non c’è che dire, un piatto assolutamente perfetto per la platea italiana invidiosa e autorazzista che, come un tossicodipendente allo stadio terminale, sta manifestando tutto il suo gradimento per l’ennesima dose del medesimo veleno, con il quale è ormai da anni sedata. D’altronde, bisogna evitare che gli italiani comprendano il nesso di causalità, pur così evidente, tra l’imposizione di insensati vincoli di bilancio, la compressione dei propri diritti di prestazione, l’immigrazione incontrollata per costituire l’esercito di riserva dei disoccupati, la deflazione salariale, l’acutizzazione della crisi economica, e i crescenti guadagni dei prestatori professionali di denaro, dei contraenti forti in genere e, in definitiva, del capitale.

Ovviamente, il corredo di sinistra radical chic non viene meno in Quo vado?; anzi, se è possibile, si acuisce, con la splendida attrice protagonista, il vero personaggio positivo della storia – bella, disinteressata, civile e intelligente: cosa volere di più? –, che conduce una vita erratica ed emancipata, collezionando compagni, e relativi figli, di diverse etnie e religioni; non facendosi mancare una fase omosessuale, che per altro colpisce anche un suo ex compagno, e padre di uno dei suoi figli, che con lei “civilmente” convive aggirandosi nudo per casa davanti a grandi e piccini/e, fino a quando non si sposerà, ovviamente con un uomo.

Ma il vero colpevole dell’ultimo film di Checco, quello che deve cambiare, abbandonare i suoi pregiudizi, il suo modo di essere, appunto, gretto ed arretrato, non è più chi non è a favore delle nozze gay, dell’indifferentismo religioso, e del meticciato transnazionale, ma è soprattutto chi ancora vuole il posto fisso, e non accetta una vita di precarietà e incertezze lavorative, che devono poterlo condurre dai ghiacci del polo nord alle sabbie dell’Africa, ovviamente con prole al seguito. D’altronde, se vuoi il posto fisso, la sanità e la previdenza, sei un tipo da prima Repubblica, causa di tutti i nostri mali attuali, che evidentemente dipendono dai privilegi dei dipendenti, specie pubblici, nonché dalla corruzione. Ed è quasi un peccato che sia taciuto l’altro male italico, ovverosia l’evasione fiscale, perché altrimenti Checco avrebbe fatto l’en plein dei luoghi comuni mainstream, che dissimulano la tragica, e difficilmente reversibile, rivincita storica del capitale e dei prestatori professionali di denaro che, con il pretesto del sogno politico dell’integrazione europea, stanno cancellando quasi un secolo di conquiste sociali effettive: altro che le automobili in doppia fila, il mancato rispetto delle code al supermercato, o i ritardi dei voli (colpa di qualche sciopero sindacale), che sorridendo Quo vado? rimprovera agli incivili italiani.

Non si creda, però, che il giudizio negativo che esprimo nei confronti dell’ultimo lavoro di Checco – peraltro, a mio avviso di gran lunga il meno divertente dei suoi film – dipenda dalla mia incapacità di ridere dei difetti di noi italiani. L’autoironia, infatti, è un merito; ma l’autorazzismo è un grave torto, specie in un momento storico come l’attuale, in cui già viene ampiamente utilizzato come instrumentum regni, al fine di giustificare gli attuali sacrifici necessari imposti alla popolazione italiana, per lavare chissà quali colpe immaginarie, e nascondere la solare evidenza del surplus commerciale che il manifatturiero della Germania ha potuto ottenere, soprattutto a scapito proprio dell’Italia, grazie alla svalutazione competitiva della propria moneta –cioè deflazionando per prima–, con una sorta di concorrenza sleale nei confronti degli altri Paesi UEM.

Per esempio, il film Italians (1) – nonostante la nota rubrica da cui ha preso il nome – era sì autoironico, ma senza essere autorazzista, e mantenendo invece un giusto orgoglio nazionale. I suoi protagonisti, pur tra mille difetti tipicamente italiani, non si riscattavano trasformandosi e rinnegandosi – come Checco in Quo vado?, che finisce per rinunciare volontariamente al suo posto fisso, perseguito fin da bambino, pur di far crescere la propria figlioletta appena nata in uno sperduto villaggio dell’Africa nera –, ma essendo semplicemente se stessi fino in fondo, tramite modi di essere e di fare positivi, se non eroici, altrettanto italiani di quelli negativi che lo stesso film evidenziava e derideva. E non è forse un caso che proprio il personaggio più grottesco di Italians, quel Vito Calzone che rappresentava un concentrato di patri difetti non meno del Checco di Quo vado?, fosse quello poi chiamato al sacrificio più grande, all’eroismo finale che, appunto nella sua italianità, manteneva però una dimensione più autentica, rispetto a quello di plastica, dei protagonisti muscolosi dei film hollywoodiani: un eroismo, un riscatto e un sacrificio che, se pur in un contesto affatto più allegro e leggero – anche per questo, incomparabile –, non possono non ricordare quelli del piccolo truffatore, realmente esistito, e magistralmente interpretato da Vittorio De Sica nel Generale Della Rovere.

Ovviamente, non si può ritenere colpevole Checco della sua adesione alla lettura mainstream della società italiana, di cui è vittima come chiunque altro non abbia i sufficienti strumenti culturali; né di voler dare al pubblico italiano (pecunia non olet) quello che, nel suo masochismo inconsapevole, precisamente vuole: ma il livore si placa per poco, e poi riprende a rodere come un tarlo. Dispiace davvero, tuttavia, per la predica contro il posto fisso da parte di un soggetto che, meritatamente, anche solo col primo dei suoi film, avrà guadagnato una cifra multipla di quella che il dipendente pubblico da 1.600 euro al mese da lui interpretato in Quo vado? guadagnerebbe in tutta la sua vita: dispiace perché ricorda troppo da vicino l’elogio della durezza del vivere (degli altri) di un Monti o di un Padoa Schioppa.

Allo stesso modo, non è facile digerire la lode per una vita erratica e pericolosa, una “famiglia moderna”, multietnica e plurigenitoriale, da parte di una persona che, legittimamente, ha scelto di rimanere nella sua terra natia, con una bambina che, fortunatamente per lei, può comodamente usufruire, in caso di bisogno, di adeguata assistenza sanitaria pubblica, e una compagna, banalmente bianca e italiana che, per quanto risulta, ha pure il “grave torto” di non avere una piccola raccolta di figli, procreati in varie parti del mondo, con precedenti compagni di diverse etnie.

Spero, quindi, che nel suo prossimo film Checco la smetta di inseguire il politicamente corretto mediante il ricorso a un falso, e caricaturale, politicamente scorretto. Insomma, mi auguro che la smetta di interpretare un edulcorato Borat de noantri (ma Sacha Cohen non è kazako, o americano, e neppure pentecostale), e invece riprenda e sviluppi i temi del più felice Sole a catinelle, accantonando definitivamente l’autorazzismo, i luoghi comuni mainstream, e la rincorsa di una diversità a tutti i costi: magari anche concedendosi uno splendido finale liberatorio e sinceramente scorretto, come Lino Banfi in Spaghetti a mezzanotte. Allora, però, posso concludere solo con le frasi riportate all’inizio dei due episodi del citato film Italians, che rappresenta un po’ la nemesi di Quo vado?, appunto in quanto dimostra che si può essere autoironici, senza essere autorazzisti: perché forse gli italiani saranno pure il popolo che suona di più al metal detector, ma di certo la vita è troppo corta, per NON essere italiani.

 

 


(1) “Italians” è un film del 2009 diretto da Giovanni Veronesi e interpretato da Carlo Verdone, Sergio Castellitto, Riccardo Scamarcio, Ksenia Rappoport e Dario Bandiera.