epa02998542 A handout photo provided by the Vatican newspaper 'L'Osservatore Romano' on 10 November 2011 shows Pope Benedict XVI (C) greeting a delegation of the Israeli Council of Religions, gathering representatives of the various religious denominations in Israel (Jews, Christians, Muslims, Druze), during an audience at the Hall of the Popes in the Vatican's Apostolic Palace, 10 November 2011. HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

di don Pierpaolo Petrucci – Fonte: La Tradizione Cattolica N° 4 – 2015

La Chiesa ha chiaramente definito nel suo magistero perenne la dottrina cattolica sulla salvezza delle anime. Uno stravolgimento, invece, avviene durante il Concilio Vaticano II, dove si verifica una svolta radicale sulla Chiesa ed il suo ruolo di evangelizzazione.

La nuova base dottrinale su cui tali cambiamenti si fondano si può riassumere in una parola: ecumenismo.

Il termine ecumenismo designa il movimento, nato in gruppi di non-cattolici nel XIX secolo, che ha per scopo la collaborazione e l’avvicinamento delle diverse confessioni cristiane. Questa corrente giunse nel 1948 alla fondazione del Consiglio ecumenico delle Chiese e gli stessi princìpi hanno condotto in seguito al dialogo interreligioso con le religioni non cristiane.
La Chiesa ne prese subito le distanze e Papa Pio XI pubblicò, già nel 1928, l’enciclica Mortalium animos, in cui lo condannava, non soltanto perché inopportuno a causa delle circostanze, ma perché i princìpi a cui faceva appello sono contrari alla fede e alla buona dottrina, poiché inducono la confusione nelle anime ed il relativismo, lasciando credere che ogni religione possa contribuire alla salvezza.

Questa enciclica è molto chiara e direi quasi profetica, perché con essa il magistero della Chiesa condanna in anticipo gli errori attuali.

Ne riproduciamo i passaggi più significativi:

«Dove, sotto l’apparenza di bene, si cela più facilmente l’inganno, è quando si tratta di promuovere l’unità fra tutti i cristiani. (…) Non possono certo ottenere l’approvazione dei cattolici tali tentativi fondati sulla falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni. (…) I seguaci di siffatta teoria, non soltanto sono nell’inganno e nell’errore, ma ripudiano la vera religione depravandone il concetto e svoltano passo passo verso il naturalismo e l’ateismo; donde chiaramente consegue che quanti aderiscono ai fautori di tali teorie e tentativi si allontanano del tutto dalla religione rivelata da Dio.

A tali condizioni è chiaro che la Sede Apostolica non può in nessun modo partecipare alle loro riunioni e che in nessun modo i cattolici possono aderire o prestare aiuto a siffatti tentativi; se ciò facessero, darebbero autorità ad una falsa religione cristiana, assai lontana dall’unica Chiesa di Cristo. (…) Infatti non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono. (…) È perfettamente evidente che unirsi ai partigiani ed ai propagatori di tali dottrine significa abbandonare interamente la religione divinamente rivelata». 

Da questo testo magisteriale si evincono diverse verità di fede, come la chiara identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica la quale possiede in sé l’unità della fede, contrariamente a coloro che se ne sono allontanati. Questi potranno ritrovarla soltanto rientrando nell’ovile da cui si sono separati, cioè la Chiesa cattolica. Il Pontefice insegna chiaramente che è contrario alla religione rivelata contribuire a riunioni interreligiose fra i cristiani, perché esse presuppongono che le diverse religioni siano tutte buone e lodevoli.
Per queste ragioni la Chiesa si è sempre sforzata di ricondurre all’unità del corpo mistico di Cristo i membri delle comunità separate. Basti pensare al Concilio di Lione (1245-1274) e al Concilio di Firenze (1439) riguardo agli scismatici; alla supplica di Pio IX in occasione del Concilio Vaticano I e a quella di Leone XIII alle confessioni cristiane nel 1894.

Il Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano II ha consacrato il decreto Unitatis redintegratio all’ecumenismo e la dichiarazione Nostra aetate al dialogo interreligioso.
Una nuova dottrina è alla base di questi testi, che presentano le altre confessioni cristiane e anche le religioni non cristiane come espressioni, meno perfette ma valevoli, della religione divina e quindi come cammini che conducono realmente a Dio e alla salvezza eterna.
Tale insegnamento si collega ad una nuova concezione della Chiesa che trova la sua base nella famosa affermazione della Costituzione Lumen gentium al n. 81, secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste in quella cattolica. Con ciò si vuole significare, come appare dal contesto conciliare, che la Chiesa di Cristo non è coestensiva alla Chiesa romana, visibile nel suo apparato gerarchico, a cui si appartiene per la fede, il battesimo e la sottomissione ai pastori legittimi, ma che è una realtà più ampia, un’entità più vasta che comprenderebbe tutte le religioni cristiane e, per estensione, anche quelle non cristiane, di cui Dio si servirebbe come mezzi per condurre gli uomini alla salvezza.
Il pastore protestante Wilhelm Schmidt, osservatore al Concilio, ha rivendicato la paternità di questa nuova espressione: «Ho proposto per iscritto la formula “subsistit in” a colui che era allora il consigliere teologico del card. Frings, Joseph Ratzinger, che l’ha trasmessa allora al cardinale».
La Chiesa di Cristo, quindi, si realizzerebbe perfettamente nella Chiesa cattolica (la sua sussistenza) ma si estenderebbe al di fuori di essa in maniera imperfetta, grazie a “elementi ecclesiali” presenti in altre confessioni cristiane.
Il decreto Unitatis redintegratio conferma questa nuova dottrina con parole molto chiare: «Perciò queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo, infatti, non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica.»
Da tale teoria risulta che la grazia della salvezza può essere concessa al di fuori della Chiesa cattolica, senza il suo intermediario, in un’altra religione e per un’altra religione.
Così la Chiesa cattolica romana non è più presentata come l’unica società religiosa che conduce alla salvezza.
Tale interpretazione è stata confermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella dichiarazione Dominus Jesus del 6 agosto 2000, dove si rigetta l’interpretazione modernista più estrema, secondo cui la Chiesa cattolica non sarebbe che una realizzazione fra le altre della Chiesa di Cristo. Si afferma infatti che la Chiesa di Cristo continua ad esistere nella sua pienezza nella Chiesa cattolica, ma si ribadisce che numerosi elementi di santificazione e di verità sussisterebbero al di fuori delle sue strutture, cioè nelle chiese e comunità separate che non sono ancora in piena comunione con essa, riaffermando così l’insegnamento del concilio. 
Ciò non corrisponde assolutamente alla dottrina tradizionale e Pio XII insegnava chiaramente che se è vero che per eccezione la salvezza potrebbe realizzarsi fuori dai limiti visibili della Chiesa, ciò può accadere in maniera strettamente individuale, sempre tramite la vera Chiesa e non per la mediazione delle false religioni. Esse, infatti, per i loro errori allontanano piuttosto gli uomini dalla via della giustificazione.
Il Vaticano II, al contrario, afferma che la salvezza può realizzarsi, benché imperfettamente, fuori dai limiti visibili della Chiesa, in maniera non soltanto individuale, ma sociale: lo Spirito Santo utilizzerebbe la mediazione sociale e visibile delle altre religioni per dispensare la salvezza, mediazione ben reale, anche se meno perfetta, di quella della Chiesa cattolica che diventa così il mezzo generale della salvezza, a fianco di economie imperfette, ma valide, di cui il Cristo può servirsi. Questa è l’affermazione esplicita di Unitatis redintegratio, con la quale l’insegnamento di Giovanni Paolo II in Redemptoris missio si trova in perfetta continuità.
Da ciò nasce la nuova nozione di “comunione imperfetta”.
L’insegnamento tradizionale della Chiesa è semplice: per essere salvi occorre appartenere alla Chiesa o realmente (tramite le tre condizioni classiche: battesimo, fede cattolica, sottomissione ai pastori legittimi) o almeno in voto (per un desiderio esplicito o implicito). Coloro, quindi, che non appartengono alla Chiesa e che non ne hanno alcun desiderio neppure implicito, non possono, in queste disposizioni, ottenere la salvezza. Secondo certi testi del Concilio, invece, i cristiani non cattolici sarebbero di per sé in «comunione imperfetta» con la Chiesa, e tutti gli uomini, anche i non cristiani, sarebbero «ordinati al popolo di Dio».
Il decreto Unitatis Redintegratio, parlando delle celebrazioni delle comunità scismatiche ortodosse, afferma che: «Con la celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste singole chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione si manifesta la comunione tra di esse» (n. 15). Da questo testo si capisce chiaramente che una comunità separata dalla vera Chiesa cattolica è considerata come appartenente alla “Chiesa di Dio”.
La dichiarazione Nostra Aetate, poi, canta inni di lode in onore dell’induismo, del buddismo, dell’islamismo e del giudaismo.

Il Postconcilio
Queste nuove dottrine insegnate al Concilio sono state esplicitate negli anni seguenti nel loro senso ovvio.
Il card. Wojtyla, durante il ritiro che predicò in Vaticano nel 1976, sviluppò la tesi secondo cui tutti gli uomini, a qualunque religione essi appartengano, pregano il vero Dio: «Questo Dio, nel suo silenzio, professa il trappista oppure il camaldolese. A lui si rivolge il beduino nel deserto, quando arriva l’ora della preghiera. E forse anche il buddista concentrato nella sua contemplazione che purifica il suo pensiero preparando la strada al nirvana. Dio, nella sua trascendenza assoluta, Dio che trascende assolutamente tutto il creato, tutto ciò che è visibile e comprensibile.»
Una volta eletto Papa, Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint (n. 11) affermò che: «Nelle altre comunità cristiane vi è una presenza attiva dell’unica Chiesa di Cristo». Nell’enciclica Redemptor Hominis egli cerca una giustificazione patristica alle nuove dottrine: «A giusto titolo i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni come altrettanti riflessi di un’unica verità, come dei “semi del Verbo”». Si riferisce a San Giustino e a San Clemente d’Alessandria. Il Concilio aveva lanciato questa idea, ma i Padri della Chiesa non hanno riconosciuto niente di simile. I loro testi, che sono invocati, non parlano in realtà di alcuna religione pagana, ma dei filosofi e dei poeti. San Giustino precisa che questo “seme” sparso su tutta l’umanità è quello della ragione naturale e la distingue con cura dalla grazia.
Nessuno può negare che, in seguito alle nuove dottrine insegnate dal Concilio, ci sia stato un vero cambiamento nell’atteggiamento nei confronti di queste religioni. La Chiesa ha sempre cercato di evangelizzare gli adepti delle false religioni per convertirli, mentre la chiesa post-conciliare, invece, assume l’atteggiamento del «dialogo». Il documento Dialogo e missione del Segretariato pontificale per i non cristiani lo afferma chiaramente: «Il Vaticano II ha segnato una nuova tappa nelle relazioni della Chiesa cattolica con i credenti delle altre religioni. (…) Questa nuova attitudine prende il nome di dialogo.» Al n. 13 di questo documento, si parla del dialogo come lo strumento «grazie al quale i cristiani incontrano i credenti di altre tradizioni religiose per camminare insieme alla ricerca della verità e per collaborare ad opere di interesse comune».
Se i cattolici “camminano” con i non-cristiani alla ricerca della verità, e se si tratta di un arricchimento reciproco, è chiaro che la Chiesa abbandona la pretesa di possedere da sola la verità.
Questo è quanto emerge anche dalla dichiarazione Nostra aetate, dove, al n. 3, si legge: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni (non cristiane – ndr). Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». 
In questo testo fondamentale si insegna, in parole povere, che nelle religioni non cristiane esisterebbero «delle dottrine» che, pur differendo «con quanto la Chiesa crede e propone», rifletterebbero comunque «un raggio di verità che illumina tutti gli uomini». Questa incredibile affermazione suppone che tali religioni possano contenere delle verità manifestate da Dio, ma in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna! Come se Dio, autore della vera Rivelazione affidata alla Chiesa, potesse contraddirsi!
Facendosi eco di questo insegnamento, papa Francesco nella sua Esortazione apostolica, afferma addirittura che certi riti dei non cristiani sarebbero “ ”frutto dell’azione divina” a causa della “dimensione sacramentale della grazia”!

Le confessioni cristiane non cattoliche, poi, non possono considerarsi realizzazioni parziali della Chiesa di Cristo poiché ciò si oppone al magistero della Chiesa, sintetizzato nell’enciclica Mystici Corporis, dove Pio XII ricorda chiaramente che senza il battesimo, la vera fede e la sottomissione all’autorità legittima non si può essere membri della Chiesa. Tali sètte quindi (per chiamarle con il loro vero nome) non possono essere in alcun modo dei mezzi di salvezza, né ordinari né straordinari, ma pongono oggettivamente ai loro membri degli ostacoli per giungervi. Le realtà sante indebitamente detenute dagli eretici o dagli scismatici, come la Sacra Scrittura per i protestanti (più o meno alterata), i sacramenti per gli scismatici orientali, non possono dare la grazia e la salvezza se non nella misura in cui coloro che le ricevono rifiutino (almeno implicitamente) l’adesione formale all’eresia o allo scisma. La teologia tradizionale non designa queste realtà “rubate” alla Chiesa cattolica come degli “elementi di santificazione” o come “elementi ecclesiali”, ma piuttosto come “vestigia” della vera religione; infatti, sottratti alla vera Chiesa, cessano per il fatto stesso di essere una realtà viva (e santificante) e diventano delle rovine. Se alcuni sacramenti, come il battesimo, possono essere validi in tali comunità separate, non sono di per sé fruttiferi in quanto non producono la grazia a causa dell’ostacolo che pone l’adesione di chi lo riceve all’eresia o alla scisma.
Un sacramento infatti, pur ricevuto validamente, può non produrre la grazia se incontra nell’anima un ostacolo come il peccato mortale. Il ricevere per esempio la cresima o il matrimonio in questo stato non solo non sarebbe fonte di grazia, ma costituirebbe un nuovo peccato: un sacrilegio. L’appartenenza allo scisma è di per sé un peccato grave, e costituisce un impedimento alla grazia.
Per questo una realtà in sé santa, come un sacramento, non può essere un “elemento di santità” in quanto tale (come dice il Concilio), in una comunità separata dalla Chiesa. Una tale comunità è in sé un impedimento all’efficacia santificatrice del sacramento di cui si è impadronita. Esso potrà portare il suo frutto soltanto nella situazione eccezionale in cui la persona che lo riceve non aderisce formalmente all’eresia o allo scisma. È il caso dei bambini prima dell’età della ragione o delle persone che si trovano nell’ignoranza invincibile che, però, non si può supporre negli adulti.
San Beda il venerabile, nel suo commento alla prima epistola di San Pietro, spiega molto chiaramente che per i battezzati fuori dalla Chiesa, il battesimo non è uno strumento di salvezza, ma piuttosto di dannazione: «Il fatto che l’acqua del diluvio non salvi, ma uccida coloro che sono fuori dall’arca, prefigura senza alcun dubbio che qualunque eretico, benché possegga il sacramento del battesimo, non è immerso nell’inferno per altre acque, ma precisamente per quelle che sollevano l’arca verso il cielo.»
La partecipazione attiva a una cerimonia religiosa di una comunità eretica o scismatica costituisce in sé, per sua natura propria, un assenso alla fede di questa comunità. Per questo ricevere un sacramento in tali circostanze diventa peccaminoso ed occasione di scandalo. Illuminante è l’esempio di San Satiro, fratello di Sant’Ambrogio. Quando era ancora catecumeno, durante un viaggio in mare incappò in una tempesta che lo fece naufragare in Sardegna. Avrebbe voluto ricevere il battesimo ma, una volta appreso che il vescovo locale aderiva allo scisma di Lucifero, vescovo di Cagliari, decise di rimandare finché non avesse trovato un vescovo fedele al Papa.
In conclusione, i buoni elementi che possono contenere le false religioni vanno considerati nel contesto della setta che ne imprigiona la forza salvifica. Anche nell’ordine naturale un dolce è giudicato buono o cattivo non soltanto dagli elementi che contiene, ma in quanto è un tutto. La cattiva ripartizione di ingredienti, eccellenti in sé, può essere sufficiente a rovinare l’insieme. L’introduzione di un solo ingrediente avariato può fare peggio ancora; il fatto, poi, di aggiungere qualche goccia di veleno avrà, sull’effetto finale, un peso maggiore dei buoni ingredienti. Nell’ordine spirituale, una religione non è soltanto un agglomerato di elementi: essa forma un tutto e questo tutto è buono o cattivo, vero o falso in quanto tutto. Poco importano i buoni elementi presi separatamente. Le verità parziali, contenute in un sistema falso o in una falsa religione, sono come ridotte in schiavitù da tale sistema che si impadronisce di esse e le utilizza a suo profitto, come forza di seduzione.
L’islam, ad esempio, si presenta come una religione monoteista. Questo aspetto è giusto e ragionevole, ma tale monoteismo è ferocemente antitrinitario. Il monoteismo, vero in sé, è falsato dal sistema di errori di cui è schiavo. Benché vi siano dei gradi nell’errore, si può dire paradossalmente che un sistema che riprende più elementi di verità è più pericoloso di un altro che ne possiede di meno. Una sedia a tre piedi che sta dritta è più pericolosa di una che ne ha solo due, perché ci si può ingannare e sederci sopra. I missionari, infatti, hanno sempre avuto più difficoltà nel convertire i mussulmani che gli animisti.
Per scoprire l’origine di tali errori occorre risalire alla dottrina di Rahner, secondo cui le religioni non-cristiane sarebbero un cristianesimo anonimo e quindi delle vie di salvezza «per le quali gli uomini si avvicinano a Dio e al suo Cristo».

La redenzione universale
La dottrina cattolica ci insegna che Gesù, morendo sulla croce, ha offerto a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi, meritando per tutti le grazie sufficienti per giungere in Paradiso. Ma per essere salvi, di fatto, occorre essere uniti a Gesù in questa vita tramite la vera fede, il battesimo e la grazia santificante che ci rende effettivamente suoi figli, dandoci la possibilità così di meritare la vita eterna. Se qualcuno rifiuta la grazia, rimane in uno stato di perdizione. Nell’ultimo Concilio, invece, si mettono le basi di una nuova dottrina. Gaudium et spes al n. 22, 2, afferma che «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo qual modo ad ogni uomo». In seguito tale affermazione è stata esplicitata nel senso che, a causa di questa unione realizzata con l’Incarnazione e per la morte di Gesù sulla croce, ogni uomo sarebbe già salvo.
L’allora card. Wojtyla, in un corso di esercizi spirituali predicati in Vaticano, insegnava che: «Tutti gli uomini, fin dall’inizio del mondo e fino alla sua fine, sono stati redenti e giustificati da Cristo e dalla sua Croce. (…) La nascita della Chiesa, nel momento della morte messianica e redentrice di Cristo, è stata anche, in sostanza, la nascita dell’Uomo, e lo è stata indipendentemente dal fatto che l’uomo lo sapesse o no, lo accettasse o no! In quell’istante l’uomo è passato a una nuova dimensione della sua esistenza, concisamente espressa da san Paolo: “in Cristo”»17.
«La Rivelazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio, attraverso la sua Incarnazione, si è unito ad ogni uomo.18»
Come Papa, riprenderà tale insegnamento nella sua prima enciclica: «Si tratta di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. (…) Questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre.19»
Se l’uomo è unito, dall’istante della sua concezione, a Cristo, non si vede che bisogno abbia più del battesimo e dell’appartenenza alla Chiesa.
Il 21 febbraio del 1981, nel suo messaggio ai popoli dell’Asia, Giovanni Paolo II affermava ancora più chiaramente: «Nello Spirito Santo ogni persona e ogni popolo sono divenuti, per la croce e la resurrezione di Cristo, dei figli di Dio, partecipanti alla natura divina e eredi della vita eterna».
L’Antica Alleanza
Giovanni Paolo II, più volte, ha preso l’iniziativa di sviluppare questa nuova dottrina nel suo insegnamento riguardo al giudaismo attuale, riconoscendolo come via di salvezza, poiché l’Antica Alleanza resterebbe ancora in vigore. Nel 1980, nel corso della sua visita alla sinagoga di Magonza, disse: «L’incontro tra il popolo di Dio dell’Antica Alleanza, che non è stata mai abrogata da Dio (cfr. Rm 11, 29), e quello della Nuova Alleanza, è al tempo stesso un dialogo interno alla nostra Chiesa, in qualche modo tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia».
Più tardi, nel 1986, rivolgendosi alle comunità ebraiche d’Italia, durante la sua visita alla sinagoga di Roma, dichiarava: «La Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’ebraismo “scrutando il suo proprio mistero” (cfr. Nostra Aetate, 4). La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma, in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori».
Questo, d’altra parte, è l’insegnamento dello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica che recita al n. 83920: «A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nell’Antica Alleanza. È al popolo ebraico che appartengono “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essa proviene Cristo secondo la carne” (Rom. 9, 4-5) perché “i doni di Dio e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rom. 11,29)».
Qualche anno fa, il Cardinale Bagnasco, incontrando i Rabbini Laras e Di Segni, ribadiva chiaramente che: «Non c’è, nel modo più assoluto, alcun cambiamento nell’atteggiamento che la Chiesa cattolica ha sviluppato verso gli ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. A tale riguardo la Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei.21» 
Anche Papa Francesco nella sua recente Esortazione apostolica ribadisce l’erroneo concetto secondo cui l’Antica Alleanza non sarebbe mai stata revocata22.

La rinuncia a convertire
In altri testi dell’insegnamento post-conciliare, si afferma chiaramente la rinuncia della Chiesa ad un apostolato rivolto alla conversione dei non-cristiani, fondandosi sulle nuove dottrine del concilio. Citiamo, ad esempio, mons. Rossano, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense. Nella sua relazione alla conferenza promossa dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, in occasione del XXV della sua fondazione e della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, affermava: «Con la dichiarazione conciliare del 28 ottobre 1965, il dialogo diviene “una forma particolare a sé stante” che inaugura una nuova “metodologia missionaria” basata sulla “reciprocità del rapporto esistenziale”. L’altro non è più “oggetto di missione”, ma soggetto concreto al quale accostarsi con lo sguardo rivolto a “ciò che è comune”»23.
Lo stesso atteggiamento viene adottato a riguardo delle comunità scismatiche. Molto interessante a questo proposito è la lettura della Convenzione di Balamand (Libano) del 23 giugno1993.
Dopo l’XI secolo, diverse parti della chiesa orientale che avevano aderito allo scisma si sono riunite a Roma, riconoscendo il primato del Sommo Pontefice e conservando il loro rito, come accadeva prima dello scisma. Dopo i cambiamenti politici intervenuti in Unione Sovietica, queste Chiese, dette “Uniate” perché tornate nella comunione della Chiesa cattolica, hanno conosciuto un grande sviluppo. Molti infatti perseveravano nello scisma unicamente in ragione della pressione esterna, ma era loro desiderio riunirsi a Roma. Di fronte a questo movimento, le autorità ortodosse minacciarono di rompere le relazioni ecumeniche con Roma. La Conferenza di Balamand fu un tentativo per salvare l’ecumenismo. Il testo della dichiarazione si trova sul sito del Vaticano (in inglese ed in francese)24. In essa si dichiara apertamente di voler abbandonare ogni tentativo di apostolato rivolto alla conversione dei greco-scismatici. Ne trascriviamo i punti più salienti25:
12. Quella forma di “apostolato missionario”… che è stata chiamata “uniatismo” non può più essere accettata, né come metodo da seguire, né come modello dell’unità ricercata dalle nostre Chiese.
13. In seguito alle conferenze pan-ortodosse e al Concilio Vaticano II la riscoperta e la messa in valore, tanto dagli ortodossi che dai cattolici, della Chiesa come comunione, hanno cambiato radicalmente le prospettive e quindi le attitudini.
22. L’azione pastorale della Chiesa cattolica, tanto latina che orientale, non tende più a far passare i fedeli da una Chiesa all’altra, cioè non mira più al proselitismo fra gli ortodossi.
30. Occorre superare «l’ecclesiologia decaduta del ritorno alla Chiesa cattolica». 
35. Escludendo per il futuro ogni proselitismo ed ogni volontà di espansione dei cattolici a sfavore della Chiesa ortodossa, la commissione spera di aver soppresso l’ostacolo che ha spinto certe Chiese autocefale a sospendere la loro partecipazione al dialogo teologico e che la Chiesa ortodossa potrà ritrovarsi al completo per continuare il lavoro teologico così felicemente cominciato.
In questo contesto dottrinale non stupiscono più le affermazioni di Papa Francesco nell’intervista rilasciata a Scalfari dove dichiara di non aver nessuna intenzione di convertirlo e che «Il proselitismo è una solenne sciocchezza». Esse si inseriscono in perfetta continuità con questo nuovo insegnamento, ma in contrasto con il magistero perenne della Chiesa.

La nuova evangelizzazione
Di fronte a questo nuova dottrina, allora, ci si può chiedere: in cosa consiste la nuova evangelizzazione di cui si parla tanto dopo il concilio?
Prima di tutto occorre notare che, pur parlando di evangelizzare, non si sostiene più la necessità di convertire a Gesù Cristo e alla Chiesa. Questo linguaggio è scomparso dopo il concilio. Per capire in cosa consista la nuova evangelizzazione, possediamo una chiave di lettura nel discorso alla curia che Benedetto XVI pronunciò il 21 dicembre 2007, in cui egli spiega cosa significhi essere missionario oggi. Ne riportiamo la parte più significativa: «È lecito ancora oggi “evangelizzare”? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo? Ebbene, è indiscutibile che dobbiamo tutti convivere e cooperare nella tolleranza e nel rispetto reciproci. La Chiesa cattolica si impegna per questo con grande energia e, con i due incontri di Assisi, ha lasciato anche indicazioni evidenti in questo senso, indicazioni che, nell’incontro a Napoli di quest’anno, abbiamo ripreso nuovamente. (…) Il riconoscimento condiviso dell’esistenza di un unico Dio, provvido Creatore e Giudice universale del comportamento di ciascuno, costituisce la premessa di un’azione comune in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale. Ma questa volontà di dialogo e di collaborazione significa forse allo stesso tempo che non possiamo più trasmettere il messaggio di Gesù Cristo, non più proporre agli uomini e al mondo questa chiamata e la speranza che ne deriva? Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. Doni così grandi non sono mai destinati ad una persona sola. In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, la grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa (cfr. Mt 5, 15). San Paolo è stato instancabilmente in cammino recando con sé il Vangelo. Si sentiva addirittura sotto una sorta di “costrizione” ad annunciare il Vangelo (cfr. 1 Cor 9, 16), non tanto a motivo di una preoccupazione per la salvezza del singolo non-battezzato, non ancora raggiunto dal Vangelo, ma perché era consapevole che la storia nel suo insieme non poteva arrivare al suo compimento finché la totalità (pléroma) dei popoli non fosse stata raggiunta dal Vangelo (cfr. Rm 11, 25). Per giungere al suo compimento, la storia ha bisogno dell’annuncio della Buona Novella a tutti i popoli, a tutti gli uomini (cfr. Mc 13, 10)»26.
Nel testo, trattando di evangelizzazione, non si accenna minimamente all’urgenza di convertire le anime che sono nell’errore alla vera fede cattolica per la loro salvezza. Si tratta piuttosto di convivere nel rispetto reciproco di tutte le religioni, come hanno dimostrato le diverse riunioni interreligiose nelle quali si chiedeva ai rappresentanti di tutte le religioni di pregare per la pace, «per l’edificazione di una società più giusta e solidale». La nuova evangelizzazione parte da un altro presupposto: «Chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé» e questo, come era il caso per San Paolo «non tanto a motivo di una preoccupazione per la salvezza del singolo non-battezzato» ma perché «per giungere al suo compimento, la storia ha bisogno dell’annuncio della Buona Novella a tutti i popoli, a tutti gli uomini».
In coerenza con il nuovo insegnamento inaugurato al concilio e sviluppato da Giovanni Paolo II, sembra che la missione della Chiesa sia diventata, quindi, quella di annunciare ad ogni uomo la grande gioia che egli, in virtù del mistero dell’Incarnazione, pur ignorandolo, è unito a Gesù Cristo e per il fatto stesso è così già salvo.
Poiché non vi è più la necessità della conversione alla vera fede ed alla Chiesa cattolica per conseguire la salvezza eterna, gli uomini di tutte le religioni devono lavorare insieme nel «rispetto e nella tolleranza» per «l’edificazione di una società più giusta e solidale».
Alla «sola fide» di Lutero per la salvezza, sembra si voglia sostituire la «sola Incarnazione».
Ma incarnandosi, il Verbo divino ha assunto una sola natura umana, quella di Gesù Cristo, e non quella di ogni uomo. Se è vero che Gesù è morto per tutti, è altrettanto vero che per beneficiare dei frutti della sua redenzione, occorre essere unito a lui tramite la fede e la vita della grazia, nella vera Chiesa da lui fondata.
L’ecumenismo, invece di essere un’esigenza della carità, come si cerca di far credere, è un peccato contro di essa. Il vero amore, infatti, reclama che si voglia il bene del nostro prossimo ed il bene più grande è condurlo alla verità, perché possa accedere alla vita eterna.
Infiammati di zelo per la salvezza delle anime, i missionari lasciavano la loro patria e famiglia per andare a predicare Gesù Cristo in paesi stranieri, in mezzo a fatiche, sacrifici e pericoli indicibili, spesso sacrificando persino la loro vita.
L’ecumenismo, al contrario, abbandona gli uomini negli errori, li conforta in essi, lasciando credere che potranno essere salvati grazie all’ausilio delle loro false religioni.
Coloro che propagano queste nuove dottrine agiscono come un medico che, invece di avvertire il malato della gravità del suo male e curarlo, lo intrattiene in illusioni.
A cinquant’anni dal concilio, di fronte ai tentativi ecclesiastici di continuare a sostenerne il mito ormai in rovina, è necessario più che mai considerare lucidamente e con oggettività le nuove dottrine che ha trasmesso e che hanno minato la Chiesa, paralizzandone la forza missionaria per convertire le anime e per la trasformazione spirituale e morale della società.
Oltre alla preghiera per la nostra Madre Chiesa, siamo convinti che il far luce su queste dottrine erronee sia il più grande servizio che possiamo renderle e al quale non potremmo mai rinunciare, senza diventare complici della sua autodistruzione.