Dall’Autore, rimasto anonimo, riceviamo, ringraziandolo, questo studio davvero interessante su un tema relativamente poco dibattuto. Buona lettura! [RS]

 

Il cinema irrompe nella storia dell’umanità nell’ultima parte del XIX secolo, imponendosi definitivamente in quello che a tutti gli effetti, con buona pace del pregiudizio storiografico illuministico anti-medioevale, può essere considerato il secolo finora più buio della storia, il XX. La portata calamitante e veicolante ne ha fatto ben presto uno strumento propagandistico imprescindibile. È storia nota come sia stata usato dai regimi nella prima metà del secolo scorso per influenzare le masse e condizionarne le scelte. Quei film avevano il pregio di essere dichiaratamente propagandistici, al punto che uno spettatore che oggi li vedesse sarebbe costretto a notarne l’ingenuità e faticherebbe ad immaginare l’effettivo condizionamento di un ipotetico fruitore dell’epoca. Nel corso dei decenni il cinema ha cessato la sua azione propagandistica esplicita, così l’offerta di film sempre nuovi ogni settimana e la molteplicità delle tematiche affrontate, generano nello spettatore dei nostri giorni l’assoluta convinzione di essere dinnanzi ad uno strumento comunicativo neutro, che si volge a lui per intrattenerlo, commuoverlo e informarlo in cambio del prezzo di un biglietto e talvolta nemmeno di quello. Uno sguardo più accurato sul problema potrebbe rivelarci una realtà ben diversa.

Dal secondo dopo guerra, e ancora più spiccatamente negli ultimi cinquant’anni, la cinematografia può essere suddivisa in due grandi correnti, le quali hanno propagandato implicitamente i valori (e i disvalori) dei due orizzonti ideologici da allora dominanti: da una parte il marxismo più o meno riformato, cinematograficamente rappresentato dai film cosiddetti d’autore, omosessualisti, impegnati in pseudo-denunce anti-autoritarie, pieni zeppi di cliché denigratori nei confronti del nucleo familiare tradizionale, dell’amore coniugale e persino filiale e dall’altra il consumismo liberista rappresentato dai film cosiddetti di cassetta, pansessualisti, sdolcinati o violenti, cultori dell’utilitarismo pragmatico di stampo protestantico e in special modo calvinista. Queste due macro-categorie si potrebbero suddividere rispettivamente in numerosi sottogeneri, e in altrettante ibridazioni, quel che però ci preme ora chiarire è la duplice natura del cinema moderno: da una parte una corrente di film nichilistici, ideologicamente e politicamente schierata a sinistra e dall’altra una corrente edonistica schierata a destra. Tradizionalmente la prima è europea e la seconda statunitense ma entrambe le industrie producono tutt’oggi film dell’una e dell’altra categoria. Si è accennato ad una schematizzazione politica perché fosse più chiara la categorizzazione in atto, si vedrà tra breve quanto poco c’entri la politica genericamente intesa.

Per comprendere appieno le cause di questo fenomeno occorre concentrarsi su due aspetti: il primo costituisce un breve excursus sul contesto culturale nel quale il cinema è sorto e sull’assenza di una tradizione cinematografica anteriore a quel contesto stesso; il secondo vuole essere un’analisi delle potenzialità condizionanti che il cinema ha verso chi ne fruisce.

Il cinema si impone nel mondo occidentale in un contesto culturale dominato dal neopositivismo scientista e dal pansessualismo psicoanalitico, forgiato nei decenni successivi dall’ateismo umanistico di Sartre e dallo strutturalismo francese. Non esiste un cinema anteriore a questi riferimenti, non vi è in altre parole un cinema medievale o seicentesco. Ciò costituisce un problema fondante: il cinema nasce moderno, privo di una tradizione con cui debba raffrontarsi e a cui debba rendere conto. Si è visto come i totalitarismi nella prima metà del ventesimo secolo abbiano brandito piuttosto goffamente questo strumento propagandistico per circa due decenni. Successivamente l’egemonia culturale del secondo dopoguerra ha sofisticato e mutato la natura della propaganda, divenuta così secolarizzante e laicista in un crescendo che ha trovato la sua svolta decisiva nel postsessantottismo e nel progressivismo pedagogico di stampo psicoanalitico: se un’arte embrionale, già priva di tradizione, finisce nelle mani di una cultura profondamente radicata nell’intento di recidere qualunque legame con il passato, non si fatica a comprendere quali possano essere i contenuti che essa proporrà ai suoi fruitori.

Veniamo al secondo aspetto. Nel cinema la catarsi e la persuasione svolgono un ruolo primario. Lo spettatore, fissando lo schermo per almeno un’ora e mezza, ed immergendosi in un continuo fluire di immagini, musiche e parole arresta il proprio dialogo interiore, trovandosi in uno stato mentale prossimo a quello ipnotico. La “magia” del cinema, quel lasciarsi trasportare da un flusso incontrollato – e soprattutto incontrollabile – di stati d’animo che ha come causa sine qua non il processo identificativo, costituisce il vero fulcro dell’arte filmica. È questo che fa indossare un accappatoio e dei calzoncini ad un  bambino che ha appena visto Rocky o fa andare dal parrucchiere una ragazza dopo la visione di un film nel quale la protagonista porta la frangetta. Dopo il processo identificativo vi è infatti uno strascico emulativo che se negli esempi sopracitati può apparire innocuo, lo è meno quando le scelte riguardano un adulterio, un divorzio, l’assunzione di droghe o un aborto.

In questo modo il cinema diviene funestamente pedagogico, ovvero educa il fruitore ad agire e pensare, coscientemente o meno, secondo alcuni schemi ricorrenti ai quali viene sottoposto. Quando ciò avviene si è in presenza di uno strascico emulativo cronico, il quale si imprime nella coscienza impedendo la normale funzione della sinderesi, cioè di quella parte dell’anima stimata da tutta la Scolastica non macchiata dal peccato originale e deputata ad indirizzarci verso il bene e a farci rifuggire il male. Non è ozioso notare come la parola sinderesi, scomparsa dal vocabolario filosofico egemone, nel suo significato etimologico indichi l’azione di “osservare”, di “fissare lo sguardo”, denotando quell’esame di sé discernitivo imprescindibile per aderire alla Verità che è dentro l’uomo. Quando l’osservazione è prolungata lungamente fuori di sé – e fissata su contenuti disdicevoli – si incorre nel soggettivismo, che inevitabilmente ribalta la visione cristiana secondo cui la Verità è gaudium cum pace, ovvero è gioia – dacché è esistita, esiste e sempre esisterà – e pace in quanto l’uomo non ha da cercarLa nelle mode passeggere, nei mutamenti e nei diletti del costume ma nell’intimità della propria anima, laddove Cristo l’attende.

Il cinema, strumento propagandistico fin dai suoi esordi, ha finito per cannibalizzare tutte le storture filosofico-ideologiche del Novecento divenendone una summa tragica la cui segreta teleologia è il racconto di una verità sempre nuova, relativa, in fieri, non eterna e ancor meno soprannaturale. Ciò produce inevitabilmente uno stravolgimento dei valori che costituiscono il nucleo granitico della vita di fede. Si potrebbero fare molti esempi a riguardo che potremmo sinteticamente riassumere come normalizzazione dei vizi, largamente diffusa nelle trame dei film contemporanei: una vita sessuale disordinata, una brama smodata di ricchezza e di potere o di utopistica e farisaica giustizia sociale, un indifferentismo religioso e così via; a questo si affianca un altro processo che trabocca dal piano estetico a quello sociale, definibile come a-normalizzazione delle virtù. Si pensi a quanto sia assente la frequentazione della Messa nelle trame dei film di oggi, o con quanta cura venga celata l’ipotesi che un problema di coscienza possa risolversi con una confessione contrita dei propri peccati. I protagonisti si recano a teatro e in discoteca, dal chirurgo e dallo psicologo, festeggiano i compleanni e le promozioni, fanno la spesa e conversano tra loro in un processo scientifico di rimozione della cattolicità, al fine di immergere lo spettatore nell’abissale e labirintica melassa dei drammi e delle vacuità di tutti i giorni, dalla quale ogni verità di fede appare come un’obsoleta perdita di tempo. Si dirà che il cinema rispecchia la realtà e nella nostra società la partecipazione alla Messa è ormai un fenomeno marginale. Rispecchi pure la realtà e mantenga le proporzioni: in Italia, prendendo per vere le stime meno ottimistiche, circa il 20% della popolazione partecipa alla Santa Messa assiduamente, dunque due protagonisti su dieci dovrebbero mostrare, senza paternalistico o sarcastico compatimento, una vita cattolica attiva anche solo di sfondo. Ciò non accade neppure in un film su cento, con il risultato di rendere inattuale la vita di fede agli occhi degli stessi fedeli, imbevuti ogni giorno di ore di propaganda laicista.

In questo scenario il mondo cattolico resta a guardare, inebetito dai luccichii della modernità, accecato esso stesso dai fumi pestilenziali d’iniquità che ovunque si diffondono avvelenando il presente e dunque la storia. Briciole di cinematografia cattolica vengono gettate a terra come scarti dall’industria filmica: si tratta nella quasi totalità dei casi di ritrattistica debole e dozzinale della vita dei santi, condita da inesattezze biografiche e dottrinali, da forzature “politicamente corrette” e dalla resa strettamente tecnica quasi mai all’altezza. Rifiutiamo dunque di abbassarci come cani per mangiare le briciole a noi destinate e mutiamo la nostra indignazione in denuncia, affinché possa germogliare in qualche anima, fosse pure una soltanto, destandola dal torpore di una contemporaneità che dietro la maschera ridente della laicità, esibita in ogni sfera dell’agire umano – sia esso politico, educativo o artistico –  nasconde il volto iniquo, di ora in ora più visibile, del male assoluto.