Da: “Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea – “Cristianità”, anno XXI, n. 224, dicembre 1993”, grassettature nostre.
Contemporaneamente rimadiamo – su un tema che affianca ineludibilmente questi argomenti – al libro DIO accessibile a tutti. Prova della sua esistenza che racchiude tutte le altre, da quella del moto locale fino a quella dei frutti della santità. IL PIÙ NON VIENE DAL MENO, di R. Garrigou-Lagrange [RS]
[SECONDA PARTE] La prima parte qui: Fede, scienza e falsi miti della cosmologia contemporanea (prima parte)
di Luciano Benassi
- Gli idoli della “nuova fisica”: il nulla, il caso, il “caos”
Nei due capitoli successivi lo studioso benedettino introduce il lettore alle questioni implicate dalla meccanica quantistica, la branca della fisica che ha come oggetto la dinamica dei sistemi atomici e subatomici e che, per questo, comporta una riflessione sulla struttura intima del mondo materiale, sulla nozione di causalità e, in ultima istanza, sulla relazione fra l’apparente determinismo che governa l’universo e la libertà della mente umana. La critica che l’autore svolge nel quinto capitolo, Tartarughe e tunnels (42), riguarda, in particolare, l’interpretazione antirealista del principio di indeterminazione, il caposaldo concettuale di tutta la meccanica quantistica. Formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il principio di indeterminazione stabilisce l’impossibilità, a livello quantistico, di misurare con qualsivoglia precisione coppie di grandezze fisiche complementari come la posizione e la velocità oppure l’energia e il tempo. È da notare che non si tratta dell’imprecisione o indeterminazione, inevitabile, dovuta allo strumento di misura: il principio intende sancire un’indeterminazione intrinseca al mondo subatomico, una specie di “soglia”, che divide il mondo osservabile da un mondo dove sono possibili anche comportamenti non fisici.
La critica che dom Stanley L. Jaki muove alla meccanica quantistica non mette in discussione gli innegabili successi operativi della teoria, quanto piuttosto le interpretazioni che uomini di scienza e di filosofia hanno dato del quadro concettuale da essa implicato. L’interpretazione ancor oggi dominante risale alle riflessioni prodotte, sul finire degli anni 1920, dalla Scuola di Copenaghen, il circolo scientifico raccoltosi intorno al fisico danese Niels Bohr, che per primo formulò un modello dell’atomo – per molti versi definitivo – fondato proprio sui princìpi quantistici. Secondo la Scuola di Copenaghen il fattore quantico rende priva di senso ogni domanda sulla realtà del mondo atomico e subatomico, mentre il principio di indeterminazione sancirebbe, almeno a quel livello, l’inapplicabilità di ogni rapporto causale. Il misconoscimento del “[…] fatto importantissimo che la teoria fisica non riguarda l’”essere” di per sé, ovvero l’ontologia, ma solo gli aspetti quantitativi delle cose che esistono già“ (43) è – secondo dom Stanley L. Jaki – all’origine della radicalità antimetafisica dell’interpretazione della Scuola di Copenaghen e delle sue aberranti conseguenze, anche in campo cosmologico. Infatti, una volta ammesso che “[…] la causalità di un processo fisico dipende dalla sua esatta misurabilità” (44), ovvero che “[…] l’incapacità dei fisici di misurare la natura con esattezza […] [dimostra] che la natura […] [è] incapace di agire con esattezza” (45), è stato possibile nascondere dentro il cappello a cilindro dell’indeterminazione tutto quanto la fisica non è in grado di spiegare. A questo proposito dom Stanley L. Jaki attira l’attenzione sull’importanza che la nozione di nulla ha assunto nella teoria quantistica: dal nulla quantistico possono infatti apparire materia, energia e perfino lo stesso universo, anzi infiniti universi. L’esito di un simile modo di pensare è, naturalmente, la fantascienza, come suggerisce lo studioso benedettino commentando una sentenza divenuta celebre negli ambienti della cosmologia scientifica, e cioè che “l’universo in definitiva potrebbe essere un pasto gratis“ (46): quasi a dire che l’apparizione dell’universo non è poi un fatto così singolare come si potrebbe credere. L’affermazione è del noto cosmologo statunitense Alan H. Guth, autore della teoria inflazionaria dell’universo, il quale, molto coerentemente, sostiene pure che, per quel che ne sappiamo, “il nostro universo potrebbe essere stato creato nello scantinato di uno scienziato di un altro universo” (47). Queste farneticazioni, soprattutto quando provengono da scienziati di grido, sono avvertite non come tali, ma come un’espressione dell’”umiltà” con cui la scienza, nel corso degli ultimi secoli, avrebbe rivelato agli uomini la marginalità della terra nell’universo. Secondo questa prospettiva, che trasforma inopinatamente la reale marginalità cosmica della terra in una marginalità assoluta, neppure l’universo può godere di uno statuto particolare e pertanto deve essere considerato un incidente del “caso“. Si tratta, con ogni evidenza – osserva dom Stanley L. Jaki -, di una “[…]farsesca dimostrazione di umiltà” (48), che nasconde il “[…] disprezzo per la capacità dell’uomo di dedurre dalla natura il Dio della natura” (49).
Nel sesto capitolo, Dadi truccati (50), l’autore sembra invitare il lettore a una sana cautela anche verso il dibattito aperto dall’irruzione dei concetti di caso e di caos nella fisica contemporanea. Si tratta di un dibattito che i mass media orientano costantemente in senso antirealista, attribuendo al caso e al caos possibilità ordinatrici e sorvolando sul fatto che “un caos non può mai essere un tutto, ovvero una coordinazione delle parti, senza con questo cessare di essere un caos degno di questo nome” (51). L’opera Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, “Ordine dal caos. Nuovo dialogo dell’uomo con la natura” (52), di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, è – secondo dom Stanley L. Jaki – un esempio rivelatore delle contraddizioni e delle difficoltà in cui si dibattono i sostenitori del caso: infatti, “l’indeterminazione radicale [che] avvolge tutto in quel libro” (53) non solo non offre una risposta su cosa sia il caso, anche solo come formalismo matematico, ma finisce per coinvolgere anche la nozione stessa di Dio. Quindi non stupisce la conclusione del monaco benedettino, secondo cui “[…] non è il Creatore della Bibbia ma quello del Talmud che Prigogine e Stengers trovano congeniale al loro pensiero. Quel “creatore” non dice che tutto è andato molto bene, ma semplicemente: “Speriamo che funzioni”. E ciò che è peggio, lo dice solo dopo che ha fatto due dozzine di tentativi e di sbagli per creare un universo” (54).
- Dalla terra al cosmo
Con il settimo capitolo, La fortuna della terra (55), si apre idealmente la seconda parte di Dio e i cosmologi. Dopo la critica circostanziata svolta nei capitoli precedenti, dom Stanley L. Jaki guida il lettore alla ricerca degli elementi sui quali è possibile fondare una cosmologia scientifica, che sia autentica scienza del cosmo e non occasione di esercitazioni filosofiche di basso profilo. Per questa impresa egli parte dalla terra e dalle sue immediate vicinanze cosmiche: solamente da qui, infatti, gli uomini possono occuparsi di cosmologia e, a partire da qui, cioè dalla terra, dalla luna e dal sistema solare, possono riscoprire quelle caratteristiche di specificità il cui riconoscimento è la condizione necessaria per lo sviluppo della scienza. La “fortuna“, che costituisce il motivo conduttore del capitolo, è appunto la serie dei segni, naturali e storici, imprevedibili e inaspettati, attraverso i quali la scienza è giunta a vedere la luce nel Medioevo cristiano, dopo innumerevoli brancolamenti nel buio.
Secondo lo studioso benedettino, il primo caso di fortuna è quello di Eratostene di Cirene, che misurò con notevole precisione la circonferenza della terra grazie a una serie impressionante di circostanze geografico-astronomiche estremamente particolari: infatti, “[…] non fu possibile dare inizio proficuamente alla comprensione scientifica dell’universo finché la terra non fu letteralmente misurata più di duemila anni fa” (56). Tuttavia, prosegue dom Stanley L. Jaki, le felici circostanze che permisero a Eratostene di elaborare il suo metodo, non sarebbero state sufficienti a far sì che la cosmologia si avviasse a diventare una scienza della natura “[…] se la terra non fosse stata accompagnata dalla luna, che merita di essere definita come la più grande fortuna della terra” (57).
Fortunata è anzitutto l’identità fra le dimensioni apparenti del sole e della luna, che consentì ad Aristarco di Samo, nel 150 a.C., di ricavare le dimensioni della luna, del sole e le distanze terra-luna e terra-sole in unità del raggio terrestre (58). Ma il punto in cui il sistema terra-luna rivela tutta la sua misteriosa specificità, con conseguenze inaspettate anche per la comprensione del sistema solare, riguarda l’origine stessa del nostro satellite. Fino alla metà degli anni 1970 le teorie più accreditate sulla formazione della luna erano varianti di quella proposta da Pierre Simon de Laplace, verso la fine del Settecento, a proposito della formazione del sistema solare, nota come ipotesi della nebulosa e i cui “[…] aspetti più discutibili […] sono rimasti parte integrante della prospettiva scientifica” (59). Debole dal punto di vista scientifico, essa resistette al tempo solo a causa del suo retroterra ideologico, di cui è testimonianza la celebre risposta che lo scienziato francese dette a Napoleone Bonaparte, incuriosito dal fatto che Dio non era nominato in una teoria sull’origine del mondo: “Sire, non ho bisogno di questa ipotesi“. Ma, “di fatto se c’è un aspetto del sistema solare che non si spiega tramite la teoria di Laplace, o tramite i suoi rimaneggiamenti successivi, è il sistema terra-luna” (60), che presenta vistose anomalie rispetto agli altri sistemi satellitari, soprattutto in termini di dimensioni e di rapporti di massa. Ora, secondo lo studioso benedettino, proprio questa diversità infligge un colpo mortale non solo alle teorie derivate dall’ipotesi laplaciana della nebulosa, ma anche al suo principale retaggio, ovvero “[…] alla spiegazione del nostro sistema solare come un fatto tipico che si presenterebbe in ogni cantuccio dell’universo. Naturalmente – osserva l’autore – potrebbe essere proprio così, ma tutte le prove offerte dalla teoria e dall’osservazione negli ultimi cent’anni indicano il contrario” (61). Tuttavia, se anche “[…] in questa situazione sconcertante fu chiaramente delimitata la direzione da seguire, ciò è collegato con l’origine della luna” (62), spiegata però mediante una teoria non riconducibile a nessuna ascendenza laplaciana, la teoria del megaimpatto, secondo cui la luna sarebbe stata originata da una gigantesca collisione fra la terra e un corpo celeste con una massa di circa un decimo di quella terrestre (63). Ciò su cui l’autore richiama l’attenzione sono le numerose condizioni che devono essere soddisfatte simultaneamente affinché l’intero processo abbia luogo: se, da un lato, la teoria della collisione gigantesca “funziona” come spiegazione della formazione lunare, dall’altro essa suggerisce pure che un simile fenomeno è estremamente improbabile e che, a maggior ragione, è estremamente improbabile anche la formazione di un intero sistema planetario. Se ne deduce- afferma lo studioso benedettino – che è “essenzialmente aprioristica” la “[…] convinzione […] che i sistemi planetari debbano essere un aspetto onnipresente in tutto l’universo“ (64).
Molte altre sono le coincidenze fortunate, elencate dall’autore, che fanno della terra un punto di osservazione privilegiato: tutto ciò – secondo dom Stanley L. Jaki – non è più soltanto una conferma dell’unicità del “fenomeno terra” dal punto di vista astronomico, ma lo è anche da quello biologico: e, a fare le spese di questa unicità, è il mito dell’evoluzione darwiniana, ovvero l’idea di un processo generalizzato e costante che pervaderebbe tutto l’universo e “[…] che ha necessariamente come risultato degli esseri intelligenti” (65). A questo proposito, egli osserva che la prospettiva scientifica moderna è a tal punto asservita al dogma culturale dell’evoluzione da assecondarne anche gli sviluppi più fantasiosi. Solo così, infatti, si possono spiegare i novanta milioni di dollari destinati dal Congresso degli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni 1980, per finanziare un ambizioso progetto di “ascolto” di emissioni radio intelligenti provenienti dallo spazio (66). Le critiche, peraltro assai tiepide, che vengono mosse contro tali progetti e, in generale, contro l’idea del contatto con intelligenze extra-terrestri, secondo l’autore raramente colgono il cuore della questione, che è costituito, invece, dal significato stesso del comunicare. Infatti, “all’interno di una prospettiva genuinamente darwinista non ci sono i fondamenti per presumere che degli extra-terrestri […] possano comunicare, se non con i loro consanguinei. Di fatto, all’interno di questa prospettiva non ci sono i fondamenti per presupporre che svilupperebbero strumenti scientifici che, per come li conosciamo noi, sono intrinsecamente collegati con il nostro modo di concettualizzare e verbalizzare le nostre percezioni del mondo esterno” (67). D’altra parte – conclude l’autore – non vi sono neppure i presupposti per immaginare che lo stesso sviluppo scientifico sia un esito inevitabile dell’evoluzione tanto della specie umana quanto delle presunte civiltà extra-terrestri, come invece postula un altro mito di matrice darwiniana. Al contrario, l’unico sviluppo scientifico osservabile, cioè quello avvenuto presso la specie umana, è a tal punto costellato di coincidenze, di casualità e di “fortuna“, che parlare di una sua inevitabilità sarebbe quanto mai temerario.
Ma ciò che rende assolutamente inaccettabile questa tesi evoluzionista è, secondo l’autore, la constatazione che la scienza, anche prescindendo dalle “fortune” di cui si è detto, non sarebbe stata possibile senza la conversione di un’intera cultura alla religione cristiana, cioè alla fede in un Dio personale, creatore di tutte le cose “dal nulla[…] [e] nel corso del tempo” (68), come avvenuto nei secoli della Cristianità medioevale. Infatti, il cristianesimo, introducendo la distinzione fra “il soprannaturale ed il naturale” (69) in luogo della distinzione fra “le regioni celesti e quelle terrestri” (70), propria di tutti i paganesimi, “[…] permise […] di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi” (71). È questa fede “la più grande fortuna della scienza” (72), ed essendo fondata in “[…] Cristo, come unico Figlio generato in cui il Padre creò tutto” (73), cioè “[…] su un evento che certamente si qualifica come l’esatto contrario dell’inevitabilità” (74), essa non solo si oppone a ogni ipotesi evoluzionista, ma rende anche conto dello “[…] sviluppo del tutto inaspettato, per cui un sottoprodotto che si potrebbe presumere accidentale di cieche forze materiali ha una mente che gli permette di avere la padronanza intellettuale del cosmo” (75).
7. Dal cosmo a Dio
Nell’ultimo capitolo del volume, Cosmo e culto (76), dom Stanley L. Jaki porta a conclusione la riflessione sull’intimo legame esistente fra la cosmologia scientifica e la fede nel Creatore, messo in evidenza nel capitolo precedente. “Che il riconoscimento di una totalità rigorosa e coerente di tutte le cose, ovvero dell’universo, spinga logicamente verso un culto” nei confronti del Creatore è “una storia con molte pagine rivelatrici” (77). Infatti, se “[…] uno dei due culti che l’universo può ispirare” (78) è il panteismo, in cui è l’universo stesso ad assumere connotazioni divine; l’altro, “[…] che adora il Creatore dell’universo, forma la base di tutte le religioni monoteistiche, ma con differenze considerevoli: tutte professano di essere le destinatarie di una rivelazione particolare riguardo al coinvolgimento diretto di Dio nella storia dell’uomo; tutte hanno la loro storia particolare della salvezza, da cui derivano la loro forza principale e la loro occasionale e, in alcuni casi, sistematica illusione; sono invece notevolmente differenti nella specificazione della misura in cui una visione dell’universo puramente razionale può essere una fonte per il riconoscimento dell’esistenza del Creatore e quindi una parte integrante di un culto monoteistico” (79). L’osservazione appare assai evidente se si considera l’accoglienza che l’argomento cosmologico ha ricevuto nelle diverse culture religiose monoteistiche. Secondo l’autore, “il solo luogo all’interno della cristianità in cui il culto del Creatore basato sull’argomento cosmologico è stato sistematicamente evidenziato è la Chiesa Cattolica Romana“ (80). Naturalmente “questo non vuol suggerire che molti teologi e filosofi della Chiesa Cattolica Romana non siano stati influenzati dalle onde sempre ricorrenti di “intuizionismo” o di qualcosa di anche peggiore” (81), ma si può affermare che la solenne dichiarazione del Concilio Vaticano I “[…] sulla certezza grazie alla quale la ragione può riconoscere l’esistenza del Creatore dall’evidenza del cosmo“ (82) continua a essere un insegnamento ufficiale del Magistero.
Tuttavia l’argomento cosmologico, secondo lo studioso benedettino, non costituisce solo la via più affidabile per la riconquista della nozione di Dio creatore, ma rappresenta anche un sano “allenamento mentale” (83), un’occasione per ricostituire la fiducia nell’intelletto e il bisogno di certezza, che la moderna cultura dell’assurdo si compiace di distruggere: infatti, il bagno di realismo e di concretezza cui obbliga la semplice constatazione della specificità delle cose consente all’uomo (84) di sperimentare “[…] qualcosa di molto diverso da quel salto nel buio che tentano dolorosamente coloro che non hanno mai veramente sentito l’universo, e a volte nemmeno le semplici cose comuni, sotto i loro piedi. Il movimento verso Dio, per essere sicuro, non deve essere una separazione dall’universo. Il movimento consiste piuttosto nell’avvertire la pulsazione della contingenza cosmica, il fatto che l’universo indica implacabilmente qualcosa al di là di se stesso” (85). Tale, del resto – ricorda dom Stanley L. Jaki -, è l’esperienza di conversione che sant’Agostino riporta nel decimo libro delle Confessioni: “[…]ho chiesto del mio Dio a tutta la massa dell’universo, e mi ha risposto: “Io non sono Dio. Dio è colui che mi ha fatto”“ (86).
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(42) Cfr. ibid., pp. 113-140.
(43) Ibid., p. 120.
(44) Ibid., p. 121.
(45) Ibidem.
(46) Ibid., p. 137.
(47) Ibidem.
(48) Ibid., p. 140.
(49) Ibidem.
(50) Cfr. ibid., pp. 141-167.
(51) Ibid., p. 163.
(52) Cfr. Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, Order out of Chaos. Man’s New Dialogue with Nature, New Science Library, Boulder 1984; cfr. anche Iidem, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, nuova ed., Einaudi, Torino 1993.
(53) Dom S. L. Jaki O.S.B., Dio e i cosmologi, cit., p. 165.
(54) Ibidem.
(55) Cfr. ibid., pp. 169-196.
(56) Ibid., p. 170.
(57) Ibid., p. 174.
(58) Cfr. ibid., p. 175.
(59) Ibid., p. 176.
(60) Ibidem.
(61) Ibid., p. 178.
(62) Ibid., p. 179.
(63) Cfr. ibid., pp. 179-180.
(64) Ibid., p. 181.
(65) Ibid., p. 184.
(66) Cfr. ibidem.
(67) Ibid., p. 186.
(68) Ibid., p. 194.
(69) Ibidem.
(68) Ibidem.
(71) Ibidem
(72) Ibidem.
(73) Ibid., p. 195.
(74) Ibid., p. 196.
(75) Ibidem.
(76) Cfr. ibid., pp. 197-223.
(77) Ibid., p. 197.
(78) Ibid., p. 201.
(79) Ibidem.
(80) Ibid., p. 202.
(81) Ibidem.
(82) Ibidem.
(83) Ibid., p. 207.
(84) Cfr. ibid., p. 208.
(85) Ibidem.
(86) Ibidem.