Dante Alighieri

 di Doctor Subtilis

 

La canzone Guai a chi nel tormento era pacificamente ritenuta opera di Bindo Bonichi prima che il compianto Louis Marcello La Favia, professor emeritus della Catholic University of America (Chanzona ddante. Circa un poema sconosciuto attribuito a Dante, con appassionata postfazione di Aldo Onorati, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, Ravenna 2012) ne segnalasse la possibile paternità dantesca, attestata dal codice Harley 3459 della British Library. 

Ecco, a beneficio di tutti, il testo, che ovviamente non è protetto da copyright, e che (invero non “sconosciuto”, e neppure “poema”, ma canzone) è stato più volte pubblicato come opera, appunto, di Bindo Bonichi (cui lo assegnano alcuni manoscritti); rimatore del quale, però, in questi splendidi versi, di una sapienza posata ed assorta, io fatico ad avvertire la sentenziosità pesante, faticosa e spesso scontata, la lingua e la versificazione ruvide e grevi che lo confinano, indiscutibilmente, fra i “minori e minimi”.

Se il testo non è di Dante, certo è improbabile sia di Bonichi; esso dovrebbe essere, dunque, di un anonimo rimatore di statura dantesca.

Un illustre filologo, di cui com’è ovvio nessuno mette in dubbio l’autorevolezza (http://www.letterefilosofia.it/2013/02/chanzona-ddante-lultimo-caso-di-attribuzione-a-dante-alighieri/), ha contestato la paternità dantesca con quelle che a me paiono, francamente, argomentazioni deboli: Chanzona ddante vorrebbe dire non “canzone di Dante” ma “canzone dedicata a Dante” (ma, com’è evidente, il testo non è affatto dedicato a Dante, dunque il copista sarebbe dovuto essere più malaccorto di un filologo malaccorto); la canzone rientrerebbe nel genere canonico della “disperata” (ma essa non rientra in tale genere, dai toni ben più foschi e concitati, e che in ogni caso non si afferma prima degli ultimissimi anni del Trecento); in Dante non ricorrerebbe mai “come” in forma tronca (ma così non è: “Com’ poco verde in su la cima dura, se non è giunta de l’etati grosse”, Purg., XI, 92-93); che poi l’uso di “come” tronco sia “comunissimo” nella poesia medievale è cosa che andrebbe verificata (stiamo parlando di forma tronca, non di forma elisa). 

Dopo tanta pedanteria, di cui mi scuso, ecco il testo: in cui, senza entrare in questioni “intertestuali”, vi sono, di dantesco, il rincrescimento di dover “scendere e salir per l’altrui scale”, di dover vivere onesto fra malvagi (la “compagnia malvagia e scempia”), la deliberazione, infine, di farsi “parte per se stesso”; lo sdegno di fronte alla falsità e al tradimento, la consapevolezza amara (derivatagli dal De Consolatione Philosophiae, “quello non conosciuto da molti libro di Boezio”) della mutevolezza della sorte, dell’imprevedibile “tempesta” degli eventi (“Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti…”); il tormento dell’esule ma anche, in pari tempo, lo stoico vigore morale (che qui sembra riecheggiare, in modo particolare, toni ciceroniani, fra il De amicitia e il De officiis: uno spessore culturale e un vigore concettuale che non sono certo quelli del modesto Bonichi).

Di meno dantesco (almeno non del Dante delle canzoni) vi è, forse, una sintassi secca, acuminata, incisa, quasi tacitiana, che può essere dettata proprio dal fuoco del risentimento. 

Ciò detto, negli studi letterari non esiste il certo, ma il più o meno probabile.

Dante, come ricordava Papa Benedetto XV nell’Enciclica In praeclara summorum, «definisce la Chiesa Romana quale “Madre piissima” o “Sposa del Crocifisso”, e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna».

Proprio la verità assoluta della Fede («la verità che tanto ci sublima») poteva e può rappresentare (in un mondo sconvolto dalla menzogna e dal caos come quello a cui fa riferimento il testo che presentiamo, e che non è diverso, in ciò, dall’attuale) uno stabile punto di riferimento, una ferma àncora di salvezza

La grafia è stata modernizzata in più punti.

Buona lettura.

 ***

Guai a chi nel tormento

sua non può spander voce,

e quando il fuoco il cuoce

gli convien d’allegrezza far sembianti.

Guai a chi in suo lamento

dir non può che gli nuoce,

e qual più gli è feroce,

costretto è d’aggradir, se gli è dinanti.

Guai a chi ’l ben di sé in altrui sommette,

che l’uom certo di sé vive languendo,

e sovente temendo

d’alto in bassezza ritorna suo stato.

E guai a chi servire altrui si mette,

che comincia amistà frutto cercando;

perché l’util fallendo

dimostra il fine e ’l cominciar viziato.

 

Grave è poter in pace

ingiuria soferire

da chi dovria venire

per merito servire ed onorare.

Grave è all’uomo verace

riprension, se ’l fallire

d’altrui fa in sé perire

le virtudi, e con vizi addimorare.

Grave è star innocenti intra corrotti:

fa lunga usanza debile il costante.

Non avrai virtù tante,

che sol non sie, se tu loro abbandoni:

grave è all’uomo poter piacere a tutti,

perché a ciascun suo piace somigliante:

così leve e pesante

son differenti: piaci dunque ai buoni.

 

Folle è chi si diletta,

ed a disservir prende

uom che non si difende,

perché fortuna toglie, e dà potere.

Folle è chi non aspetta

prezzo di quel che vende.

Così chi l’altro offende

di quel che fa dee guiderdone avere.

Foll’è chi sì compreso è d’arroganza

o chi di sé presume valer tanto,

che fa del pianger canto

perch’uomo inciampa talora e non cade.

Foll’è chi cher d’offesa perdonanza,

e mentre offende con celato manto

perché l’offeso alquanto

dimostri non veder chi drieto il trade.

 

Saggio è chi ben misura

la sua operazione,

e sempre a sé propone

se mentre fa, com’è ricevitore.

Saggio è l’ uom, che procura

vivere ogni stagione

in modo che ragione

vinca il voler, e quel ne va col fiore.

Saggio è chi l’uom non giudica per vesta,

ma per lo far che ‘n lui si sente e vede:

saver talor si crede

per apparenza, in tal che dentro è vano.

Saggio è l’uom circondato da tempesta:

quel che scampar non può, sé in don concede,

avendo sempre fede

che dappoi monte può trovare il piano.

 

Guai ho poiché ‘l mio danno

dir non mi è conceduto:

perch’oggi è vil tenuto

schivando i vizi l’animo gentile.

Grave m’è per inganno,

trovandomi traduto,

convenirmi star muto;

richiere il ver talor secreto stile.

Folle fui quando in fals’uom mi commisi:

chi vuol fuggir malvagi, viva solo.

Padre inganna figliuolo;

chi men si fida via migliore elegge.

Saggio non son, ma quel che altrui promisi

sempre servai, e di ciò nullo ha dolo.

Vorrei posare e volo:

Dio tratti altrui per qual mi tratta legge.