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di Danilo Quinto

 «La classe dirigente che delinque fa più danni dei delinquenti di strada», dice Piercamillo Davigo, che aggiunge: «I politici continuano a rubare, ma non si vergognano più». Si reinnesca, così, il dibattito trio e ritrito tra magistratura e politica, di cui peraltro il nuovo presidente dell’ANM è stato uno dei protagonisti più attivi durante gli anni di Tangentopoli, quando il potere giudiziario – che nella nostra Costituzione è emanazione dello Stato e, quindi, non è un potere a sé – ha disintegrato la Prima Repubblica.

Un attacco, se si vuole anche gratuito, che cela una verità: se la classe dirigente – quella non solo politica, ma economica e finanziaria, aggiungiamo noi – fa danni, li fa insieme a buona parte della cosiddetta società civile.

Il Paese che oggi celebra, con la consueta retorica e una buona dose di mistificazione, la sua 71ma Festa della Liberazione dal fascismo, attende di essere liberato non tanto e solo dalla capacità corruttiva del sistema dei partiti e degli Enti – pubblici e para-pubblici – che a quel sistema fanno riferimento o dalla formidabile presenza di organizzazioni criminali, che da decenni rivolgono i loro interessi e s’insediano in zone estranee ai territori d’origine. Il Paese attende di essere liberato dalla connivenza, dalla collusione e dalla complicità che la società civile esercita nei confronti del sistema corruttivo.

Se si guardano le classifiche che vengono stilate dagli organismi preposti, siamo un Paese putrefatto, in agonia, che si mangia tra i 60 e i 70 miliardi di corruzione all’anno, che si aggiungono ai 140 miliardi gestiti dalla criminalità e agli oltre 122 miliardi di evasione fiscale, pari al 7,5% del PIL. Siamo il Paese più corrotto d’Europa ed ha ragione Roberto Saviano quando afferma che “molte città italiane, a partire da Roma, affogano nel riciclaggio di denaro sporco”, che non deriva solo dalle attività criminali (l’usura, il traffico della droga, il mercato della prostituzione e il nuovo, floridissimo business, quello legato agli immigrati, ecc.), ma da quel sistema di appalti e subappalti che produce denaro che si sottrae all’evidenza pubblica e che dev’essere pulito.

Naturalmente, queste verità non si devono dire. Siamo un Paese intellettualmente corrotto nelle sue viscere, dominato da una ideologia e da una cultura mafiosa, che sotterra la Verità. Non sono lontani gli anni in cui uno dei più grandi storici italiani, Renzo De Felice, osò documentare nei suoi studi il consenso di cui godè il fascismo, per poi subire l’ostracismo e l’isolamento dei demagoghi catto-comunisti d’allora. Ora, altri demagoghi – sempre legati a quell’ideologia dominante – di quest’Italia corrotta e corruttrice, esaltano una società civile, candida e pura, portatrice di valori e principi di democrazia e civiltà sui quali si dovrebbe ricostruire quello che prima andrebbe distrutto. Il mondo di mezzo, quello che comunica con quello dei vivi e quello dei morti – come diceva uno degli intercettati dell’inchiesta Mafia nella Capitale – è una metastasi largamente diffusa e si aggiunge ad altre metastasi che in tutti gli ambiti allargano le loro zone d’influenza, come quella massonica, che fa sempre più proseliti e influisce in maniera determinante sull’andamento della realtà che ci circonda.

Tra cent’anni, qualcuno – con il distacco che solo il tempo può realizzare – scriverà la storia di questi 70 anni di storia repubblicana, che solo a sprazzi si può ora leggere in libri di qualche autore che non è succube del potere dominante. Però, anche ora, una certezza può serpeggiare nelle coscienze libere ed intellettualmente oneste: non celebrare nessuna Festa in un Paese così messo. Sarebbero più consone le campane a morto.