a baby's hand

 

di Isacco Tacconi

Come può un figlio restituire ai propri genitori il debito della vita? Come può riscattare se stesso dal debito dell’esistenza che ha contratto al momento del suo concepimento? La verità è che non lo potrà mai, giacché il bene ricevuto non sarà mai proporzionato a qualsiasi altro bene possa egli restituire loro, quantomeno nell’ordine naturale. Io sono il quinto di otto figli, ma mia madre ha avuto 13 gravidanze di cui tre spontaneamente spentesi sul nascere, mentre due sono giunte a termine ma consegnando al cordoglio dei miei genitori due figlie morte nel grembo materno, per un disegno imperscrutabile che Iddio soltanto ha conosciuto sin dall’eternità: due mie sorelle.

Essere madre: chi è in grado di penetrare un mistero così grande come quello della maternità? Confesso di non averne la capacità, eppure sento da tempo di dover scrivere “qualcosa” su di lei, sulla “madre”. Non voglio fermarmi neanche per un secondo a considerare le odierne aberrazioni contro natura e le perversioni estreme di intelletti smarriti nella pazzia, no, voglio invece parlare di certe tendenze ormai diventate automatiche ed anzi ovvie ma che sono tra le cause dello sfaldamento del tessuto sociale, spirituale, psicologico e morale contemporaneo.

Padre Pio diceva che la donna è «l’angelo del focolare» intendendo con questa tenera immagine che essa, la donna, è l’angelo custode della casa, della famiglia e dei suoi cari. E sappiamo bene quanto padre Pio amasse la sua mamma, Maria Giuseppa Di Nunzio in Forgione, detta “Peppa”. Povera donna contadina, lavorava per la famiglia non per la propria realizzazione personale, lavorava in casa perché suo marito, senza di lei, non avrebbe trovato al rincasare della sera la minestra pronta e un confortante fuoco scoppiettante dove scaldare le mani intirizzite dal freddo umido della campagna al termine di una dura giornata di lavoro. Allo stesso modo Licia Gualandris, affettuosamente conosciuta come «mamma Licia», moglie di Settimio Manelli, padre di quel padre Stefano Manelli fondatore dei frati francescani dell’Immacolata che crebbe e si fortificò servendo, ancor bambino, la Messa di Padre Pio e che ora, come il suo Maestro, sperimenta persecuzione, esilio, carcere e calunnie di ogni sorta.

Mamma Licia, dunque, ebbe 21 figli, anche lei però, come mia madre, non li poté veder crescere tutti ma di quei 21 solo 13 giunsero all’età adulta, gli altri li dovette restituire al Signore con lo stesso spirito di Giobbe: “il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore… Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?” (Gb 1,21. 2,10). Ma mamma Licia, come mamma Peppa, come mia madre, non lavorava, come si dice oggi, “fuori casa”. Ad onor del vero, mia madre lavorò fin quando rimase incinta del quinto figlio allorché la Divina Provvidenza, attraverso i suoi datori di lavoro, la pose dinanzi alla scelta di continuare a lavorare interrompendo quell’imbarazzante catena procreativa oppure rinunciare al lavoro. Benedetto il giorno in cui il Signore ce la restituì tutta per noi! Una donna che certamente fin dal primo figlio aveva scelto di formare una famiglia cristiana, ma che da quel momento in poi si consacrò, un po’ per scelta e un po’ per un mirabile disegno dell’Altissimo, al servizio della famiglia, integralmente e in maniera indivisa, anima e corpo al marito e ai figli.

Quelle madri, dunque, custodivano (e tutt’ora custodiscono) i propri cari soffrendo e sopportando tutto e ancor di più per amore loro, per amore di Dio. Tanto che mamma Licia poteva dichiarare commossa ai suoi figli: «quando ci siete ho tutto, quando non ci siete mi manca tutto».

Ma se la donna abbandona il ruolo che Dio stesso ha stabilito per lei fin dalla creazione, chi potrà sostituirla? Se la madre non può, o non vuole, più votarsi totalmente e col cuore indiviso alla propria famiglia, chi potrà sopperire a questa terribile mancanza? Un vuoto incolmabile caratterizza la quasi totalità delle famiglie, quelle poche rimaste, anche di quelle cattoliche giacché la madre è stata strappata alla famiglia. Una forza diabolica, nel senso proprio di “divisoria”, ossia che divide i cuori e i corpi si è insinuata strisciando come un serpente velenoso nei nostri focolari creando false necessità, false priorità, miraggi e illusioni che si cibano dell’ambizione umana a voler primeggiare, a voler essere stimati, elogiati, apprezzati e in questo modo sentirsi appagati. Ma questo non è strano se conosciamo un po’ l’essere umano e la triplice concupiscenza di cui parla san Giovanni apostolo, e che culmina con la superbia della vita ossia nella smania della novità per cui “non si sazia mai l’occhio di vedere né l’orecchio di udire”.

Ma, si dirà, una donna può essere sia una buona madre che una buona lavoratrice. Epperò con questa affermazione devo assolutamente e fermamente dissentire per un semplice motivo: non si possono spendere tutte le energie fisiche, psichiche ed emotive parimenti per la famiglia e per il lavoro. Ossia, non si può dare il massimo per il datore di lavoro ed anche per il marito, i figli, la casa ecc. Uno dei due ci rimetterà sempre in termini di presenza, di qualità, di amore, di dedizione. In effetti, credo che un criterio adeguato per valutare l’importanza capitale e insostituibile della madre e della moglie è quello della “consacrazione”. Non intendo, ovviamente, una consacrazione di tipo religioso con l’emissione di voti solenni, ma qualcosa se vogliamo di similmente profondo perché in entrambi i casi avviene un “olocausto”, ossia la rinuncia totale a se stessi, tanto nel matrimonio quanto nella professione religiosa. La donna sposata non si appartiene più, come il marito non appartiene più ad altre che alla propria moglie: essa è di lui e per lui. Eppure, se una donna si lascia vincere dalle lusinghe del mondo per cercare se stessa al di fuori del luogo familiare e matrimoniale, al di fuori del suo “trono regale” che è il focolare non troverà certo se stessa, ma anzi perderà se stessa, perché chi cerca la sua vita in questo mondo la perderà, ma chi perderà la sua vita per causa dell’amore la ritroverà per la vita eterna.

Certo le attività che svolge una donna sono tranquillamente rimpiazzabili dal marito, su questo non c’è dubbio. Anche l’uomo, se messo in condizione di necessità, è capace di cucinare, stirare, pulire ecc. Anzi, oso dire che potrebbe fare tutte queste cose anche meglio della donna. Ma non è a queste attività che si riduce l’essere madre e moglie, per queste cose basterebbe la servitù. C’è un ruolo invece assolutamente insostituibile, che nessun uomo potrà mai rimpiazzare ed è quello della “madre”. Provo a spiegarmi. Vedete, la donna di famiglia è come un pilastro, è una colonna ferma e luminosa, è una sicurezza per tutti i membri della famiglia sia per i figli che per il marito. I primi devono sapere che la madre è sempre lì pronta per accorrere alle loro necessità, che non avrà mai nulla di più importante da compiere che assisterli nelle loro “imprese”, siano esse l’imparare a camminare, a leggere, a tenere la forchetta da soli o siano esse le esperienze dell’adolescenza che emerge con la sua necessità di rompere il “guscio” preparando così la via agli uomini che verranno.

Coloro che hanno avuto una madre massaia, anzitutto felice di essere madre, di essere moglie e di essere casalinga e che nella semplicità e ripetitività del vivere quotidiano ha trovato la propria gioia, dicevo, costoro sanno quanto sia importante per un figlio avere una madre del genere. Ma lo sanno anche coloro che invece non l’hanno avuta, che non hanno avuto cioè una madre, direi, “integrale” o a tempo pieno, ma piuttosto una madre costretta a dover dividere il proprio cuore in impegni confliggenti ed estenuanti, una madre, cioè, “part-time”.

Essere madre è una vocazione profonda, totalizzante e permeante che sottrae la donna alla propria volontà, un po’ come il sacerdote che, come disse il venerabile Fulton Sheen, non si appartiene più perché è divenuto dote e vanto di Cristo. D’altra parte, nessuno può servire due padroni, o odierà l’uno e amerà l’altro, o viceversa. Non si può voler essere madre al 100% e voler essere lavoratrice al di fuori della propria casa al 100% e tra i due stili di vita, lo sappiamo bene, chi ci rimette è sempre la maternità. A che cosa gioverebbe ad una donna cristiana, sposata e madre essere un brillante avvocato, un medico generoso, un eccellente ingegnere, una grande scrittrice se poi non adempie perfettamente ai propri doveri di stato? E come potrà adempiere perfettamente ai propri doveri di stato se i figli, i suoi figli, i figli che Iddio gli ha affidato non solo perché godesse della gioia del partorire ma perché li allevasse, li crescesse affaticandosi per loro, sono affidati alle cure e alla formazione di quelle che oggi vengono chiamate “agenzie educative”? Come può una madre conoscere e, quindi, amare nell’intimo quel figlio se la maggior parte del tempo lo passa lei a lavoro e lui all’asilo, o con i nonni, qualora ancora ci fossero? Bisogna avere il coraggio di essere sinceri, anzitutto con se stessi: nessuno in queste situazioni è pienamente soddisfatto, né i figli, né il marito, né la madre stessa e, io credo, neanche Dio.

Si mandano i figli all’asilo perché la mamma lavora, e al contempo la mamma lavora per poter mantenere l’asilo, è un circolo vizioso da cui non si esce e che fagocita la vita delle famiglie, anche cattoliche, che si sentono oppresse e private della loro vitale intimità.

Inoltre, c’è un altro aspetto estremamente nocivo per la vita matrimoniale e per il bene spirituale della donna che si aggiunge al già grave danno del lavoro fuori casa ed è la promiscuità nei luoghi di lavoro. In definitiva, a conti fatti, la donna passa più tempo con altri uomini che non con il proprio marito. Ride, scherza, si arrabbia, prende il caffè con i colleghi di lavoro mentre con il marito giusto poche parole, stanche e nervose la sera al ritorno della giornata di lavoro quando entrambi non hanno né forze né voglia di sopportare il bisogno di affetto dei figli che vivono, di fatto, come degli orfanelli. E sappiamo bene quanto il livello dell’amoralità, che non può che divenire immoralità, sia diffusa oggi nei luoghi di lavoro e fra gli uomini. Non si ha nessun timore né remora a tentare, sedurre, ammiccare, osare parole, pensieri e sguardi verso un uomo o una donna chiaramente sposati e con figli: viviamo in mezzo ad una generazione perversa e degenere da cui bisogna guardarsi e mantenendosi puri, casti e sobri, passandovi in mezzo come Dante e Virgilio senza ragionar sopra di essa.

Per questo vorrei spendere una parola anche per gli uomini, per i mariti i quali, sono anch’essi oggi gravemente penalizzati, ma per altri motivi che forse, Deo placente, affronterò in un altro momento. Uomini, dunque, proteggete le vostre mogli! Non lasciatele in balia del mondo, dei colleghi, ma anche della loro naturale inclinazione ad essere indipendenti e a voler “governare”, una passione disordinata effetto incancellabile del peccato originale. Per questo vi invito, vi esorto, vi supplico di persuadere le vostre mogli a restare a casa, a difendere e alimentare il santo focolare cristiano.

Ma, mi si potrebbe obiettare che con un lavoro solo non si riesce ad arrivare alla fine del mese, che quello della donna casalinga è un “lusso” per coloro che possono permetterselo. Tuttavia, anche qui, permettetemi di dissentire fermamente. Che sia buono, giusto e santo che la donna, la moglie e la madre non vada a lavorare fuori di casa non è un pensiero mio personale, né una sorta di nostalgia “dei bei tempi andati” ma un preciso volere di Dio. D’altra parte, non è possibile immaginare neanche per un secondo il santo focolare di Nazareth senza la presenza ferma, sicura, perseverante e laboriosa dell’Immacolata Vergine Maria, nonostante la povertà, le ristrettezze economiche, la precarietà, le fughe improvvise dalle persecuzioni violente che costrinse la Sacra Famiglia ad emigrare in terra straniera e pagana. Ma con loro, nelle tribolazioni, c’era Dio. Lui ha istituito il Matrimonio e lo ha elevato alla dignità di Sacramento, e soltanto nell’alveo del matrimonio ha benedetto le famiglie della terra assistendole con la sua Grazia e la sua Divina Provvidenza, in ogni tempo. Pensiamo soltanto alla famiglia povera di Santa Bernadette Soubirous, quanta indigenza, quanta fatica e…quanta grazia! Come possiamo pensare che Iddio comandi all’uomo e la donna di unirsi per generare ed educare i figli secondo la Sua Legge, e poi non dia loro anche tutte le grazie necessarie per adempiere, integralmente, a questo santo comandamento? Oppure pensiamo, mancando di fede, che Dio non soccorrerà le famiglie che con tutto il cuore e con tutta l’anima vogliono imitare integralmente il Vangelo? Credetemi, si può sempre tornare indietro. Anche dopo vent’anni di lavoro una donna, se si lascia toccare il cuore dal Signore che la invita a farsi da parte, a diminuire perché Lui possa crescere in lei con la grazia e la consolazione, può rinunciare al lavoro per amore della famiglia e, soprattutto, per amore del Signore.

Ma per ottenere questa grazia bisogna pregare umilmente, ardentemente e con fiducia. Per questo vorrei invitare gli sposi a parlare fra loro di questo “ritorno alle radici” della vita cristiana. La fede si deve manifestare con atti esterni concreti, con la coerenza di una vita che brilla nell’oscurità delle contraddizioni di questo mondo. Essa è sì virtù teologale ma, in quanto virtù, è degli uomini quindi radicata nello spazio e nel tempo con tutti i bisogni cui l’uomo deve soddisfare. Bisogna chiedere la grazia e la forza di compiere scelte coraggiose, che oggi sono diventate “eroiche”, tenendo sempre a mente che il Signore benedice e ama chi dona generosamente se stesso, con gioia: “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete!”.

E voi donne, non fuggite da voi stesse, siete fatte per servire e per amare, e per amare servendo Iddio in vostro marito, nei vostri figli, con cuore indiviso e integro, senza altre priorità anche fossero, apparentemente, del più santo apostolato cattolico. “Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli – dice l’Apostolo – ma non avessi l’amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla. Anche se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi l’amore, non mi gioverebbe a niente” (1Cor 13,1-3). E continua spiegando cosa sia realmente l’amore: “L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non è invidioso; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno” (13,4-8). E cosa altro sarebbe questa magnifica lista di virtù e di bellezze dell’amore, se non il volto dolce della Madre che tutte le riassume e le comprende, di Colei che per sé stessa nulla ha trattenuto e a tutto ha rinunciato per amore? Pensate solo per un secondo, o donne, che l’attributo più grande di Maria di Nazareth e che fonda tutte le altre sue glorie è proprio quello di “Madre”. Essa è Madre di Dio, Madre di Gesù e Madre nostra, e lei è il modello e la sintesi di ogni virtù. La sua umiltà l’ha resa degna di essere investita del più grande titolo onorifico a cui una donna possa mai aspirare: “Madre di Dio”, in greco «Theotòkos». Vedete quindi, che non ci può essere grazia, dono, compito, incarico e, se vogliamo, “lavoro” più bello, più santo e più gratificante di quello di imitare la Vergine Maria consacrandosi totalmente al servizio della propria famiglia per formare i cittadini del Cielo, per preparare anime per il Paradiso che vadano ad occupare il posto degli angeli caduti.

Non ho ritenuto opportuno elencare tutti i riferimenti al Magistero ecclesiastico su questo tema perché essi sono facilmente reperibili. Un testo soltanto raccomando di leggere, studiare, contemplare e imitare: l’enciclica “Casti Connubii” di Pio XI. Quello sì che è Magistero su matrimonio e famiglia che vale la pena conoscere, specialmente oggi, piuttosto che avventurarsi nella lettura di fumose-esortazioni-apostoliche che minano la solidità, l’unità, l’indissolubilità e la dimensione soprannaturale del “Casto Connubio”.

Spero con questo mio breve scritto di non aver offeso nessuno, esso infatti non vuole essere un j’accuse ma, al contrario, una supplica accorata, nella consapevolezza che soltanto rimettendo al loro giusto posto i “pezzi” della società si potrà, gradualmente, ricostruire una civiltà cristiana. Soltanto riconoscendo le diversità intrinseche, e riappropriandosi dei ruoli distinti che Dio ha affidato all’uomo e alla donna si potrà veramente e lecitamente sperare di «instaurare omnia in Christo».

Preghiamo dunque perché il Signore che si è degnato di unire l’uomo e la donna in matrimonio affidando loro la cura dei Suoi figli, ci dia anche la forza di compiere gesti coraggiosi e generosi che facciano brillare la Fede Cattolica come città splendente sul monte: Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento” (Fil 1,6).