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di Doctor Subtilis

È morto Imre Kertész, lo scrittore ebreo ungherese, Premio Nobel, ricordato soprattutto per Essere senza destino, romanzo ispirato dall’esperienza dell’autore come prigioniero dei lager. Letterariamente, un indiscutibile capolavoro, soprattutto per la profonda riflessione sul tempo, sul rapporto fra tempo individuale e tempo storico, sul progressivo naufragare, dissolversi ed annullarsi del primo nella “corrente” e nel “turbine” inarrestabili del secondo.

Suscitò, o avrebbe dovuto suscitare, un certo scalpore la sua intervista rilasciata a Die Zeit, http://www.zeit.de/2013/38/imre-kertesz-bilanz. In essa, lo scrittore sosteneva di sentirsi ormai “il pagliaccio dell’Olocausto”, “una società per azioni”, “un marchio di fabbrica”.

In ogni caso (premesso che l’autore di questo articolo, pur volendo restare anonimo, non si pronuncia sulle camere a gas naziste, non avendo grandi nozioni né di chimica né di architettura), la lettura di Essere senza destino, considerato come fonte storica (nella misura in cui ciò può avvenire per un ‘opera che si presenta comunque come un romanzo), non contrasta con un’ottica revisionista.

Cito dall’edizione Feltrinelli, Milano 1999.

“La posta di mio padre dal campo di lavoro ci arriva regolarmente: è sano, grazie a Dio, regge bene il lavoro e anche il trattamento – scrive – è umano” (p. 27). Lettere del genere, forse, venivano  scritte e recapitate realmente, e non erano solo – come vorrebbe la storiografia ufficiale – un’operazione di camuffamento ordita dai nazisti.

Il trasferimento dei lavoratori ebrei nei vari lager è concordato ed organizzato in collaborazione con gli Judenräte, con i Consigli Ebraici (p. 52).  Il ruolo (forse coatto) di questi ultimi fu del resto analizzato ‒ suscitando violente reazioni ‒ anche da Hannah Arendt, e traspare in modo evidente anche dall’opera, ad esempio, di Etty Hillesum.

Ad un ingegnere ebreo che chiede di poter svolgere “un lavoro all’altezza delle sue capacità”, un ufficiale nazista assicura che “la Germania, considerato lo sforzo che stava facendo, aveva bisogno di chiunque e tanto più delle competenze di chi aveva una preparazione specifica” (pp. 60-61).

Il viaggio verso Auschwitz è, certo, terribile, specie per la sete – cosa che il revisionismo non ha mai negato.

Ma l’arrivo del protagonista al lager non è così traumatico. Un campo da calcio “allettante, fresco, in ottime condizioni e in perfetto ordine”; “ogni sorta di fiori multicolori nelle aiole”; “tutto lindo e grazioso” (p. 78). Forse questa apparenza era studiata. I lager e i ghetti erano anche teatro, cartapesta, tragica finzione (basti pensare a Theresienstadt : https://www.youtube.com/watch?v=45692xPHXGk )

Doccia (d’acqua, non di gas: del resto l’idea della doccia di gas è stata abbandonata, pare, anche dalla storiografia ufficiale), disinfestazione, visita, radiografia.

Alla domanda “se c’erano delle epidemie”, “’Sì’, ci riferirono. E cosa succedeva agli ammalati? ‘Muoiono.’ E i morti?’ ‘Quelli vengono bruciati,’ ci dissero”(p. 93). Ciò è noto, e non è affatto negato dal revisionismo. I lager erano flagellati da tifo, dissenteria, malaria, tubercolosi. E per ovvie ragioni igieniche i cadaveri erano cremati.

“From 1942 to 1945, certainly at Auschwitz, but probably overall, more Jews were killed by so-called ‘natural’ causes than by ‘unnatural’ ones”, dice  Arno Mayer (Why Did the Heavens Not Darken? The “Final Solution” in History, New York, Pantheon Publishers, 1988, p. 265): nei lager, le cosiddette “cause naturali” (ammesso che si possa parlare di morti naturali in un lager o in un gulag, date le tremende condizioni) erano addirittura responsabili di un numero maggiore di vittime di quelle “non naturali” (ossia delle esecuzioni).

Ciò parrebbe confermato dai Totenbücher, restituiti nel 1989, in segno di glasnost, dall’Unione Sovetica alla Germania. Essi sono però incompleti, e potrebbero (pur essendo documenti riservati) essere stati falsificati. Ad ogni modo, essi registrano anche bambini e anziani, i quali, secondo la storiografia ufficiale, venivano immediatamente inviati, a decine di migliaia, alle camere a gas, senza registrazione. Vedi http://www.whale.to/b/weber78.html .

Di assoluto rilievo, in Essere senza destino, le pagine 95 e 96. In esse, forse senza rendersene conto, questo grande scrittore in séguito ridotto, specie dopo il Nobel, dalla propaganda a pagliaccio dell’Olocausto ci rivela, consapevolmente o meno, con grande lucidità, la tipica dinamica, la perfetta fenomenologia, secondo le quali prende corpo e si diffonde (in linea generale, non necessariamente in questo caso specifico) un mito. “Pare che siano stati condotti nel locale delle docce dove, mi giunse voce, c’erano gli stessi tubi: solo che invece dell’acqua veniva fatto uscire del gas. Tutto questo non lo sono venuto a sapere in una volta, ma a poco a poco, con aggiunte di particolari sempre nuovi, alcuni dei quali venivano messi in discussione, altri invece venivano confermati e addirittura ulteriormente completati”.

Questo fenomeno di alterazione, contaminazione e contagio delle testimonianze, che finisce per mescolare verità e leggenda, è ben noto alla critica delle fonti, specie quella che si esercita sulla storia antica. Forse lo stesso rigore, lo stesso scetticismo o la stessa cautela dovrebbero essere usati anche di fronte alla memorialistica sull’Olocausto. “Le fonti per lo studio delle camere a gas sono tanto rare quanto inaffidabili. (…) Le testimonianze devono essere attentamente esaminate, perché possono essere influenzate da fattori soggettivi di notevole complessità” (Arno Mayer, Why Did the Heavens Not Darken?, cit., pp. 362-363: grande libro, per inciso ‒ “le plus grand effort jamais fait pour penser de façon critique l’impensable”, “il più grande sforzo mai compiuto per pensare criticamente l’impensabile”, secondo il giudizio di Pierre Vidal-Naquet ‒, non si sa perché scomparso, a quanto pare, dalle bibliografie e dal dibattito storiografico).

Da Auschwitz, il protagonista è trasferito a Buchenwald. Per lui, dunque (come del resto per la stessa Anna Frank, morta tragicamente, di tifo, a Bergen Belsen, dopo essere transitata indenne per Auschwitz), Auschwitz funse da campo di transito (mentre la storiografia ufficiale tende spesso a contare come morti tutti i detenuti che, giunti dapprima ad Auschwitz, furono trasferiti altrove).

Colpito, purtroppo, da un’orrenda infezione ad un ginocchio (nessun revisionista ha mai negato le drammatiche condizioni sanitarie dei lager, paradossalmente aggravate dai bombardamenti alleati, che tagliando le vie di comunicazioni compromisero gli approvvigionamenti, come mostrano le pagine di un altro grande testimone, Primo Levi: “Vi erano molte deficienze, alcune forse insormontabili come la mancanza di medicinali e la scarsità di materiale da medicazione, data la grave situazione in cui già fin da allora si trovava la Germania, premuta da una parte dall’infrenabile avanzata delle valorose truppe russe e dall’altra quotidianamente bombardata dall’eroica aviazione anglo-americana”, “Minerva medica”, 24 novembre 1946, pp. 535-544 ‒ sull’”eroismo” di quell’aviazione, peraltro, l’indiscriminata, spietata ed inutile polverizzazione di Dresda, a tacer d’altro, getta qualche ombra), il protagonista (quattordicenne) è trasferito, insieme ad altri ragazzi inabili al lavoro, all’ospedale di Gleina, poi a Zeitz (i detenuti venivano smistati, del resto, in una rete di migliaia di sottocampi, in massima parte, ch’io sappia, quasi ignoti, e mai studiati).

Come Levi e come Wiesel, che forse formano con lui la massima triade delle testimonianze sull’Olocausto,  Kertész, malato, anzi quasi moribondo, fu dunque curato negli ospedali dei lager nazisti. Se i primi due potevano essere recuperati al lavoro, ciò non si dava nel suo caso.

“Insieme a tutti quelli che non davano grandi speranze di poter tornare a lavorare”(p. 155), il protagonista non viene avviato verso un centro di sterminio, come di norma avveniva, secondo la storiografia ufficiale, per gli inabili al lavoro, che non passavano le selezioni, ma rispedito a Buchenwald, donde (nonostante il suo terrore di essere ucciso “con dei farmaci di cui avevo sentito parlare ad Auschwitz”, p. 159) sarà infine liberato, per tornare in Ungheria e poter riabbracciare, fortunatamente, la madre, anch’ella miracolosamente sopravvissuta alla Aktion Höss, che prevedeva, stando alla storiografia ufficiale, lo sterminio senza eccezioni di tutti gli Ebrei ungheresi. Peraltro, è interessante notare che Luciana Nissim Momigliano, grande psicanalista, accompagnò come medico un lungo convoglio di ebree ungheresi, anch’esse miracolosamente scampate, da Birkenau a Buchenwald, seguendo dunque un tragitto analogo a quello di Kertész: Ricordi della casa dei morti, Torino 1946. La vicenda di Kertész, approdato a Buchenwald da Auschwitz, parrebbe quasi, sorprendentemente, inserirsi nel tortuoso scenario delle deportazioni degli ebrei ungheresi ricostruito da Paul Rassinier in Le Drame des Juifs Européens (opera in cui, fin dal titolo, non sono affatto negate le sofferenze del popolo ebraico).

Si è creato, scrisse Kertész (Yale Journal of Criticism, 2001, pp. 267-272: http://www.english.illinois.edu/maps/holocaust/reflections.htm , in fondo), un vero e proprio “sistema di tabù olocaustici a cui il discorso celebrativo si accompagna”; gli stessi testimoni, gli stessi sopravvissuti ne sono, paradossalmente, condizionati, quasi plagiati. “The survivor is taught how he has to think about what he has experienced, regardless of whether or to what extent this ‘thinking-about’ is consistent with his real experiences”: “Al sopravvissuto si insegna come egli deve pensare a ciò che ha vissuto, indipendentemente dal fatto che questo pensiero si accordi con le sue esperienze reali”.

Ma, dice ancora Kertész, il ruolo della memoria dovrebbe essere quello di una catarsi: essa dovrebbe servire a liberare – attraverso la riflessione critica e la presa di coscienza – il mondo dal “fardello dell’Olocausto” (“how should the world free itself from Auschwitz, from the burden of the Holocaust?“).

Forse anche l’abietto “negazionismo”, anche il confronto con i problemi da esso sollevati, possono giovare al processo dialettico di questa presa di coscienza. Donde la necessità che perfino i “negazionisti” abbiano pieno diritto di parola.

Come disse Raul Hilberg, “if these people want to speak, let them. It only leads those of us who do research to re-examine what we might have considered as obvious. And that’s useful for us” (citato da Christopher Hitchens, Hitler’s ghost, “Vanity Fair”, giugno 1996, pp. 72-74, http://www.fpp.co.uk/StMartinsPress/Hitchens0696.html ): le osservazioni dei “negazionisti” possono (o meglio potrebbero, se non fossero zittite e rimosse a priori) indurre la storiografia ufficiale a ripensare alcune questioni, o alcuni dettagli, prima dati per scontati; anche il cosiddetto “negazionismo”, per quanto spregevole esso sia o sia considerato, potrebbe comunque, per negationem appunto, essere utile e giovare alla conoscenza.

A pubblicare i piani per la costruzione di Auschwitz fu Faurisson; a far notare che non esiste un ordine scritto di Hitler circa lo sterminio fu David Irving (ciò ha dato origine alla disputa fra “intenzionalisti” e “funzionalisti” ‒ ed è lecito domandarsi in che modo, se avessero ragione i secondi, si potrebbe ancora parlare di genocidio sistematico); se Faurisson non avesse messo in dubbio l’autenticità del Diario, o meglio dei Diari (almeno tre stesure divergenti su molti punti sostanziali), di Anna Frank, forse oggi non ne avremmo un’edizione critica.

Ma perché, in definitiva, uno dei massimi scrittori europei del secondo Novecento arrivò a definirsi un pagliaccio dell’Olocausto, “ein Holocaust-Clown”?

Forse perché ebbe infine il timore che la sua opera (capolavoro letterario e testimonianza storica equilibrata) finisse per essere confuso con il ”dossier pourri”, con il “putrido memoriale”, come lo definiva Jean-Claude Pressac (massima autorità circa le camere a gas naziste), di certa storiografia olocaustica, che ha finito per avallare e diffondere, intorno a “sofferenze troppo reali” come quelle che lo stesso Kertész vide e visse, tutta una serie di esagerazioni, deformazioni, miti, strumentalizzazioni, destinata presto o tardi alle “pattumiere della storia” (intervista in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, Seuil, Paris 2000, pp. 651-652 – e qui sono costretto a rinviare ad un articolo del lurido “negazionista”:  http://robertfaurisson.blogspot.it/2005/06/il-y-dix-ans-la-capitulation-de-jean.html).

Che Essere senza destino non finisca in quelle poubelles, in quelle pattumiere; che non sia confuso con le mistificazioni ad esse destinate.

Che resti come testimonianza di una memoria catartica e liberatrice, non oppressiva, colpevolizzante e ricattatoria. Che sia materia di riflessione critica. Che non cada sotto la cupola plumbea dei dogmi di stato.

Sarebbe un far torto al suo autore, e al dramma ch’egli e il suo popolo realmente vissero.