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di Moreana

Non vi è maggior omaggio reso ai santi – soprattutto se martiri della fede – se non nel testimoniare ed esaltare il fine ultimo delle loro tribolazioni terrene : Nostro Signore Gesù Cristo. È per tale motivo che vorremmo sottoporre alla gentile attenzione dei lettori di Radio Spada un passo tratto dal De tristitia Christi del santo e dotto Tommaso Moro. L’opera fu composta in condizioni di estrema precarietà materiale durante il periodo di carcerazione del Moro nella Torre di Londra. L’ultimo cancellerie della  Inghilterra cattolica compose nel 1534 una lunga ed originale meditazione sull’agonia morale del Salvatore. Lo scritto di pregevole qualità letteraria – come dubitarne dato che lo stesso Moro mise a soqquadro nel 1516 tutta l’Europa con la pubblicazione della sua Utopia ? – non solo si distingue per la profondità delle meditazioni, ma anche per l’attenzione che il Moro rivolge ai minimi dettagli della sequenza evangelica. Nulla egli lascia inesplorato nella sua analisi.

Il capitolo 15 dell’opera tratta della divinità di Gesù e della Sua regalità. Lo riportiamo integralmente (tratto dall’edizione a cura di Domenico Pezzini – introduzioni e note – e traduzione di Simona Erotoli, Milano, Edizioni Paoline, 2011, pp. 161-164.)

 

Cristo quindi, avvicinatosi alla turba, domanda :

“Chi cercate?”. Risposero : “Gesù il Nazareno”.

C’era con loro anche Giuda, che lo aveva tradito.

E Gesù disse loro : “Sono io”.

Non appena Gesù disse loro: “Sono io”,

indietreggiarono e caddero a terra. (Gv 18, 4-6)

 

Se in precedenza il timore e l’angoscia di Cristo avevano in qualche modo diminuito nell’animo di qualcuno la stima per lui, ora, viceversa, è necessario restituirgliela per la virile fortezza e l’imperturbabilità con cui si dirige verso l’intera banda di questi uomini armati, sicuro di essere ucciso: Sapeva infatti tutto ciò che gli sarebbe accaduto. Poiché quelli non sapevano chi fosse, egli stesso si consegna a questi scellerati e si offre spontaneamente come vittima di un feroce assassinio. E senza dubbio, questa trasformazione tanto repentina e tanto radicale sarebbe giustamente straordinaria anche solo in rapporto alla sua venerabile umanità. Ma quale considerazione e quanta stima di lui dovrebbe nascere nel cuore di tutti i fedeli davanti al vigore della potenza divina che sfavilla così mirabilmente attraverso il debole corpo di un uomo? Infatti, a che cosa è dovuto il fatto che nessuno di quelli che lo cercavano lo riconobbero mentre si avvicinava? Aveva insegnato nel tempio. Aveva rovesciato i banchi dei mercanti. Aveva cacciato fuori dal tempio gli stessi mercanti. Aveva vissuto in mezzo alla gente. Aveva confutato i farisei. Aveva dato soddisfazione ai sadducei. Aveva confuso gli scribi. Con una risposta prudente si era preso gioco degli erodiani e delle loro capziose domande. Con cinque pani aveva esaltato settemila uomini; aveva guarito i malati, aveva resuscitato i morti, si era mostrato a ogni sorta di gente: a farisei e pubblicani, ricchi e poveri, giusti e peccatori, ai Giudei, ai Samaritani e anche ai Gentili. E ora, tra tutta quella gran folla, non c’era nessuno che riconoscesse dal volto o dalla voce colui che si avvicinava, come se coloro che li avevano inviati si fossero preoccupati di non mandare in quel luogo nessuno che avesse visto in precedenza colui che ora cercavano. Non c’era qualcuno che, almeno dall’incontro con Giuda, dall’abbraccio e dal bacio, il segnale che avevano convenuto, avesse riconosciuto Cristo? E anzi, lo stesso traditore, che in quel momento era con loro, ora di punto in bianco non sapeva più riconoscere colui che poco prima aveva tradito con il segnale del bacio? Da dove dunque ebbe origine questo prodigio? Senza dubbio il fatto che nessuno poté riconoscerlo si spiega allo stesso modo di quanto avvenne poco dopo, quando né Maria Maddalena che lo guardava, né il primo né il secondo dei discepoli che parlavano con lui, lo riconobbero, fino a quando non fu lui a rivelarsi: questi infatti lo ritennero uno straniero qualsiasi, quella un giardiniere. Infine, se vuoi sapere come poté accadere che quando si avvicinò a loro nessuno fu in grado di riconoscerlo, non dubitare che questo è dovuto allo stesso motivo per cui quando parlò nessuno poté rimanere in piedi: Non appena Gesù ebbe detto: “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra.

Così Cristo mostrò apertamente di essere davvero il Verbo di Dio, che colpisce e penetra più profondamente di qualsiasi spada a doppio taglio. E infatti si tramanda che la folgore è di tale natura da fondere una spada lasciandone integro il fodero. Certamente la voce di Cristo fece fondere gli spiriti di costoro lasciandone illesi i corpi, e così non rimasero loro le forze per sostenere le membra.

In questo passo l’evangelista ricorda che Giuda era con loro. Infatti, avendo udito che Gesù gli rimproverava apertamente il suo tradimento, o perché turbato dalla vergogna, o perché terrorizzato per la paura (poiché conosceva l’impulsività di Pietro), indietreggiò immediatamente e si rifugiò tra i suoi. L’evangelista, dunque, ricorda che costui stava con loro, perché comprendiamo che anch’egli cadde a terra con loro. E per la verità tra tutta quella non c’era nessuno peggior e di Giuda, nessuno più meritevole di essere gettato a terra; ma l’evangelista ha voluto ammonire tutti quanti perché ognuno di noi faccia attenzione alle persone che frequenta. Se infatti qualcuno va a stare tra i malvagi c’è pericolo che anch’egli vada in rovina con loro, poiché accade raramente che chi è così stupido da imbarcarsi su una nave malridotta con dei futuri naufraghi raggiunga vivo la terraferma dopo che tutti gli altri sono stati inghiottiti dal mare.

Nessuno, credo, può dubitare che chi con una sola parola riuscì a gettare a terra quella gente, con una parola poteva facilmente scaraventarli al suolo con tanta energia che nessuno si sarebbe mai più potuto rialzare. Ma Cristo, che li fece cadere affinché sapessero che non potevano infliggerli nessuna sofferenza contro la sua volontà, permise che si rialzassero perché portassero a termine ciò che voleva subire.

 

Ciò che a Moro interessa sottolineare è l’assoluta padronanza che Cristo, nonostante tutte le sofferenze provate nell’ora terribile del Getsemani, ha sugli avvenimenti. Egli è il re dell’universo, il principio generatore di ogni ordine e armonia. L’eccellenza della passione consiste precisamente nel potere che Cristo ha accordato agli uomini sulla Sua santa persona e umanità. Come ci ricorda un’altra grande mistica, Angela da Foligno, Egli ha concesso alla materia (ai chiodi, al legno della Croce, alle fruste, alla corona di spine) di esercitare una violenza nelle Sue carni, secondo quanto detto a Ponzio Pilato “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande” (Gv 19, 11). Il Cristo annientato sulla Croce è lo stesso Cristo che ammiriamo – forse talvolta atterriti – nelle immagini musive del Pantocratore: Egli è sempre re. Così, san Disma, il ladrone convertito, riconosce questa prerogativa nelle sue ultime parole “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Il Creatore permette che sia un peccatore, dei più miserabili, a dichiarare che Egli è re. Ed è in virtù di queste parole e della tradizione secolare cristiana che la regalità sociale di Cristo sarà solennemente proclamata da papa Pio XI l’11 dicembre 1925 con la bolla Quas Primas.

L’antica e veneranda immagine del Cristo Pantocratore del monastero di Santa Caterina del Sinai svela in parte questo mistero: è possibile notare che il volto di Cristo è come ‘sdoppiato’. La deformità è solo apparente, poiché l’immagine veicola un significato teologico profondissimo, ossia l’ipostasi delle due nature, umana e divina: se il lato destro del volto comunica maestosità e timor di Dio, quello sinistro rivela uno sguardo carico di dolcezza e umanità che ci compatisce (per facilitare la lettura dell’immagine è possibile coprire, di volta in volta i due lati dell’icona, il risultato è impressionante!). E’ lo stesso Cristo maestoso e terribile che con la Sua voce annienta gli avversari nel Getsemani e che al contempo deplora con tono attonito, seppur consapevole – poiché sapeva tutto ciò che sarebbe accaduto-, il gesto di Giuda (“Con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?).

Ma torniamo all’ottimo Moro. Sappiamo che egli è martire della causa papale, per non avare voluto consentire all’Atto di Supremazia di Enrico VIII, con cui il sovrano inglese proclama la propria indipendenza da Roma. Insomma, è il caso di dirlo, Enrico VIII è l’uomo dei divorzi: prima dalla legittima moglie, Caterina d’Aragona – santa donna – e poi dalla Chiesa di Cristo… speriamo che non abbia divorziato negli ultimi istanti dal Paradiso, perché in quel caso non finirà mai di pagare le spese processuali… Anche nel caso del cancelliere inglese, il Re dell’Universo ha concesso particolari prerogative. Sapete, infatti, che il Moro ha subito il martirio della Fede nell’ottava della festa di San Pietro – primo papa? Infatti, la condanna toccò dapprima il vescovo John Fischer il 22 giugno – ossia sette giorni prima il 29 giugno, solennità di san Pietro e Paolo – e poi il Moro il 6 luglio. Nella sua ultima lettera alla figlia amatissima Maragaret, scrive:

“So di recarti un grande dolore, buona Margherita, ma mi dispiacerebbe se la cosa andasse più in là di domani. Poiché è la vigilia di san Tommaso e l’ottava di San Pietro, e perciò è domani che io bramo di andare a Dio : sarebbe un giorno molto adatto e conveniente per me. Ma mi piacque il tuo moro di fare verso di me meglio di quando m’avevi baciato l’ultima volta, poiché mi piace che l’amore di filgiola e la cara carità non si prendano il lusso di preoccuparsi della cortesia del mondo” (dalle Lettere, Milano, edizioni Vita e Pensiero, 2008, p. 407).

 

In Te Domine speravi, non confundar in eternum. Tommaso Moro subisce il martirio nel momento giusto e al posto giusto. Nulla, infatti, resta incontrollato agli occhi del Signore.