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La dolorosa condizione in cui vissero tra il XVI e il XIX secolo ha dotato i cattolici britannici di una particolare sensibilità verso il culto dei martiri. Furono molti, infatti, sacerdoti e semplici fedeli, ad essere giustiziati in odio alla Chiesa, ingiustamente accusati da tiranni arroganti e avari. Soprattutto durante l’età elisabettiana mosse i primi passi quella tendenza politica che sarebbe poi maturata nella modernità, l’idea perversa secondo cui lo stato incarna il principio più alto, l’origine e il fine di qualsiasi decisione. Il popolo, e con lui il re, da quel momento perse progressivamente ogni potere per lasciare spazio alla nuova classe dirigente, prima aristocratica e anglicana, poi borghese e puritana.

I cattolici, come già durante l’impero romano, costituivano un ostacolo a qualsiasi progetto egemonico e, come tali, andavano eliminati. La furia si abbatté dopo la scomunica commutata da San Pio V a Elisabetta, e la regina, in un clima di tensione politica con la Spagna e di instabilità sociale all’interno del regno non volle trovare altra soluzione se non la via breve della sistematica eliminazione di coloro che venivano chiamati con spregio “papisti”.

Alla distruzione dei monasteri e alla cacciata dei religiosi dall’isola durante il regno di Enrico VIII seguì una nuova ondata di violenza che non risparmiò coloro che erano rimasti legati alla fede dei padri. Vietata ogni manifestazione pubblica di culto, i cattolici erano costretti a radunarsi nottetempo per celebrare i sacramenti. I pochi sacerdoti viaggiavano in incognito, spostandosi di continuo per evitare le spie di Cecil e Walsingham che li tallonavano da vicino. I più fortunati assistevano alla messa non più di cinque, sei volte l’anno. Gli altri, gli abitanti delle province rurali e dei villaggi remoti, rimanevano senza comunione per molti mesi. I ricchi possidenti pagavano tasse maggiorate e, col tempo, dovettero vendere le loro proprietà per fare fronte alle crescenti richieste del governo.

Per i colpevoli di tradimento – questa la calunniosa accusa rivolta ai cattolici – la pena prevista era quella capitale. Dopo la morte per impiccagione, o quando il condannato era ormai privo di coscienza, si passava alla mutilazione e allo sventramento. La testa decapitata veniva poi conficcata su una lancia lungo il London Bridge come monito per tutti di sedicenti rivoltosi.

Diverse decine di sacerdoti, formati nel continente, abbandonarono tutto, ambizioni e affetti, per raggiungere le sponde dell’Inghilterra e tentare di recare conforto alle numerose anime in pena. Giovani, molti dei quali gesuiti, erano consapevoli di andare incontro a una morte quasi certa, ma la santità dello scopo valeva qualsiasi sacrificio.

Tra coloro che «giunsero con gaiezza presso un popolo che aveva smarrito ogni speranza» spicca per fama Edmund Campion, morto martire a Tyburn il 1 dicembre 1581. Distintosi per aver sfidato pubblicamente l’intellighenzia protestante a un pubblico confronto, il gesuita univa la leggerezza di spirito alla dottrina, il tutto temprato da un devozione profonda che lo vedeva spesso impegnato in lunghe sedute di preghiera.

La sua parabola esistenziale è narrata da Evelyn Waugh in Edmund Campion: Jesuit and Martyr, un piccolo volume, pubblicato per la prima volta nel 1937, in cui lo scrittore britannico – tra i più fieri avversari del Concilio Vaticano II – mette in campo tutta la verve e il fervore drammatico di cui è capace.

All’interno di un quadro che non risparmia dettagli succulenti sugli usi e i costumi dell’epoca, numerose sottotrame si intersecano con il risultato paradossale di esaltare e non di annullare il protagonista; Campion, sempre presente, assomma in sé le preoccupazioni e le speranze dell’intera comunità fedele a Roma, costretta dalla circostanze a prendere sempre più sul serio la propria religione: «I cattolici non sceglievano più il loro cappellano basandosi sulla velocità con cui celebrava la messa, e non nascondevano più Boccaccio nelle copertine dei loro messali. Spinta nuovamente nelle catacombe, la Chiesa stava recuperando la sua tempra».

Campion, destinato a una brillante carriera accademica a Oxford, dopo il passaggio dell’Inghilterra al protestantesimo si era trasferito in Irlanda e poi in Francia. Riprese gli studi presso il seminario di Douai e venne ordinato sacerdote. Entrato nei gesuiti, trascorse un periodo a Praga in qualità di insegnante, e nel 1580 fu mandato in Inghilterra dai superiori in compagnia del confratello Robert Persons (destinato a diventare più tardi una delle quinte colonne della minoranza cattolica inglese in esilio). Da subito famoso per le doti apologetiche, Campion fu tra l’altro autore di alcuni brillanti scritti in cui la teologia protestante veniva smontata pezzo per pezzo e non senza arguzia e ironia. Nel pamphlet Le dieci ragioni affiorano anche notevoli intuizioni, quasi profezie: «Ascolta, Elisabetta, regina molto potente […] te lo dico; un medesimo paradiso non può contenere Calvino e i tuoi illustri antenati […]. Verrà il giorno Elisabetta in cui vedrai chiaramente chi ti avrà amato davvero, se la Società di Gesù o la primavera di Lutero».

Passaggi come questo gli valsero presto lo sgradito ruolo di ricercato numero uno e quando venne catturato, gli anglicani di tutto il regno poterono tirare un sospiro di sollievo, ingannandosi di aver finalmente trionfato. Ma di chi fu la vera vittoria? Campion oppose ai padroni di questo mondo la gloria del martirio, una palma che vale più di qualsiasi scettro. Il suo gesto non fu vano; anzi, il sangue versato da lui e dai tanti che morirono per la Chiesa fu semente per una nuova generazione di cattolici. Come scrive Waugh a conclusione del libro: «Noi siamo gli eredi della loro conquista».

Luca Fumagalli

Il libro: E. WAUGH, Edmund Campion: Jesuit and Martyr, Londra, Penguin Books, 2012, 165 pagine, 14 Euro (purtroppo del volume non esiste una traduzione in italiano).