Nelle battute finali del romanzo “Il padrone del mondo”, capolavoro di Robert Hugh Benson, Felsenburg – il misterioso politico rivelatosi l’anticristo – è ormai il padrone indiscusso della terra e il sangue dei cattolici è stato versato in ogni angolo d’Europa. Gli ultimi cristiani si sono trasferiti in gran segreto a Nazareth guidati da Silvestro III, l’ultimo Papa. Mabel, entusiasta progressista, ora contempla disperata un mondo che si è dimostrato malvagio e brutale come il precedente. Disillusa, sente che nella sua vita si è creato un vuoto incolmabile e decide così di suicidarsi.
Mabel aspettò che la porta venisse ben chiusa e tolta la chiave; quindi ritornò alla finestra e si appoggiò al davanzale. Da lì guardò prima giù a basso il giardino con la sua aiuola verde, dalla quale si alzavano due o tre alberi, che la luce interna rischiarava attraverso la finestra; poi i tetti e, su in alto, un pauroso drappo nero e rossastro.
La scena appariva più tetra nel contrasto dei due elementi: era come se la terra fosse divenuta capace di far luce, ora che il cielo si era spento.
Intorno regnava una grande quiete. La casa si manteneva silenziosa, come al solito a quell’ora: del resto, gli inquilini non erano disposti al chiasso. La quiete di quel momento si poteva però dire un silenzio di morte; quel silenzio che precede i rombi improvvisi delle artiglierie celesti.
Tuttavia, gli istanti passavano senza che neppur uno di quei rombi si facesse sentire. Solo tornò a riecheggiare il rullio, tetro come lo strepito di una grande automobile lontana; questa volta però meravigliosamente impressi- vo, e alle orecchie della giovane sembrava che fosse accompagnato dal brusio di innumerevoli voci festanti e plaudenti.
Poi ritornò il silenzio, come lana che cade…
Mabel incominciava a capire che il suono e le tenebre non erano né per tutti gli occhi né per tutte le orecchie.
L’infermiera, infatti, non aveva udito né visto niente di strano, così come tutti gli altri uomini: per tutti erano che i segni di una burrasca imminente. Mabel non provò neanche a distinguere ciò che era soggettivo e ciò che era oggettivo nelle sue sensazioni; poco le importava che le visioni e i rumori provenissero dal suo cervello o da qualche particolare facoltà fino a quel momento sconosciuta. Si sentiva separata dal mondo circostante che già si stava allontanando da lei o, piuttosto, rimaneva sempre, ma si trasformava passando a un altro modo di esistenza. Così la singolarità della situazione non la turbò più di quanto avrebbe potuto turbarla qualsiasi altra cosa… come per esempio, quella piccola cassetta dipinta lì, sopra la tavola…
Allora, senza capire bene che cosa diceva, con gli occhi rivolti verso il cielo, incominciò a parlare:
«Oh, Dio! Sei lassù? Esisti veramente?»
Sentì la voce venirle meno e si aggrappò al davanzale per non cadere; si stupiva di aver pronunciato quelle parole, che non erano dettate né dalla ragione né dal sentimento. Eppure continuò:
«Dio! Io son certa che non sei lassù! Non sei in alcun luogo! Ma, se ci fossi, oh! Saprei bene che cosa vorrei dirti! Ti direi quanto grandi sono la mia angoscia e la mia amarezza! Ma no… non occorrerebbe, perché lo vedresti da solo! Ti direi allora che tutto quello che faccio lo detesto con tutta l’anima! Ma tu vedresti anche questo, senza che te lo dicessi! O Dio! Che dirti allora? Ah! Ti direi di vegliare sul mio Oliver e sui tuoi poveri cristiani. Oh, quanti terribili prove dovranno affrontare! E tu, mio Dio, mi comprenderesti, mi ascolteresti?»
Echeggiò ancora il cupo rullio, accompagnato da un basso maestoso di miriadi di voci, che sembravano avvicinarsi.
«Coraggio!» disse. «Addio! Addio a tutto!»
Quindi si adagiò sulla poltrona.
«Via… a me l’imboccatura!»
Si adirava per le mani che le tremavano: due volte le sgusciarono le molle sulle trecce dei capelli, poi riuscì ad allacciarle e subito, come all’alito di una brezza vivificante, si sentì rianimata. Respirava senza il minimo disagio, pensando che neppure dopo ci sarebbe stato pericolo di soffocare. Stese una mano e toccò la maniglia, senza accorgersi della sua freschezza in mezzo a quel calore veramente insopportabile in cui pareva essersi improvvisamente immersa la stanza.
Sentiva il battito del polso e il sussurro di quelle voci fantastiche… Lasciò la maniglia per togliersi con le mani il mantello bianco che aveva indossato quella mattina.
Ora si sentiva più comoda e respirava meglio. Tastò di nuovo e ritrovò la maniglia; ma, per il sudore che le colava dalle dita, non riuscì a farla girare subito. Poi, a un tratto, cedette.
Al primo istante, il soave e languido profumo la invase come di colpo: lei sapeva infatti che quello era il profumo della morte. Poi la volontà che l’aveva condotta fino a quel passo la confermò nel suo proposito. Così, abbandonate le mani sul grembo, cominciò a respirare con calma e profondamente.
Nel girare la maniglia aveva chiuso gli occhi; ora però li riaprì, curiosa di osservare che aspetto aveva il mondo nel suo disparire: già sin dai primi giorni si era proposta di non perdere alcun particolare di quell’unica ed estrema esperienza.
Dapprima le sembrò che nulla cambiasse: le stavano sempre davanti la cima frondosa dell’olmo e il tetto di piombo; più su, in alto, quel terribile cielo. Vide solo un colombo bianco librarsi a volo nell’aria scura e scomparire all’istante.
Poi seguirono delle cose simili a queste: Mabel provò una sensazione di leggerezza estatica in tutte le membra. Volle alzare una mano, ma si accorse che non poteva: quella mano non era più sua. Tentò di abbassare lo sguardo su quella cupa striscia di cielo, ma sentì che era ugualmente impossibile. Capì allora che la volontà aveva perso ogni comunicazione con le sue membra e che il mondo corruttibile era ormai a una distanza infinita da lei: questo, a dire il vero, se l’era aspettato, ma la rendeva perplessa il fatto che l’attività dello spirito fosse sempre viva e continua. E, sebbene il mondo da lei conosciuto si fosse oramai sottratto al dominio della sua coscienza, come il suo corpo (fatta, eccezione per l’udito, che non perdeva la solita acutezza), lei manteneva ancora sufficiente memoria per ricordare, almeno, che un mondo esisteva, che esistevano altre persone, che gli uomini andavano per i loro affari non sapendo niente di ciò che stava accadendo, in quel momento, in quella stanza; ma i volti, i nomi, i luoghi erano ugualmente spariti. In realtà, lei stava sperimentando una coscienza di sé differente da quella precedente; le sembrava di essere infine penetrata proprio nei recessi della sua natura, che non aveva potuto mai scorgere in vita se non come attraverso un vetro opaco.
Tutto questo era per lei, allo stesso tempo, nuovo e familiare: sentiva di trovarsi ora in un centro, la cui circonferenza lei aveva percorso nell’intero arco della sua vita; non era però un semplice punto, ma uno spazio distinto, riparato e rinchiuso. In questo istante si accorse che anche l’udito cominciava a mancarle. Poi le accadde un fenomeno singolare, eppure le pareva di aver sempre saputo che questo avrebbe dovuto accaderle, sebbene non lo avesse mai né pensato né detto. E il fenomeno fu questo: i ripari di quello spazio centrale cadevano con un suono simile a qualche cosa che va in frantumi, mentre sorgeva poi un altro spazio, vivente, attivo e indefinito. Vivente come un corpo che respira e si muove; evidente e incomprensibile, uno e molteplice, immateriale e reale… reale di una realtà che non aveva mai concepito né intuito. Eppure anche questo le era familiare, come uno spazio visitato spesso nei sogni. Alla fine, come un baleno, qualche cosa che era insieme luce e suono, e che lei conobbe immediatamente essere unico, trasvolò quello spazio…
Allora Mabel vide, e comprese.
citazione a cura di Luca Fumagalli
(Brano tratti da: R. H. BENSON, Il Padrone del mondo, Verona, Fede & Cultura, 2014)