«Essere sani di mente è svantaggioso e inconveniente se vivi in un mondo di pazzi». Le parole di Anthony Burgess, scrittore cattolico noto al grande pubblico per il romanzo Arancia meccanica, ben esemplificano la parabola umana e spirituale di Thomas More (nome poco elegantemente italianizzato in Tommaso Moro). In esse l’ironia convive con la radicale convinzione dell’esistenza di un male che opera per sfigurare la realtà, intaccandone i gangli vitali. Il martirio del celebre umanista e politico inglese è forse tra gli esempi più eloquenti di come un innocente possa essere condannato ingiustamente a morte solo per la malizia di un sovrano, più gonfio nello spirito che nelle carni.
More fu infatti tra i pochi, e certamente il più illustre, a opporsi ai progetti assolutistici di Enrico VIII, lo stesso che, nutrendo grande stima nei suoi confronti, lo aveva nominato cancelliere del regno. Il giovane Tudor aveva trovato in lui un suddito fedele e un consigliere capace, almeno fino a quando si era rifiutato di avallare il divorzio con Caterina d’Aragona. Avvocato ed esperto giurista, More preferì la lealtà nei confronti delle leggi degli uomini e di quelle di Dio piuttosto che compiacere il sovrano con la menzogna. Nel 1535 fu quindi condotto al patibolo: perse la testa ma almeno guadagnò la santità.
Nel 1516, quando per More il futuro si prospettava sereno, aveva pubblicato Utopia, un libro destinato a essere non solo un capolavoro immortale, ma anche a costituire un vero e proprio paradigma letterario, filosofico e politico. Un’opera scritta in latino e dalle molteplici sfaccettature che nell’intenzione dell’autore si proponeva di ridestare la coscienza umana e il desiderio di cose buone, belle e grandi.
La vicenda, dai contorni piuttosto semplici, è incentrata sul personaggio di Itlodeo, un marinaio al seguito di Vespucci che, nel corso di uno dei suoi viaggi, sostiene di essersi imbattuto nell’isola di Utopia, una terra di “latte e miele” in cui società, politica ed economia sono perfettamente regolate dalle sagge leggi vergate da Utopo, il mitico fondatore. A Utopia non esiste la disoccupazione né la sovrappopolazione, il piano regolatore è un capolavoro di perizia tecnica e chi detiene il potere opera esclusivamente per il bene comune. L’isola è la patria della libertà basata sullo spirito di solidarietà e su una ricerca della felicità strettamente legata alla dimensione religiosa.
La parola utopia (dal greco “non luogo”) da allora è entrata nel lessico comune a indicare un paese felice inesistente oppure un progetto impossibile da realizzare. Eppure More non aveva concepito il libro come la provocazione di un intellettuale annoiato; in esso, al contrario, aveva voluto esporre alcuni dei temi che più gli stavano a cuore, in primis il pericolo della subordinazione del potere spirituale da parte di quello temporale. Si tratta, in altre parole, non di un modello da confinare nella fantasia, quanto di un progetto pensato per essere applicato. Del resto Utopia coglie nel segno anche quando analizza e anticipa questioni che ancora oggi sono di stretta attualità come il problema della pace piuttosto che quello dell’immigrazione incontrollata.
L’armonia fra il naturale e il soprannaturale costituisce forse l’elemento che più di ogni altro definisce la personalità di More e degli abitanti di Utopia: egli visse la sua intensa vita pubblica con umiltà semplice, contrassegnata dal proverbiale buon umore, anche nell’imminenza della morte; allo stesso modo i cittadini dell’isola immaginaria hanno come orizzonte ideale la virtù, concepita come bene in azione e unico mezzo possibile per una duratura stabilità sociale.
A cinque secoli dalla pubblicazione di Utopia, Paolo Gulisano con il suo recentissimo saggio Un uomo per tutte le utopie, Tommaso Moro e la sua eredità ripercorre con passione i passaggi salienti dell’esistenza di More, concentrando l’attenzione in particolare sul capolavoro del grande umanista inglese, sui suoi illustri predecessori e, soprattutto, sui tanti che ne hanno seguito le orme, da Campanella e Bacone fino ad arrivare in tempi recenti a R. H. Benson, Orwell e C. S. Lewis.
Sprague de Camp, scrittore di letteratura fantastica, sosteneva che quasi tutti portano dentro la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che certamente, chissà dove, chissà quando, possa esistere una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia, dove gli uomini, da quelle povere creature che sono, potranno essere felici.
Ritornare a Utopia è dunque un po’ come immergersi nella speranza di un riscatto, di una redenzione possibile oltre le tenebre che le contingenze sembrano suggerire come invalicabile destino; è, come scriveva Tolkien in una poesia, non chinare il capo al dominio di ferro interrando il piccolo scettro d’oro dell’umanità.
L’attualità di More e della sua invenzione letteraria risiede nel monito a fuggire ogni tentazione mondana, a orientare la propria vita in preparazione di una vittoria più vera. Parafrasando ancora una volta Burgess, se Utopia «rientra nel salutare novero dei moniti letterari contro l’indifferenza, la sensibilità morbosa e l’eccessiva fiducia nello Stato, quest’opera avrà avuto un qualche valore».
Luca Fumagalli
Il libro: Paolo Gulisano, Un uomo per tutte le utopie, Tommaso Moro e la sua eredità, Milano, ancora, 2016, 165 pagine, Euro 15