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di Massimo Micaletti

 

Ma alla fine, a noi del Paradiso che ce ne importa? Alzi la mano chi ne ha una seppur minima effettiva concreta considerazione. Magari, ce ne ricordiamo per qualche caro che ci ha preceduti alla porta stretta della morte, al quale auguriamo di stare “in Cielo con Gesù e gli Angeli”; qualcuno s’accontenta pure degli Angeli solamente, ché quelli esistono di sicuro, mentre Gesù non è mica certo che fine abbia fatto.

Ce ne importa o no? E come ci vogliamo arrivare? Dico, in che modo?

Me lo chiedo quando ascolto o leggo le parole di fedeli e prelati che hanno una visione esclusivamente orizzontale della Carità, solo come sostegno tra persone, anzi come dono di chi è ricco a chi è povero. Il cristiano (manco più “cattolico” si usa dire) è quello che fa la carità: chi fa la carità è un buon cristiano e va in Paradiso. Che so, potrebbe anche diventare Presidente della Caritas internazionale, oppure presidente di un’associazione pro aborto “per la salute delle donne”, o tutt’e due. Così la Carità è l’aiuto ai bisognosi, ai poveri, agli immigrati, è la lotta alla mafia e via dicendo. Buone cose, per Carità (appunto), ma siamo certi che sia solo quello? Cioè, mi domando: è necessario essere cattolici per dare da mangiare a chi non ne ha?

Tutto sommato no. Le cronache dell’Antica Roma, ad esempio, sono ricche di episodi sulle elargizioni di paganissimi imperatori e patrizi ai poveri, per finalità di propaganda o anche per sincero spirito di liberalità, fino alle liberazioni di centinaia di schiavi in un colpo solo. Quindi la Carità è roba ben diversa dall’elemosina. La Carità è roba ben diversa dal fare la carità.

Allora, che è la Carità? Sì sì, c’è la Lettera di San Paolo ai Corinzi, 13,1, ce l’ho presente. E’ stata una delle letture al nostro matrimonio, come faccio a dimenticarmela? Ma mica basta.

Mi viene in mente un episodio di una trentina d’anni fa che mi colpì moltissimo. Eravamo con la mia famiglia a Pisa, in Piazza dei Miracoli, seduti a riposare dopo che stanchezza del viaggio c’era caduta addosso. In quel momento, vidi un barbone che frugava in un cestino dei rifiuti: non avevo ancora mai visto nulla di simile, nella mia cittadina non ce n’erano. Bene, in quella una ragazza si alza da una panchina accanto alla nostra e gli porge un panino, ancora avvolto nella pellicola trasparente: il barbone gli mormora contro qualcosa con una faccia feroce, glielo scaglia letteralmente addosso e se ne va imprecando.

Forse la Carità è riconoscere nell’altro l’immagine e la somiglianza di Dio, e del suo Figlio sofferente, ma non si scinde dalla Fede e dalla Speranza, è con esse una cosa sola. Se si ha presente questo, ci si accorge allora che i primi bisognosi non sono i poveri, ma il peccatore e chi soffre a causa del peccato proprio e altrui. Ma se è così, s’apre un mondo: il divorziato, il figlio di separati, il collega che pensa solo alla carriera, quello che bestemmia ogni due per tre, quello fissato col porno (verbale e non), quello che senza Dio si sta pure meglio e il Vaticano non ne parliamo, la madre decisa ad abortire, la coppia che fa la FIVET, il gay, quello e quella che convivono da anni e il matrimonio non serve ma in Chiesa ci vanno lo stesso etc. Con una differenza, rispetto all’elemosina: raramente chi riceve un’elemosina te la lancia in faccia, mentre le categorie di cui sopra, della tua bella Carità, nella buona parte dei casi non sanno che farsene. Ecco, appunto, “non sanno che farsene”, ché se lo sapessero se la terrebbero ben stretta. Ma non lo sanno, e te la scagliano in faccia come quel barbone col panino della povera samaritana di trenta anni fa in Piazza dei Miracoli.

E se fosse questa la differenza, tra la Carità e l’elemosina?

In fin dei conti è più facile dar da mangiare a chi ha fame: basta avere i soldi, o trovarli. Non è facile, ma manco così difficile. Se ne trovano a palate anche per sfamare i cani e i gatti, di soldi, lo sapete no? Ed è pure gratificante. La pancia t’avverte se hai fame, se hai fame lo sai e lo senti. A chi ha fame di Cristo e non lo sa, che gli possiamo dare? Che gli possiamo dire?

Non sarebbe poi meglio farci i fatti nostri? Chi ci insegna, del resto, ad avere a che fare con questi che si bastano e che se avvertono un che d’amaro in fondo ai loro giorni la colpa è sempre e solo del mondo che non è abbastanza dolce? E chi ce lo impone? Non siamo tutti dei Sant’Agostino, non tutti abbiamo la mamma che ha avuto Sant’Agostino. E poi abbiamo già abbastanza grane con le nostre miserie, figuriamoci se possiamo pensare a quelle degli altri. Con quelli, quelli che ho detto prima, ossia col gay, col divorziato, col pagano e con l’ateo, con quella che vuole abortire e quelli che vogliono la FIVET, con quelli che parlano solo di femmine (e mai di donne) e via dicendo, è sufficiente essere accoglienti e tolleranti. Vanno compresi, quelli. Accettati. Accolti. Amati. Ma facendoci i fatti i nostri. Magari, preghiamo per loro, se non gli dà fastidio. Se non glielo facciamo sapere è pure meglio. Al limite, ma proprio al limite, diciamogli che sono pure loro nella Chiesa, come qualcuno va dicendo, e poi se la vedranno loro, e magari ci ringrazieranno pure, di averli inclusi in un club nel quale non hanno mai chiesto di entrare.

E il Paradiso? Non sia mai che ci giochiamo il Paradiso: l’elemosina l’abbiamo fatta, a Natale o no, l’abbiamo comprato l’accendino dal senegalese, quindi San Pietro è già là sopra che c’aspetta per presentarci al Padreterno. Qualcuno c’ha detto che basta questo. Vedi, poi dicono che non c’importa del Paradiso: pensare che era così facile, e io che mi stavo seriamente preoccupando.