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di Luca Fumagalli

Dorian Gray, per la regia di Oliver Parker, è un raffinato adattamento cinematografico del grande classico di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (1891), uscito nelle sale nel 2008.

Nella Londra vittoriana arriva il timido Dorian Gray (Ben Barnes), un giovane di straordinaria bellezza che ha appena ereditato una grande fortuna. Presto conosce Basil Hallward (Ben Chaplin), pittore omosessuale che si invaghisce di lui, e Lord Wotton (Colin Firth), uomo carismatico ma incallito fedifrago che lo inizia ai piaceri della mondanità. Quando Basil termina il ritratto di Dorian a cui stava lavorando da diverso tempo, il ragazzo pronuncia il desiderio di restare giovane per sempre. Inizia così per lui un tour de force tra bordelli e teatri, libertinaggio e tradimenti, senza che il suo volto patisca il segno del vizio. A sfigurarsi e a insozzarsi è la sua anima, il ritratto che un disgustato Dorian ripone in soffitta, chiuso a chiave, lontano dallo sguardo indiscreto dei gentiluomini e delle nobildonne che affollano la sua esistenza e i suoi salotti. Gli anni passano, gli amici invecchiano, mentre lui rimane sempre quello di sempre, fresco e bello grazie al patto diabolico. Nella sua vita, però, inizia a farsi largo un senso di noia e insoddisfazione che si accompagna al crescente sospetto degli amici. Solo l’amore per la dolce Emily (Rebecca Hall), figlia di Lord Wotton, pare in grado sottrarlo al baratro della disperazione.

Oliver Parker, che già sul grande schermo aveva portato due perle del teatro wildiano come Un marito ideale (1999) e L’importanza di chiamarsi Ernest (2002), confeziona questa volta una pellicola più gotica, sostanzialmente fedele al romanzo, che conduce lo spettatore in una dimensione cupa in cui il vizio ha il suo correlativo oggettivo negli squallidi bassifondi londinesi. Il mito di Faust rivive nel mondo vittoriano attraverso lo sguardo colto e profondo di Wilde, che non lesina inchiostro per addentrarsi nella psicologia del suo protagonista. Parker decide di puntare su una regia illustrativa, che si accontenta di riproporre Il ritratto di Dorian Gray – sfrondato solo di qualche dettaglio ancillare – senza tentare di scavare alla ricerca di ulteriori interpretazioni. Una posizione forse troppo prudente, ma che quantomeno non rovina una storia che poteva facilmente prestare il fianco alle folli e improbabili rivisitazioni a cui la cinematografia sta purtroppo sottoponendo diversi classici della letteratura inglese (Orgoglio e pregiudizio zombie è solo il caso limite di una lunga schiera).

Dorian Gray, nel complesso, è un prodotto riuscito, capace di cogliere i turbamenti del giovane protagonista, costantemente tentato dagli inviti peccaminosi di Lord Wotton. A nulla valgono gli appelli di Basil all’onestà, Dorian viene presto risucchiato nella spirale del vizio che non solo lo consuma, ma che rovina inevitabilmente le vite di coloro che gli stanno vicino, fino all’epilogo del sangue. L’abiezione in cui si trova a sguazzare, è uno stagno d’iniquità così profondo che persino lo spregiudicato Wotton alla lunga ne è disgustato.

Parabola del male che sfigura l’anima, delle catene del peccato che lacerano le carni e il cuore, il film è un apologo morale, un invito a considerare la vita come un dono, una possibilità preziosa che non è bene sprecare.