Raffaele-Cantone

di Danilo Quinto 

Il fenomeno Radio Radicale – perché di fenomeno si tratta, perché mai si era visto uno strumento d’informazione di un partito e della sua ideologia che, oltre ai contributi statali per l’editoria, riceve ogni anno 10 milioni di euro pubblici, senza che nessuno fiati – ne ha combinate un’altra delle sue.

Nel mezzo di agosto, ha intervistato il presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, sulla proposta di legalizzazione della cannabis che tornerà in discussione a settembre alla Camera, sostenuta da 221 parlamentari e presentata da uno dei tanti tessitori della rete parlamentare di stretta osservanza radicale, Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri. «Credo – ha detto Cantone – che una legalizzazione intelligente possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità. L’altro aspetto è che droghe leggere controllate probabilmente evitano interventi chimici che stanno portando anche alla tendenza all’assuefazione o al vizio. Questi due argomenti oggi mi fanno essere su questa proposta di legge molto più laico e per molti aspetti favorevole».

Già il fatto che il presidente dell’Autorità Anticorruzione, trovi il tempo, in quest’Italia corrotta e corruttrice, di rilasciare interviste, lascia un po’ sbalorditi. Ancor di più aumenta lo sconcerto se si considera l’autorevolezza del magistrato, che dovrebbe conoscere il retroterra culturale che costituisce la base su cui si fonda la proposta di legalizzazione della cannabis: chiave di grimaldello per ottenere l’antiproibizionismo su tutte le droghe. Una battaglia degli anni ’70, che è stata assimilata e fatta propria dall’establishment culturale e politico internazionale. La finalità – che viene espressa, peraltro, senza alcun pudore – è anche economica: rimpinguare le casse degli Stati, che venderebbero la droga al posto delle organizzazioni criminali, usufruendo così di un business di miliardi di dollari e rimpinguando il loro PIL. C’è persino chi, da questo punto di vista, esalta le scelte di alcuni Stati americani – come il Colorado – che attraverso gli introiti derivanti dalla cannabis, stanno investendo in opere sociali.

Come se le opere sociali possano essere effettuate sulla pelle dei cittadini. Un altro magistrato, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, sottolinea quest’aspetto: «Uno Stato democratico – dice – non può permettersi il lusso di legalizzare ciò che provoca danni alla salute dei cittadini” e aggiunge che “il guadagno che si sottrarrebbe alle mafie è quasi ridicolo rispetto a quanto la criminalità  trae dal traffico di cocaina e eroina, anche se spesso la marijuana è il primo passaggio per arrivare poi all’assunzione di droghe pesanti».

A fare da chiosa a questo dibattito – che con ogni probabilità porterà il Parlamento italiano, tra breve, a legalizzare le cosiddette droghe leggere – le parole di un altro magistrato, che nella sua vita fu sempre al servizio della verità: «Forse non si riflette che la legalizzazione del consumo di droga – disse Paolo Borsellino nel lontano 1989 – non elimina affatto il mercato clandestino, anzi avviene che le categorie più deboli e meno protette saranno le prime ad essere investite dal mercato clandestino. Resterebbe una residua fetta di mercato clandestino che diventerebbe estremamente più pericoloso, perché diretto a coloro che per ragioni di età non possono entrare nel mercato ufficiale, quindi alle categorie più deboli e più da proteggere. E verrebbe ad alimentare inoltre le droghe più micidiali, cioè quelle che non potrebbero essere vendute in farmacia non fosse altro perché i farmacisti a buon diritto si rifiuterebbero di vendere. Conseguentemente mi sembra che sia da dilettanti di criminologia pensare che liberalizzando il traffico di droga sparirebbe del tutto il traffico clandestino e si leverebbero queste unghie all’artiglio della mafia».