Di Isacco Tacconi
Devo confessare la mia obiettiva difficoltà nel scrivere della donna in generale e, nel presente caso, delle figure femminili tolkieniane per una doppia ragione: 1) la creatura «donna» è a mio avviso un vero e proprio mistero non ancora pienamente compreso, il cui ruolo teologico nella storia del mondo e della Chiesa è tanto complesso quanto cruciale; 2) I personaggi tolkieniani aggiungono a questa complessità che definirei «ginelogica», degli strati e delle sfumature numerose almeno quanto raffinate. Perciò «il compito all’uopo si fa arduo al quasi ellenico tropo, e per non andar fuor di semente conservando sani spirto e mente, vo cercando lumi e grazie da Colei che sola riceve e da’ in copia all’humane razze». Non a caso i poeti di tutti i tempi hanno richiesto il soccorso di una «Musa» (da cui «musica»), specialmente per cantare le virtù e le grazie di una creatura quale la donna che, se intenta e raccolta nella pietà e la carità, può diventare segnale prediletto delle cose celesti.
Ecco dunque ciò di cui credo aver bisogno: un soccorso che aristotelicamente si muove come causa seconda in una catena gerarchica, discendendo dal Cielo dantesco fino alla selva di lance del Pelennor. Eppure si potrebbe obiettare che la presente impresa di commento alla figura di Éowyn non sembra dover scomodare il Cielo, tuttavia a questo punto interrogherei il mio contestatore in questo modo: “cosa più importa agli occhi di Dio: una piccola azione fatta per amor suo, o una grande impresa, per quanto buona e onorevole, per amor proprio?”. Teresina di Lisieux, la santa della «piccola via», ci ha lasciato una preziosa eredità, a noi che possiamo ambire ad una santità da «piccoli» compiendo bene ogni gesto, insegnandoci a raccogliere uno spillo da terra per amore dell’Amore, come se avessimo raccolto una moneta spendibile in Paradiso. E anche noi in quel caso potremmo dire con verità: “la sua grazia in me non è stata vana”[1], giacché se il Buon Dio per un piccolo gesto offertogli in purezza d’intenzioni aumenterà nell’anima il grado di gloria, versando in lei come in una coppa una più larga misura di grazia santificante, tanto più non disdegnerà di soccorrere la povera mente di colui che cerca buone parole per cantare le sue bellezze: «Credo vidére bona Domini in terra vivéntium». E credo che in fondo sia proprio questa la chiave di lettura del personaggio di Éowyn: l’eroismo della devozione nascosta.
Oggi, in questa nostra storia, non ci sono orchi da uccidere anche se il nemico che ci para il cammino è ancor più temibile e oscuro. Il viaggio del tutto inaspettato che richiama la nostra attenzione, si volge piuttosto alla ricerca di una risposta intorno all’identità profonda di Dama Éowyn. La breve descrizione che di questa figura Tolkien fornisce al lettore è sufficientemente eloquente per permetterci di immaginarne la grazia, la nobiltà e la casta bellezza.
Quando i “tre cacciatori” giungono ad Edoras guidati da Gandalf redivivo, divenuto il «Bianco», candido come la neve dopo essere passato attraverso la porta della morte, trovano un regno diviso e allo sbando, un re, Théoden figlio di Thengel, incatenato da un velenoso consigliere, e il cui popolo disperso e spaventato ne attende il risveglio. A fianco del vecchio re, un poco ritirata, si erge alta e silenziosa Éowyn, nipote del re e cugina dell’erede al trono ormai defunto. La giovane principessa, racconta Tolkien: “si voltò per guardarsi indietro. Nel suo sguardo grave e pensoso, posato sul re, si scorgeva una tenera pietà. Splendido il suo volto, ed i lunghi capelli pari a un fiume d’oro. Era bianca ed esile nella bianca veste cinta d’argento; ma pareva forte e severa come acciaio, una figlia di re. Così Aragorn mirò per la prima volta alla luce del giorno Éowyn, Dama di Rohan, e la trovò bella, bella e fredda, come una mattina di pallida primavera, e non ancora maturata in donna”[2].
Fra tutti i personaggi femminili che incontriamo nel Signore degli Anelli, Éowyn appare l’unica vera donna, umana, reale. Mentre Arwen e Galadriel, proprio per il loro essere elfi, sono in qualche modo sottratte alla concretezza dell’umanità, avvolte come sono da un’aura sacrale, Éowyn al contrario porta su di sé il dramma della condizione mortale segnata da delusioni, amarezze e responsabilità non volute, ma virilmente accolte e affrontate con eroica fortezza. Lo stesso racconto del suo amore non corrisposto per Aragorn contribuisce a mostrarci una giovane donna segnata dalla sofferenza e dall’abbandono. Orfana e accolta in casa dello zio, costretta dagli eventi a dover assistere impotente il suo re, sedotto dai diabolici consigli di un traditore, Éowyn porta in sé come in una sintesi tutti quei valori dell’antica cultura anglosassone caratterizzata dall’onore e dalla fedeltà al re e alla terra, uniti alla virtù cristiana, in particolare della pietas e della fortitudo. Figlia di re eppure solitaria nel Palazzo d’oro di Meduseld, può soltanto sopportare e pregare dinanzi all’indebolimento del suo regno e alle sofferenze del suo popolo. Allo sbocciare del primo amore sperimenta l’umiliazione del rifiuto, e all’incombere della guerra si vede lasciata indietro e quasi abbandonata. Ma non è il suo il dolore della frustrazione di quelle donne che si sentono come “imprigionate” fra le mura domestiche, inseguendo utopie eversive di avventure ed emozioni libertarie. Una prospettiva che un reazionario e antimoderno come John Ronald Reuel Tolkien mai e poi mai avrebbe attribuito a uno dei suoi personaggi, se non per evidenziarne la innaturale bruttura. Non dimentichiamoci che il Nostro fu testimone di quello sciagurato movimento rivoluzionario di emancipazione femminista (ben attenti, non “femminile”) del Women’s Suffrage Federation, le cui appartenenti, in larga parte provenienti dalla borghesia altolocata e vittorianamente ipocrita della società inglese di fine 800, furono ironicamente ribattezzate “suffragette”. Tale movimento, anche se in origine proveniente da oltremanica, si diffuse proprio dall’Inghilterra prendendo le dimensioni di una corrente internazionale, prodromo di quei movimenti mondialisti di contestazione che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo XX°.
Tolkien era un semplice filologo medievista che amava i racconti e le fiabe, e odiava la letteratura a lui contemporanea. Estraneo alla febbre del “progresso” della modernità caratterizzata dal positivismo e dal naturalismo, egli era un Cattolico romano fiero e sincero in un’Inghilterra ancora duramente anticattolica e antipapista. Allevato alla lotta per la sopravvivenza in una società sostanzialmente agnostica, ma verniciata di una religiosità vagamente puritana figlia di quello stesso anglicanesimo liberale da cui prese le distanze John Henry Newman, e la cui inconsistenza e ipocrisia furono denunciate, nonché sagacemente irrise, da Gilbert Keith Chesterton.
Tutto questo ci fa comprendere come niente di più alieno al nostro professore di Oxford sia una visione della donna repressa e frustrata nelle sue mansioni di moglie e di madre cioè, per l’appunto, di «donna». Al contrario, il modello femminile che Tolkien tenne sempre ben in mente e a cui si ispirò, non fu la “ribelle”, la self-made woman femminista, quindi materialista e agnostica, di inizio novecento, bensì una donna reale e ben precisa che abbiamo già avuto modo di incontrare nelle precedenti pagine di questa Rubrica: sua madre, la virtuosa Mabel Suffield.
«Quando penso alla morte di mia madre – scriveva Tolkien nel 1965 al figlio Michael – stremata dalle persecuzioni, dalla povertà e dalle conseguenti malattie, nello sforzo di trasmettere a noi ragazzi la fede, e quando ricordo la minuscola camera da letto che dividevamo, affittata nella casa di un postino di Rednal, dove lei morì tutta sola, troppo malata per ricevere l’estrema unzione, trovo molto duro e amaro il fatto che i miei figli si allontanino dalla Chiesa. Naturalmente Canaan sembra diversa a quelli che l’hanno raggiunta provenendo dal deserto; e gli ultimi abitanti di Gerusalemme possono sembrare spesso degli sciocchi o delle canaglie, o peggio. Ma “in hac urbe lux solemnis” mi è sempre sembrato vero». Questo è “l’ideale-reale” di donna che Tolkien custodì gelosamente nel suo cuore e che riaffiora come un luminoso ricordo (e un monito esemplare) nelle pagine dei suoi scritti: una donna come Dio comanda. Talmente forte fu infatti l’impronta che l’esempio di virtù eroica della madre impresse nel figlio John, che egli non se ne distaccò mai, neppure per seguire l’amore della sua vita, la giovane anglicana Edith Bratt. Tant’è vero che per Tolkien la conversione di questa al cattolicesimo era conditio sine qua non per il loro matrimonio. Alla fine la Grazia ebbe la meglio sulla natura. La pazienza e, soprattutto, la dolce fermezza di John riuscirono a vincere le resistenze della fidanzata che si fece battezzare l’8 gennaio 1914. Dopo anni di travagli e di privazioni, in parte causate anche dalla guerra, John ed Edith si sposarono il 22 marzo 1916 poco prima che lui partisse per combattere in Francia[3].
Questo breve inciso biografico che ci aiuta a comprendere quella che, se vogliamo, potremmo chiamare “la visione della donna in Tolkien”, dovrebbe convincerci anche, almeno spero, che Dama Éowyn non ha nulla a che fare con delle figure quali Olympe de Gouges, teorica del femminismo (ghigliottinata dal suo amico Robespierre), o con Lady Nancy Astor, prima donna eletta al parlamento del Regno Unito.
Ad ogni modo, lasciando da parte ogni altra possibile distrazione, riprendiamo decisamente il filo del nostro discorso che si scioglie come un canto sulle praterie dell’alto piano di Rohan, fra i nitriti dei cavalli e il clangore dei corni lontani.
Dopo aver ricevuto il comando da re Théoden di restare ad Edoras, il giovane Merry triste ed abbattuto per non poter partecipare alla guerra al pari dei suoi amici, si imbatte in un misterioso giovane guerriero di Rohan chiamato “Dernhelm”. Costui “si avvicinò inosservato e mormorò qualcosa a bassa voce nell’orecchio dell’Hobbit. «Dove vi è la volontà, nulla è impossibile, si dice da noi»”[4]. Un saggio consiglio questo che definirei propriamente “da uomini”, poiché le due facoltà che distinguono e separano come un abisso l’uomo dal resto dei bruti sono proprio l’intelletto, con la sua capacità di conoscere e ricevere la verità, e la libera volontà, con il suo innato desiderio di possedere il bene. Ora entrambe queste facoltà dell’anima hanno bisogno di essere purificate e rettificate cioè «raddrizzate», e la volontà in particolare necessita di essere volta, o meglio ordinata, verso quello che Aristotele, e con lui San Tommaso, chiamava il «bene onesto» cioè il bene morale oggettivo, voluto per se stesso e non per un altro motivo, distinguendosi perciò dal «bene utile» desiderato in quanto mezzo per un fine ulteriore, e dal meno pregevole «bene dilettevole» desiderato per il piacere che potremmo trarne ottenendolo.
Ad ogni modo, questo atto di volontà deciso e generoso sarà l’inizio della conversione di un’anima che, per poter tornare ad apprezzare il valore della sua vita, dovrà discendere fin quasi sulla soglia della morte. “«Allora verrai con me»”, disse il Cavaliere. «Ti porterò sul mio cavallo, nascosto sotto il mio manto finché saremo lontani e questa oscurità sarà più cupa. Tanta buona volontà non deve essere scoraggiata. Non dire più nulla a nessuno, e vieni»”[5].
Soltanto sui campi del Pelennor lo stesso Merry, insieme al lettore stupito, scoprirà che quel guerriero silenzioso ed esile è in realtà Éowyn, principessa di Rohan. In effetti nel libro ella manifesta con energia il suo desiderio a tratti implacabile di compiere gesta gloriose combattendo e morendo in battaglia. L’onore e la gloria sembrano quasi ossessionarla, tanto da gettarla nello sconforto quando si vede costretta nelle Case di Guarigione di Minas Tirith a sottoporsi alle cure necessarie che le impediscono di tornare in battaglia. Ma quel suo slancio impetuoso e impaziente deriva, come dirà Gandalf, da un malanimo interiore provocatole dai velenosi discorsi di Grima Vermilinguo, che istillarono nel suo cuore, oltre la tristezza, l’insofferenza e l’insoddisfazione per il suo essere donna, per di più ridotta a servire un debole e stolto re. “Ella nel suo corpo di fanciulla – dirà Gandalf ad Éomer – possedeva uno spirito e un coraggio senza dubbio uguali al tuo ardimento. E tuttavia era destinata a servire un vegliardo, che amava come un padre, ed a vederlo crollare in una stoltezza meschina e disonorevole; il suo ruolo le sembrava più ignobile di quello del bastone su cui il re si appoggiava”[6].
Pertanto, scopo del suo rivaleggiare con gli uomini non è l’assurda pretesa di veder riconosciuti i suoi diritti di donna. In altre parole non è una rivendicazione egualitaria inquadrata in una prospettiva di emancipazione del genere femminile che la spinge a fuggire dalle mura della casa adottiva, bensì una profonda e personale inquietudine interiore, causa del suo disperato desiderio di cavalcare verso una “oscurità ancora più cupa”. Questa giovane principessa sembra cercare addirittura la morte per porre fine al suo mal di vivere. Un tormento interiore che oscilla tra un’insofferenza tipicamente adolescenziale e quella soffocante malinconia che toglie la pace e il gusto delle cose semplici e ordinarie, suggerendo ombre ed immagini di felicità lontane da quelli che potremmo definire i propri “doveri di stato”. In realtà, ella va cercando sollievo alla sua profonda infelicità e insoddisfazione, che non troverà, com’è ovvio, sui campi di battaglia bensì nell’incontro di un uomo che le darà il suo cuore offrendole il suo amore puro, accogliendola per quello che è.
La sua lunga convalescenza nelle Case di Guarigione sarà la circostanza provvidenziale perché ella possa trovare finalmente quella pace interiore che né le gesta eroiche né alcuna avventura potrebbe elargire. Un po’ come accadde a Sant’Ignazio di Loyola dopo essere stato ferito ad una gamba nell’assedio di Pamplona. Costretto a letto per un lungo periodo e non avendo a disposizione i libri di cavalleria che egli tanto amava leggere, Ignazio si rassegnò a dover leggere la Vita di Cristo di Ludolfo il Certosino e la Leggenda aurea di Jacopo, o Giacomo, da Varazze. Sarà questo l’inizio di quell’innamoramento così intenso e sincero per Nostro Signore Gesù Cristo che lo condurrà, dopo una «veglia d’armi» a deporre la sua spada ai piedi della Madonna nel monastero benedettino di Montserrat.
Anche nel caso di Éowyn la malattia sarà l’occasione per meditare sulla propria esistenza sprofondandosi in quella notte oscura dell’anima che la traghetterà, dopo profonda purificazione interiore, alla luce dell’alba. Un’alba così chiaramente annunciata, come da un araldo celeste, da quelle semplici parole che Piccarda Donati, nel cielo della luna, rivolse a Dante: «E‘n la sua volontade è nostra pace». È questo il segreto di felicità che pone l’uomo dinanzi alla verità ultima del suo stesso esistere: essere per Dio e in Dio. Non importa quale sia l’onore (o il disonore) che ci viene tributato, né la posizione sociale che dobbiamo occupare, né l’umiltà delle mansioni che dobbiamo svolgere. L’unica cosa che conta è compiere «la sua volontade», che la Divina Provvidenza ci manifesta indubitabilmente attraverso l’età in cui ci troviamo, le qualità che possediamo, le infermità che dobbiamo sopportare, il sesso e il grado sociale che essa stessa ha disposto per noi.
Ma credo sia più utile per noi lasciar parlare direttamente il testo in cui Éowyn scioglie ogni velo di tristezza, liberata dal peso opprimente di un’ambizione disordinata. Sarà nella discreta, luminosa ordinarietà dell’amore sponsale che ella troverà quella felicità che credeva possibile solo nell’emozione di eroiche gesta e nelle glorie dei grandi palazzi. Quella che segue appare quasi il racconto di una conversione, manifestando l’addolcimento di una fanciulla che l’amore ha restituita a nuova vita:
“Non sarò più una fanciulla d’arme, né rivaleggerò con i grandi Cavalieri, né amerò soltanto i canti che narrano di uccisioni. Sarò una guaritrice, e amerò tutto ciò che cresce e non è arido». E di nuovo guardò Faramir. «Non desidero più essere una regina», disse.
Allora Faramir rise, felice. «Meno male», esclamò, «perché io non sono un re. Eppure sposerò la Bianca Dama di Rohan, se ella lo vorrà. E se ella lo vorrà, potremo attraversare il Fiume in giorni più felici e dimorare nello splendore d’Ithilien e coltivarvi un giardino. Ogni cosa vi crescerà con gioia, se coltivata dalla Bianca Dama».
«Devo dunque lasciare il mio popolo, uomo di Gondor?», ella disse. «E vorresti che la tua gente orgogliosa dica di te: “Ecco un signore che ha domato una selvaggia fanciulla del Nord! Non vi era dunque una donna della razza dei Numeroreani ch’egli potesse scegliere?”».
«Lo vorrei», disse Faramir. E la prese fra le braccia e la baciò sotto il cielo assolato, e non si curò di essere in piedi sulle mura, visibile a molti. E molti infatti li videro, e videro la luce che brillava intorno a loro mentre scendevano dalle mura e si recavano, mano nella mano, nella Case di Guarigione.
E al Custode delle Case Faramir disse: «Ecco Dama Éowyn di Rohan, ed ora è guarita»[7].
Il giovane Capitano, ultimo Sovrintendente di Gondor, venuto a sapere che l’erede al trono è giunto nella città di Minas Tirith, si rassegna serenamente a cedere il passo al Re che viene ad occupare il trono che la stirpe dei Sovrintendenti aveva il compito di custodire. In questo Faramir ed Éowyn sono accomunati: entrambi perdono ogni prospettiva di regalità e di gloria per dedicarsi ad una vita umile e semplice, scelgono cioè l’evangelico «ultimo posto» che racchiude il segreto della perfetta letizia.
Sembra proprio che dopo la sua guarigione, Éowyn, nel gaudio di sapersi affrancata da quello spirito maligno di malinconia, abbia cantato nella quiete delle sue lunghe veglie notturne: “Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze”[8].
Quando l’uomo cessa di contendere a Dio lo scettro (o l’anello) del potere, riconoscendo in lui la felicità che egli disperatamente cerca in questa Terra di Mezzo, solo allora egli può trovare quella pace e quel ristoro di cui un altro Re disse: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, così la divina ricompensa nell’anima mia”[9]. Ed in fin dei conti è proprio questo eroismo della devozione nascosta che Faramir ed Éowyn abbracciano congiuntamente che fa di loro delle figure tra le più straordinarie del Signore degli Anelli. Questa Principessa dei Rohirrim dimostra la nobiltà del suo lignaggio non tanto nella sua abilità sul campo di battaglia, quanto nella pietà e nell’amore devoto verso il suo re, in virtù del quale soltanto riesce ad abbattere il Re degli stregoni di Angmar. Tuttavia la bontà e la purezza del suo cuore dovevano essere liberate dal velo di oscura tristezza che aveva stretto il suo cuore in una morsa, e che nell’esperienza catartica che l’ha portata sin su l’abisso della morte hanno potuto rifiorire per restituirle la libertà.
In conclusione, la “redenzione” di Éowyn non poteva compiersi in maniera più discreta e graduale: una vera e propria conversione del cuore. Ed è esattamente la scelta di vivere nascosta fra le faccende della vita domestica, nella rinuncia ad ogni onore e gloria mondana, nell’amore puro e semplice per il suo sposo, nella quiete del servizio silenzioso e in quel prodigioso segreto che manifesta la gloria dell’umiltà, che fa di Éowyn una donna «come Dio comanda».
[1] 1Cor 15,10.
[2] Il Signore degli Anelli, cit. pp. 627-628.
[3] M. WHITE, Tolkien. A Biography, Little, Brown and Company 2001; ed. it. La vita di J.R.R. Tolkien, Bompiani, Milano, 2002, passim.
[4] Il Signore degli Anelli, p. 966.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, 1040.
[7] Ivi, p. 1152.
[8] Sal 130,1-2.
[9] Ibidem.
Bravo Isacco, ottimo articolo! 🙂
Bellissimo articolo, Isacco, stando in attesa di mio figlio in una sala d’ospedale, ho gustato completamente questo scritto. Grazie, grazie davvero
” Incontro perfetto fra due Amori “: questa la fiaba!
Quante di queste iniziate e poi finite? Perche’!
Èowyn: una donna ” come Dio comanda”; forse che Faramin e’ stato pure lui uomo ” come Dio comanda “? Credo proprio di Si!!
Molto bello l’articolo.Ogni tanto qualcosa di diverso ci predispone alla sensibilità dell’animo. Grazie di cuore.