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Riproduciamo per i nostri lettori il Capo IV del Libro I del volume del teologo e mistico tedesco M. J. Scheeben intitolato “LE MERAVIGLIE DELLA GRAZIA DIVINA”. Il testo è stato tradotto e pubblicato in Italia nel 1943 per i tipi della SEI. Sottolineature e grassettature nostre [RS]

1. Dopo di aver mostrato come la grazia sia infinitamente più elevata di tutte le cose naturali, possiamo aggiungere che essa è, in un certo senso, più importante per noi qui in terra e più significativa perfino della grazia celeste, del bene più grande che Dio possa darci nell’altra vita.
Non che la grazia sorpassi la beatitudine, ma per la ragione che è assai più importante che i nostri pensieri e i nostri sforzi abbiano per oggetto la grazia che la gloria futura.
Le bellezze del cielo in mezzo alle quali i Santi contemplano e godono Dio non sono altro che il pieno sviluppo della grazia che possediamo quaggiù (1). La grazia è la sorgente che zampilla
sino alla vita eterna, essa è la radice i cui fiori e frutti sono gli splendori celesti. Così la grazia ha questa particolare prerogativa che, cioè, la beatitudine dipende da essa, e sopra di essa è fondata.
«Poiché la paga del peccato è la morte e la grazia di Dio è la vita eterna», dice l’Apostolo (Rm 6, 23). Se dunque la grazia di Dio non sarà solo in futuro la vita eterna, ma lo è già; non solo condurrà ad essa, ma già la conterrà in se stessa.
Dove non è la grazia non può esservi bellezza, cioè non eterna beatitudine. Che giova all’uomo il dipingersi la vita eterna a colori smaglianti se poi tralascia di consolidare il suo possesso della grazia con la vigilanza e la mortificazione e non si cura di assicurarsi l’eterna beatitudine per mezzo delle buone opere? Chi possiede la grazia è sicuro della vita eterna, se persevera a rimanere in essa. E più sarà certo di conseguirla quanto più si studierà di crescere nella grazia. Tutto sta riposto nel possedimento, nella conservazione e nell’aumento della grazia; la beatitudine eterna ne è la necessaria conseguenza. Di questo però ne parleremo più innanzi in modo più particolare.
2. Consideriamo ora la grazia sotto un altro punto di vista. Essa è un bene così eccellente che partecipa la sua elevatezza soprannaturale anche a colui che la possiede. In altre parole, essa, non solo è di per se stessa elevata al disopra della natura, ma solleva colui che la possiede molto al disopra della propria natura.
Disse una volta Seneca (2): «Mettetemi in una casa ricca, dove l’oro e l’argento vi si trovino in sovrabbondanza. In me stesso, però, non mi stupirò di tutte queste cose, poiché, benché esse siano presso di me, sono però fuori di me!». Tali tesori esterni non toccano l’uomo in se stesso, e malgrado essi abbaglino gli occhi con la brillante loro apparenza, non rendono però l’uomo migliore, né riguardo alla sua salute, né alla statura del suo corpo, e molto meno ancora riguardo alle facoltà del suo intelletto.
Al contrario è prerogativa principale della grazia quella di sollevare al proprio livello colui in cui essa risiede. La grazia penetra l’anima stessa, cioè l’uomo interiore, il vero uomo, e si unisce
così intimamente a lui che gli comunica tutte le sue prerogative. La grazia, non solo intesse coi suoi tesori un abito d’oro tempestato di gemme per rivestirne l’anima, ma è una divina linfa vitale che penetra, nobilita e trasforma, come l’olivo selvatico innestato nell’olivo buono comunica all’intero albero ed ai suoi frutti qualità affatto diverse (Rm 11, 24).
Ed essendo la stessa grazia la più grandiosa opera di Dio, così essa fa dell’anima che di lei
partecipa la più preziosa, magnifica e sublime tra le opere di Dio. Perciò S. Cirillo Alessandrino ci dice: «La nostra natura, che finora era schiava, è stata veramente resa libera in Cristo ed elevata alla
mistica unione con Lui» (1).
3. Quale inaudito onore e quale liberalità è mai questa che l’uomo dalla sua nativa bassezza ed oscurità sia collocato, non solo come un altro Adamo al disopra di questo mondo visibile e degli
animali, ma sollevato sopra a tutti i cieli, dove non arriva neppure la nobiltà naturale del più eccelso tra gli Angeli! Poiché la dignità che noi raggiungiamo per mezzo della grazia non l’hanno nemmeno gli Angeli per natura, ma loro pure per grazia e liberalità di Dio, e senza di questa si troverebbero
così profondamente al di sotto di quanto dista la nostra natura dalla loro altezza ed eccellenza (2).
4. Chi potrebbe quindi deplorare abbastanza la nostra cecità quando noi cambiamo(volontariamente) quest’apice di grandezza con la più obbrobriosa schiavitù? Qui in terra ci scagliamo gli uni contro gli altri, pieni di livore e di gelosia, per salire uno scalino che a noi – ciechi che siamo – ci sembra un tantino più elevato degli altri, e se ci fosse dato la scelta dei nostri natali, noi per certo sceglieremmo quelli di più alto rango e non vorremmo stare al disotto di alcuna testa coronata. Quale malefizio viene dunque ad ottenebrare la nostra vita quando, essendoci offerto con insistenza un posto di grande onore in mezzo agli Angeli, un posto nella famiglia di Dio e un trono nel suo regno, appena ci lasciamo commuovere, e, anche se accettiamo la magnifica offerta, ne facciamo poi getto con incredibile leggerezza al prezzo il più vile ed irrisorio!
Deh, riconosci dunque, o uomo, il lustro che tu ricevi dalla grazia, e mantieni quell’alta posizione in cui essa ha collocata l’anima tua anche in questa vita. Che hai tu che fare con le
massime del mondo, tu che hai il mondo tanto al disotto di te, sotto ai tuoi piedi? Ed ora che per l’eccellenza e nobiltà della tua nuova posizione sei stato trasferito in cielo e là hai drizzato il tuo
trono, perché ti compiaci nella polvere della terra?
5. La sola ragione naturale aveva condotto gli antichi Savi pagani tanto oltre che essi riconoscevano come l’amore alle cose della terra non fosse che stoltezza per l’uomo che rimirava e pensava al cielo e alle stelle. «Se le formiche potessero avere l’intelligenza umana», diceva uno di essi (1), «esse ripartirebbero i loro piccoli campi in tante provincie come un re il suo regno. Ma tale saviezza da formiche è indegna dell’uomo poiché sopra di noi si estendono spazi infiniti dinanzi ai quali svanisce tutto ciò che è terreno». Un altro pagano (2) dice nella stessa guisa che l’ingegno dell’uomo sarebbe senza dubbio assai meschino se si elevasse appena al disopra del mondo, poiché se dalla terra alziamo lo sguardo al sole ed alla luna, la terra non ci appare più che come un piccolo disco, ed i più vasti regni, e più ancora le campagne e i seminati, non ci appaiono che piccoli punti quasi impercettibili.
6. E noi che per la grazia siamo stati innalzati fino al cielo, non solo con le parole e col pensiero, ma in tutta realtà, come dovremo condurci, noi cristiani, noi figli di Dio? Che dovremmo
pensare di noi stessi, della grazia e di tutte queste cose terrene? Tra la grazia e tutto ciò che è terreno passa la stessa distanza e la stessa differenza – ed anche molta più – che passa tra il sole e la terra. Noi seguiamo, come il popolo ignorante, lo splendore esterno ed appariscente, e crediamo noi pure che il sole, in confronto alla terra, non sia che un piccolo disco luminoso. Così facciamo in realtà, non sapendo comprendere, nella nostra stoltezza, l’eccellenza e l’elevatezza della grazia. Ma se noi in rapporto al sole ci rimettiamo docilmente ai computi sicuri degli astronomi, perché tralasciamo di riparare la nostra ignoranza a riguardo del valore della grazia facendoci meglio istruire dai principi così sicuri della Fede?
È veramente una vergogna che vi siano così pochi uomini che, ben compresi dell’alta posizione e dignità che hanno ricevuto per mezzo della grazia, disprezzino le prave tendenze e le
brame della loro corrotta natura e provino in sé gli stessi sentimenti di un povero contadino che, essendo all’improvviso divenuto re, arrossisce per vergogna al ricordo del suo primitivo ed umile
stato, in un coi suoi piaceri ed affari.
S. Isidoro di Alessandria piangeva sulla necessità di dover mangiare, per vedersi costretto a prendere cibo corporale come gli animali, mentre egli era destinato a sedersi coi beati al celeste banchetto in paradiso. S. Paolo teneva per non buono il parlare di cose attinenti alla carne e al sangue, e non stimava in sé altra cosa che non fosse la nuova creazione che il Signore aveva fondato nell’anima per mezzo della grazia. Perciò egli ci ammonisce a mettere le nostre compiacenze solo nelle cose celesti e non in quelle che sono della terra (1Cor 15, 50).
Quale pazzia ci trascina a dimenticare le delizie del cielo ed anche ad andare dietro ai bassi appetiti degli animali? Solo, solo là deve tendere la nostra vita ed i nostri sforzi, là, ove ci ha elevato
la grazia divina! E se vogliamo desiderare qualcosa sulla terra, sia questa la croce, e non gli onori e i piaceri, affinché, crocifissi nella natura e nel mondo, ci diportiamo già per necessità come cittadini di un mondo elevato e soprannaturale.