14249210_304891173219159_1434509698_n

di Luca Fumagalli

«Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente, a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato». La citazione, una delle più belle e note de Il piccolo principe, può essere impiegata anche per descrivere il cuore pulsante del messaggio cristiano che si cela dietro le pagine delle “Cronache di Narnia”. Chiunque si sia avventurato nel mondo fantastico descritto da C. S. Lewis non può infatti non aver avvertito un senso di pienezza, di soddisfazione, come solo pochi romanzi sanno donare.
Le mirabolanti imprese dei fratelli Pevensie, sorvegliati costantemente dallo sguardo paterno del leone Aslan, testimoniano nella prosa immediata della fiaba quanto di più vero possa esistere: la bellezza della vita, che rimane tale anche dopo cedimenti e tradimenti, delusioni e inganni. La certezza di un Dio benevolo che accompagna i propri figli verso un destino di felicità eterna è la solida roccia su cui ognuno dei protagonisti è chiamato a fondare il proprio essere: «Il racconto esiste non tanto per trasmettere un significato quanto per ridestare un significato» ricordava George MacDonald, lo scrittore scozzese tanto amato da Lewis.
Lo stesso invito travalica il testo per penetrare nel cuore del lettore, incapace di fuggire, attratto in un vortice empatico che lo spinge ogni volta a paragonarsi ai tanti personaggi che si avvicendano sotto i suoi occhi: è l’esaltazione degli umili, quel miracolo per cui persino i più piccoli – schiavi o topi poco importa – si scoprono in grado di compiere gesti straordinari e, soprattutto, di indicare anche ai più grandi ed esperti la strada da percorrere. In questo senso Peter, Edmund, Susan e Lucy sono segni, presenze rivelatrici di una realtà ancora più autentica che, per usare un’espressione platonica tanto cara a Lewis, si cela dietro l’ombra dell’esistenza terrena.
Per compiere grandi opere, però, come da tradizione cavalleresca, sono indispensabili due cose: una mappa, in grado di indicare la via, e una compagnia, un manipolo di fidati amici con cui condividere le gioie e i dolori di un destino da realizzare.
Il bellissimo saggio “Narnia. La teologia dell’armadio”, a cura del sacerdote salesiano Antonio Carriero, è mappa e al contempo compagnia. Il volume, agile e godibile, è una panoramica introduttiva al mondo fantastico partorito dalla penna dell’accademico irlandese, costruito come una galleria di sguardi in cui i vari interventi che raccoglie donano una profondità in grado di soddisfare anche il lettore più smaliziato. Gli articoli, firmati da noti studiosi italiani di fantasy del calibro di Edoardo Rialti, Carlo M. Bajetta, Mariarosa Bosco, Ives Coassolo, Erica Gazzoldi, Paolo Gulisano, Carlo Meneghetti, Chiara Nejrotti e Luisa Paglieri sono un trampolino di lancio per tuffarsi nei segreti dei romanzi e nella biografia del loro autore, rivelando come Narnia sia fondamentalmente qualcosa di non molto dissimile dal Vangelo. Del resto nelle numerose lettere di risposta a quelle dei giovani lettori che corrispondevano con lui, lo stesso Lewis non mancava mai di ribadire come le Cronache avessero per oggetto ultimo Cristo.
I sette libri che compongono il ciclo, però, per quanto possa sembrare paradossale data la fitta rete di rimandi teologici che li caratterizza, non furono l’esito di una programmazione a tavolino, studiata nei minimi dettagli, quanto lo sviluppo di un’intuizione giovanile che poté germogliare solo quando la semente della fede attecchì nel cuore indurito di un ateo recalcitrante: «L’immagine di un fauno con un ombrello e dei pacchi in un bosco innevato. Ho avuto in mente questa immagine dell’età di sedici anni; poi, un giorno, quando ne avevo circa quaranta mi sono detto: “proviamo a scriverci sopra una storia”». Lewis riuscì a trovare la forza di mendicare una risposta a Dio, e Dio si fece riconoscere. Quando per la prima volta, nel 1929, lo scrittore cadde in ginocchio per pregare, intuì che l’esistenza è dono peculiare, che acquista ancora più valore se si è disposti a offrirla agli altri.
Lewis svela al lettore il fascino di una vita spesa a verificare come la pretesa cristiana sia l’unica chiave di lettura coerente della realtà, l’unico strumento per poter mettere insieme i cocci rotti di giornate governate in apparenza dal caos. Per lui tutto questo prese a valere ancora di più quando Joy Gresham si spense nel 1960, dopo una lunga malattia: l’unica donna che aveva amato, sposata in una stanza d’ospedale, gli era stata sottratta ingiustamente. Il dolore che provò il novello Giobbe in quell’occasione si trasformò lentamente da disperazione a provvidenza, uno scossone benefico che gli fece prendere coscienza di come, al netto delle tante parole spese, la sua fede fosse in realtà un castello di carte, pronto a disfarsi al minimo imprevisto.
I libri che vanno a comporre le “Cronache di Narnia”, seppur scritti anni prima, tra il 1950 e il 1956, anticipano tra l’altro, con piglio profetico, le riflessioni che l’autore affronterà all’approssimarsi della morte. Il compendio della dottrina cristiana si sposa in essi con l’esperienza viva di un uomo, con la carne e il sangue che scorre nelle sue vene.
Sbaglia dunque chi confonde i romanzi di Lewis per un manualetto dottrinale sotto mentite spoglie o, peggio ancora, per un vile mezzo per sfuggire alla realtà; tutt’altro, come “Narnia. La teologia dell’armadio” dimostra, quello di Lewis è uno degli inviti più commoventi promossi dalla letteratura del XX secolo a ritornare al reale dopo decenni di finte filosofie e menzogne istituzionalizzate. Come scrisse Tolkien, la fuga non è per forza qualcosa di negativo: provate a proporla a un prigioniero …

Il libro: Antonio Carriero (a cura di), Narnia. La teologia dell’armadio, Padova, Edizioni Messaggero, 2016, 192 pagine, 15 euro.